giovedì 13 settembre 2007

uffici e caccole

In uno degli stanzini del bagno delle donne, al primo piano dello stabile di periferia nel quale lavoro, ci sono un paio di caccole di naso appiccicate alle pareti ad altezza torace/occhi.
E’ una immagine che mi disgusta talmente tanto che ho voluto scriverla per vedere se la ricerca di una formulazione semplice mi potesse aiutare ad accettarla.
Non è l’unica immagine disgustosa che una si trova ad affrontare quando frequenta un bagno pubblico, anche se il pubblico in questo caso si limita alla trentina (forse meno) di donne che ogni giorno utilizzano questi gabinetti. Ma confesso di avere abbastanza in antipatia le persone che insistono in maniera ostentata sulle loro abitudini superigieniche da perfettini solo allo scopo di costruirsi un personaggio; non faccio parte del gruppo di donne acide che si gratifica ad attaccare biglietti minacciosi sulle pareti dei bagni, invocando in modo altisonante rispetto, civiltà, senso di responsabilità...
Mi piacerebbe saper declinare davvero la parola tolleranza e, prima di arrivare alla tolleranza sociopolitica, mi esercito, ci provo almeno, a tollerare i piccoli errori altrui, le dimenticanze, le maleducazioni frettolose, le debolezze, le nevrosi.
Scarichi non tirati abbastanza, scopini non utilizzati alla bisogna, schizzi e gocce sulla tavoletta, carta igienica svolazzante sui pavimenti non sono immagini carine, eppure sono immagini di sporcizia che... (vediamo un po’ come potrei esprimere il concetto?) ... si tratta di una sporcizia che è “coerente conseguenza” dell’uso del bagno, uso villano indubbiamente, ma uso appropriato.
Invece mi inquieta pensare che qualcuna delle profumate e rispettabili coimpiegate abbia deliberatamente infilato l’unghietta lunga e laccata nella fremente narice e, altrettanto deliberatamente, abbia ripulito la punta della falange strisciandola con disprezzo sulla piastrella azzurra.
Mi inquieta.
Ogni volta che distrattamente mi chiudo proprio in quello stanzino mi chiedo se capita anche a lei di rientrarci, altrettanto distrattamente, e, mentre armeggia con la costosa griffe che ricopre le sue gambe, incrociare con lo sguardo il piccolo pezzo pietrificato che scintilla al sole.
Quel piccolo pezzo è ormai per me il simbolo della desolazione esistenziale di questo ambiente lavorativo, del nulla un po’ putrido nel quale siamo decorosamente immersi, consapevoli privilegiati dallo stipendio fisso a vita, in attesa di prepensionamenti da fusione sui quali sputeremo, senza capirci nulla, avendo barattato l’esistenza per un mutuo.

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