lunedì 29 ottobre 2007

Abatantuono c/o Pupi Avati

Ho visto La cena per farli conoscere e non l’ho capito.
Avevo elementi forti di richiamo: Diego Abatantuono e Pupi Avati, insomma come dire Il testimone dello sposo e Regalo di natale. Il testimone dello sposo è un film che avevo molto amato, delicato e profondo, commuovente e recitato benissimo.
Più di recente poi, La seconda notte di nozze aveva solleticato corde struggenti con la superba recitazione di Antonio Albanese, l’affresco appassionato di un mondo agropugliese cui appartengo nel fondo del cuore, la Ricciarelli così perfettamente nella parte, un Neri Marcorè così finalmente cattivo e divertente.
E poi Il cuore altrove, adesso che ci penso...
Ma questo film mi ha lasciata asciutta. C’era forse dietro una urgenza troppo personale, non filtrata, come negli altri film citati, attraverso la storia, il passato, usi e costumi raccontati con particolari nostalgici e bozzetti precisi, che fanno da sfondo sul quale lo sguardo si adagia.
Rapporti familiari, figura paterna incapace da recuperare in zona Cesarini dell’esistenza, disprezzo dell’attuale mondo televisivo. La rappresentazione avviene attraverso storie appena accennate, il finale pare rabberciato in tutta fretta...
Poi la recitazione; non ho strumenti per esprimere giudizi sulla professionalità dell’uno o dell’altro, ma mi sento di dire questo: Abatantuono è bravissimo forse perché lui e il suo personaggio sono indistinguibili, guardi il film e Abatantuono è il suo personaggio.
Le tre figlie molto meno, anzi direi che guardi il film e vedi la simpatica Vanessa Incontrada, la incantevole Ines Sastre e la prezzemolina accattivante Violante Placido che fanno finta di essere le figlie del protagonista. E’ qui la differenza, vero?

lunedì 22 ottobre 2007

le vergini suicide, eugenides

Le vergini suicide è uno dei libri più belli e più veri che abbia mai letto sull’adolescenza.
Fuori dal contorno della realtà il contenuto sostanziale di ciò che accade: un primo incomprensibile suicidio di una tredicenne, un progressivo isolamento e irrigidimento bigotto dei genitori che culmina con la vera e propria prigionia delle 4 sorelle superstiti e, infine, il suicidio collettivo delle quattro ragazze.
Un racconto fantastico e insieme una descrizione di un ambiente sociale.
Per quanto la breve vicenda terrena di queste fanciulle semidee sfumi nella mitologia, il campo è invaso dai dettagli più quotidiani e prosaici: i loro indumenti intimi, i loro piccoli oggetti nel bagno, i loro aliti, il loro sudore, la lista della spesa, una atmosfera intrisa di sensualità puzzolente, di adolescenti accaldati e dai modi grossolani, di femminilità inquietante, di maschi che spiano femmine che si lasciano spiare in un gioco eterno e vitale, di femmine e maschi che crescono nei corpi e nello spirito e sognano cose diverse, ma destinate per magia a incastrarsi attraverso felicità brevissime e sofferenze lunghe e addomesticate.
Condanna della superficialità benpensante e della rigida applicazione di regole rigide e vuote dell’educazione perbenista? Inno dolente alla vita e alla individualità libera? Forse anche.
Il racconto avviene mediante un tentativo di ricostruzione degli eventi da parte di un gruppo di maschi adolescenti: un unico lungo flashback raccontato da un coro, come una tragedia greca.
Chi ha ucciso le sorelle Lisbon?
Patetico da parte delle brave persone che costituiscono la brava middle class, in un’imprecisata provincia americana, tentare una risposta basandosi su analisi sociologiche e luoghi comuni sulla gioventù.
Stranamente l’io narrante collettivo non esprime mai nei confronti dei comportamenti irrazionali e oppressivi dei genitori Lisbon una aperta condanna; più che carnefici essi appaiono vittime di se stessi, pietrificati in un ruolo convenzionale al quale ciecamente si sono abbandonati; magnifica poi la descrizione lenta, precisa del progressivo disfacimento materiale della casa dei Lisbon, il buio oltre le finestre, l’erbaccia, l’odore di marcio che sembra diffondersi nell'aria intorno all'abitazione, mentre il nucleo familiare si chiude sempre più al rischio tumultuoso e sensuale della vita.
Chi o che cosa ha ucciso allora le sorelle Lisbon? Mentre leggi ti accorgi che è come se nel tuo profondo conoscessi perfettamente la risposta.
Quando ti mordi le labbra e chini il capo e ti conformi a quello che i tuoi 40 anni vogliono da te... ti ricordi perfettamente di quando anche tu ti sei suicidata, più o meno venti anni fa. Perché quello che sappiamo è che non ci importa se le ragazze siano morte o semplicemente siano diventate le adulte che la vita vuole che diventino.
E’ così che muoiono gli adolescenti: uccisi dalla vita che avanza.


“... non ha vent’anni ancora, cadrà l'inverno anche sopra il suo viso, potrete impiccarlo allora... “Fabrizio De Andrè, Geordie

mercoledì 17 ottobre 2007

Il rumore sordo della battaglia, prima versione

Non bisognerebbe mai leggere un libro avendo presente il volto dell’autore; il suo modo di parlare; la luce che ha negli occhi; le sue idee politiche.
Arrivare a leggere Scurati perché mi sono incuriosita a causa di alcune sue apparizioni in televisione, delle sue dichiarazioni al Campiello, delle sue affermazioni di manifesto, delle sue prese di posizione sulle pagine dei quotidiani mi rende più complicata la riflessione. E’ come se ogni pagina mi rimandasse a un rapporto personale, a una dichiarazione di esistenza dell’autore come individuo in carne ed ossa. E mi sento condizionata.
Doveva avermi colpito proprio tanto visto che mi sono decisa ad affrontare un libro piuttosto spesso, visivamente poco invitante (pagine solide, con pochi dialoghi, pochi punto e a capo), con sulla copertina una immagine tozza e marrone che da lontano sembra uno scarafaggio schiacciato e si rivela poi essere un guerriero in armatura steso al suolo. E come ho fatto a non farmi scoraggiare dal titolo che, sia pure così musicale, dolce e poetico, suggerisce lettura di guerra, lettura di noiose formazioni in campo, lettura di strategie ed eventi piccoli ma sanguinosi.
Ma si sa che questo è il trucco, la molla che fa scattare la curiosità: una esplorazione di quanto a prima vista appare lontanissimo dal mio immaginario femminile e materno, con la garanzia comunque di poter chiudere il libro e seppellirlo nello scaffale, quando capissi che abbiamo poco da spartire.
E infatti è guerra, non come sfondo cruento a più lievi vicende, ma come protagonista assoluto. Peggio: religione della guerra. Fino a un manipolo di pazzi scatenati che crede che le armi da fuoco abbiano tradito le virtù eroiche, allontanando la storia dal suo senso più alto e si abbandona a una violenza demoniaca.
C’è un livello di lettura che mi sfugge ed è la appassionata erudizione che si intuisce su argomenti che non conosco; eppure questa erudizione mi blandisce, con il suo linguaggio raffinato ed elegante, una eleganza formale che non viene meno anche quando modella una materia che sguazza dal sangue agli intestini spappolati e ai liquidi corporei più volgari.
C’è un altro livello di lettura che mi diverte: il personaggio del professore contemporaneo con la sua mediocre follia; l’ingenuità del cavaliere dei primi capitoli perso dietro le sue altisonanti costruzioni mentali che sfiorano l’idiozia; le scene di sesso medioevali e contemporanee, distribuite qua e là, delle quali a volte non capisci bene la coerenza con il filo narrativo e che spesso hanno un sapore un po’ grottesco e fastidiosamente fallocentrico.
Ma mi sento su tutto affascinata da una fremente sincerità di rappresentazione globale, di ricerca di rapporto profondo fra la pagina scritta e il destino umano. Credo che ulteriori critiche, anche negative, che ho letto in rete e che possono essere parzialmente condivisibili, non possano prescindere da questa linea di demarcazione fra ciò che è scrittura fine a se stessa e ciò che tenta di farsi vita e credo che questo romanzo si collochi decisamente da questa seconda parte del guado.
Ho letto e riletto gli ultimi due capitoli e ho pensato che purtroppo, a tendere bene l’orecchio, c’è davvero ed è facilmente riconoscibile ovunque, anche in questo angolo kafkiano d’ufficio, quel sottofondo, il rumore sordo della battaglia.

lunedì 15 ottobre 2007

l'ultimo inquisitore, milos forman

A chi piacciono i film in costume; a chi piacciono gli affreschi storici; a chi piace il gioco degli incastri fra la storia dei piccoli e la storia dei grandi. Quindi a me.
Con il valore aggiunto dei quadri di Goya.
Non è un gran film, in realtà. La storia è semplice, da feuilleton. I personaggi sono più raccontati che rappresentati. E’ un film didattico, da cineforum delle scuole medie.
Però ne vale la pena.
Non fosse altro che per i titoli di coda stampati sopra le opere di Goya.

venerdì 12 ottobre 2007

commessi di tutto il mondo...

Il negozio è più che un negozio; sono grata a mio figlio solo perché ho avuto il privilegio di esserne cliente. Non importa che ci lasci quasi cinquanta euro per tre fascicoletti di una dozzina di pagine l’uno, stampati su carta ingiallita. Non importa che gli autori di ciò che vi è scritto sono morti da secoli e quindi ciò che vi è scritto dovrebbe essere patrimonio dell’umanità. Vuoi mettere il legno antico, scuro e lucido che riveste l’intera bottega? Vuoi mettere l’angolo di Milano che accoglie quest’universo d’altri tempi? Vuoi mettere l’allineamento elegante di pianoforti d’ogni tipo che copre mezzo salone? E le vetrine gigantesche sulle pareti stipate di trombe, violini, clarinetti? Vuoi mettere entrare con in mano un appunto autografo di un maestro con l’elenco di incomprensibili mirabilia pentagrammate?
E, soprattutto, vuoi mettere la magia di questo commesso che prenderà in mano il tuo dotto elenco e spalancherà scaffali malmessi, tirandone fuori raccoglitori anni cinquanta dai cordini consunti, contrassegnati da scritte malferme e nomi di compositori, di musicisti antichi, di manuali anni quaranta così fondamentali da essere ancora e per sempre i Manuali? A meno che, fra te e il commesso esperto, non si frapponga lei, corvina, magra e acida: “Faccio io, lei vada a smontarmi quella roba, che non posso neanche entrare nel mio ufficio...” Gli strappa di mano il mio biglietto, la padrona. Chi altri può essere? La padrona di un negozio antico. L’avrà ereditato, l’avrà comprato, ne avrà sposato l’erede? Di sicuro è una questione di soldi se il mio omino gentile ed esperto scompare a capo chino dietro un lugubre scaffale e per me hanno inizio venti, dico venti, lunghissimi minuti di attesa davanti al bancone; la “signora” tira su con il naso, risistema ogni momento la chioma e si perde, lenta, incerta, nell’esame di quei raccoglitori alla ricerca di ciò che mi serve. Ho perfino il dubbio che abbia qualche difficoltà con l’alfabeto, o con la vista, o definitivamente con il cervello: tira giù raccoglitori, allenta i nodini, lentamente esamina i fascicoli che ricadono sull’enorme banco; scuote la testa, rimette insieme la pila, riallaccia i cordini, riposiziona a fatica il raccoglitore, cerca, guarda, tira giù, ricomincia. Venti minuti in cui mi sembra che generazioni di lavoratori dipendenti, ombre da “quarto stato” mi si accostino invocando vendetta... Adesso vado, penso, adesso le strappo dalle mani il mio elenco, le dico secca che non ho tempo da perdere, che tornerò quando sia disponibilie il commesso che lei ha appena trattato da servo della gleba. Venti minuti di urgenza di lotta di classe che mi borbotta nello stomaco, ma ho paura di far peggio per quell’uomo che ormai è il mio eroe del popolo.
Venti minuti.
Poi lui ricompare, silenzioso. Lo chiama. Sbaglio o la vocetta si è fatta meno imperiosa? “Guarda un po’ tu” gli ha detto. Il suo modo di chiedere aiuto?
Il mio commesso ci ha messo due minuti.
Due minuti e tanta cortesia.
Commessi di tutto il mondo... unitevi.

lunedì 8 ottobre 2007

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo

Una situazione surreale e fantascientifica: un uomo affetto da una anomalia genetica che lo fa scomparire senza alcun controllo da parte sua e comparire nudo e sofferente qua e là nel tempo, a volte in situazioni estranee alla sua vita, la maggior parte delle volte, invece, in momenti salienti dell’esistenza sua e delle persone che ama e che lo amano.
Un’idea narrativa svolta raccontando minuziosamente la quotidianità e lo sforzo di Henry e sua moglie Clare per avere una vita normale.
Laddove era possibile addentrarsi in arditi voli e meditazioni sullo scorrere del tempo, sul determinismo e la casualità, sulle tecnologie genetiche, l’autrice fa invece una scelta minimalista, quasi soffocante, e risolve la narrazione nel chiuso del dramma di Henry che non può gestire questo suo potere e ne è totalmente in balia e nel dramma di Clare, cui spetta il compito di aspettare, mettere da parte vestiti, pregare perché suo marito non scompaia nelle situazioni meno opportune.
Così è una storia d’amore. Un amore totale e disperato. Soprattutto totale.
Insomma sono combattuta: da una parte il fascino malinconico che pervade la storia, l’idea dell’amore monolitico e assoluto dei due protagonisti che non si ribellano mai e convivono con l’inatteso, con il tormento di sapere e non poter dire, di aver già vissuto e non poter cambiare, di rivivere angosce decine e decine di volte, convivono con la difficoltà di avere enormi spazi di conoscenza sulla vita dell’altro senza che l’altro sappia e nessun potere per fermare il presente.
Dall’altra ho il fastidio sottile nei confronti del circolo insopportabilmente chiuso su se stesso di tutta la storia, del fatto che uno dei due (Henry) pur faticosamente e con grave pericolo, passeggi nella vita dell’altra (Clare) modellandola a suo piacimento (ché le incursioni di un Henry più che trentenne sul prato di casa di Clare bambina siano alla fine delle violenze psicologiche belle e buone). Clare bambina e adolescente vivono costantemente nell’attesa delle apparizioni di Henry, se ne innamorano e che altro mai potrebbero fare? I viaggi nel passato non cambiano il corso delle cose, come sostiene Henry? La comparsa di quella specie di angelo nudo sul prato non crea una pressione deterministica sulla vita di Clare? E questa insistenza sull’aspetto fisico del rapporto fra i due non sottolinea ulteriormente la condizione di possesso di Henry su Clare?
Però il libro è scritto con una precisione ammirevole nel rapporto fra gli accadimenti e gli incontri e quello che l’uno sa e l’altra no e viceversa; inoltre la lettura ti risucchia totalmente nella spirale avvolta su stessa della vita escheriana di Henry e Clare. Anche quando ci sono descrizioni di quotidianità apparentemente inutili, le segui con il fiato sospeso, aspettandoti che da un momento all’altro Henry scompaia, oppure appaia il suo doppio in arrivo da chissà quale momento futuro, oppure che ci sia qualche piccolo particolare che nel prosieguo della narrazione ti servirà per mettere insieme qualcuno dei tanti puzzle temporali che l’autrice modella fra le pagine.
Una specie di aria magica si materializza intorno al libro e all’immagine di copertina. Con Clare aspetti trepidante le inattese scomparse di Henry e poi... puff, ti scompare anche il libro. Perché l’avevo portato con me e mancavano forse venti pagine e, godendo del sottile piacere che me ne derivava, immaginando ormai lo svolgersi del finale, l’ho chiuso e ho deciso di rimandare il rito della pagina conclusiva e celebrarlo nel silenzio di mezzanotte rannicchiata nel letto. Ma il libro mi ha punito ed è rimasto, credo, sul cruscotto della macchina della persona gentile di cui so solo il cognome e dal quale insieme ad altri ho accettato il passaggio verso casa ieri sera.
Adesso aspetto... che si rimaterializzi qui ed ora... con la sua immagine di copertina sfuocata e inquietante; ma mi piace pensare che sia giusto così: Clare non sa quello che sa Henry e viceversa, il finale è ancora aperto, anche viaggiando nel passato e nel futuro mi è rimasto il gusto di immaginare che le cose potranno ancora cambiare prima dell’ultima riga.