martedì 19 gennaio 2010

Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki

Capita qualche volta di fare dei sogni imprevisti che prendono le persone e le situazioni di tutti i giorni e le piegano a un succedere delle cose irrazionale: sono i nostri desideri, sono le nostre paure? A volte i sogni sono così impressionanti, così intessuti di verosimiglianza, oppure semplicemente così belli, così aderenti ai nostri bisogni, che al risveglio non riusciamo a liberarcene. Usciamo fra la gente al mattino e le solite persone non ci appaiono più le stesse perché, a loro totale insaputa, hanno abitato i nostri sogni e hanno detto e fatto cose che sembrano aver cambiato la realtà.
Poi l’impressione va scemando mano a mano, ma resta il fatto che noi e loro ci siamo incontrati altrove, sul ciglio del mondo, su un confine sfuggente.
Forse a questo pensava Murakami mentre scriveva questa follia, questo manga, questo mistero, questo pozzo di bizzarie.
Dentro Kafka sulla spiaggia ci sono un sacco di cose, proprio un sacco: un’abbondanza che abbaglia e fa gridare al genio.
Una generosa manciata di musica contemporanea, icone pubblicitarie, mode, pezzi di storia, citazioni filosofiche e libri, libri, libri a profusione, riferimenti letterari a iosa: una biblioteca è al centro della narrazione e leggono (o sono privati della capacità di leggere) tutti i protagonisti. Ma proprio leggono! Leggono come pazzi, riescono a passare intere mattinate, lunghi pomeriggi, interminabili giornate isolati al centro della foresta leggendo!
Poi città e squallore metropolitano contemporaneo mescolato con storia e antichità giapponesi.
Poi crudeltà splatter e misticismo. E amore romantico e sesso generoso e delicato.
Gatti parlanti, pietre magiche, beethoven, persone che dormono due giorni di fila, bambini che cadono in catalessi... impossibile elencare le mirabilia che intasano il romanzo, sempre leggero, scoppiettante di idee nuove ad ogni voltare di pagina.
Impossibile annoiarsi. Impossibile non desiderare di restare immersi nella lettura per scoprire che cosa succede.
Solo che quel dispettoso di autore alla fine non fa succedere niente: un mistero dopo l’altro, un indizio intrigante dopo l’altro e... alla fine non si disvela alcunchè. Come si fa a non incazzarsi?

E poi, Scarlett Thomas (Che fine ha fatto Mr. Y? PopCo...) si è fatta ispirare da Murakami? Murakami si è fatto ispirare da Scarlett Thomas? Le analogie sono parecchie!

lunedì 11 gennaio 2010

questo è un uomo?

moni ovadia legge adriano sofri che rilegge primo levi

a tutti e tre il mio grazie
perché a volte è difficile, è proprio difficile andare avanti


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Austerlitz di Winfried G. Sebald

Prendi un mucchio di fotografie e gioca a stenderle dal verso sbagliato e in ordine casuale su un tavolo; poi rigirale e osservale nella sequenza, ti racconteranno una storia? Non è detto. Voglio dire, non è detto che si tratti di una storia che ha un capo e una coda, ordinata, sequenziale e consolatoria.
Potrebbe invece scaturirne una pianta dodecagonale come una fortezza, o un labirinto senza punti di riferimento, o un gioco di scatole cinesi in cui chi racconta riporta un racconto di qualcuno che a sua volta racconta e riporta da altri che riportano storie che sono in realtà solo puzzle sfocati di immagini sbiadite che si scompongono e ricompongono. Oppure è un cerchio che si richiude su se stesso per cui vedi Napoleone ad Austerlitz e vedi il dipanarsi del novecento europeo con le sue fortezze, nate come celebrazione di superiorità difensiva del tutto illusoria e finite come luoghi di deportazione e sterminio nazista. L’architettura e gli oggetti: stazioni ferroviarie e monumenti, palazzi e cupole, e oggetti, chincaglierie, e poi aerei, e libri, e registri.
Vedi i simboli di grandezza architettonica opprimenti e senza umanità e vedi questi stessi simboli disseccarsi, ricoprirsi di guano e diventare tombe sepolcrali, cataste di documenti assurdamente minuziosi a incasellare la realtà con la presunzione di codificarla e renderla perfetta; rovine in bianco e nero di una grandezza civile basata sull’orrore; e vedi tutto decomporsi nelle storie piccole, puntini di dolore, tombe senza nome di quelli che hanno dovuto offrire le proprie esistenze alla follia della deportazione e dello sterminio; un labirinto senza via d’uscita, perché foto e parole continuano a girare a vuoto come il protagonista dal cognome che dà il titolo, ex bambino ebreo affidato a un treno della salvezza da Praga a Londra negli anni della persecuzione nazista, condannato a una solitudine interiore quasi folle e a un girovagare in età matura fra Parigi e Praga e Londra, inseguendo vanamente per il cuore dell’Europa la propria identità.
Questo libro è un viaggio nel cimitero della illusione della civiltà.
E’ un monolite di scrittura spessa e colta, eppure fluida. Non c’è un solo capoverso. La prosa procede per continue aperture di nuovi fronti di cose filosofiche e suggestioni artistiche, di perle di conoscenza e stupori naturalistici, di cronache di piccoli oggetti e bozzetti della memoria, mai un discorso aperto si chiude, ogni tombino che si dischiude ti trascina in un gorgo ad aprirne un altro, come in un malinconico e crepuscolare gioco di continue associazioni mentali. Buchi neri di malinconia incurvano di tanto in tanto lo spazio di angosciante apnea nel quale procede inebetita la lettura: uno su tutti, la terribile foto riemersa dal nulla di Agata, la mamma perduta, deportata, svanita nei fumi della follia della storia, un viso scuro che mi assomiglia troppo.
Potente.