lunedì 11 gennaio 2010

Austerlitz di Winfried G. Sebald

Prendi un mucchio di fotografie e gioca a stenderle dal verso sbagliato e in ordine casuale su un tavolo; poi rigirale e osservale nella sequenza, ti racconteranno una storia? Non è detto. Voglio dire, non è detto che si tratti di una storia che ha un capo e una coda, ordinata, sequenziale e consolatoria.
Potrebbe invece scaturirne una pianta dodecagonale come una fortezza, o un labirinto senza punti di riferimento, o un gioco di scatole cinesi in cui chi racconta riporta un racconto di qualcuno che a sua volta racconta e riporta da altri che riportano storie che sono in realtà solo puzzle sfocati di immagini sbiadite che si scompongono e ricompongono. Oppure è un cerchio che si richiude su se stesso per cui vedi Napoleone ad Austerlitz e vedi il dipanarsi del novecento europeo con le sue fortezze, nate come celebrazione di superiorità difensiva del tutto illusoria e finite come luoghi di deportazione e sterminio nazista. L’architettura e gli oggetti: stazioni ferroviarie e monumenti, palazzi e cupole, e oggetti, chincaglierie, e poi aerei, e libri, e registri.
Vedi i simboli di grandezza architettonica opprimenti e senza umanità e vedi questi stessi simboli disseccarsi, ricoprirsi di guano e diventare tombe sepolcrali, cataste di documenti assurdamente minuziosi a incasellare la realtà con la presunzione di codificarla e renderla perfetta; rovine in bianco e nero di una grandezza civile basata sull’orrore; e vedi tutto decomporsi nelle storie piccole, puntini di dolore, tombe senza nome di quelli che hanno dovuto offrire le proprie esistenze alla follia della deportazione e dello sterminio; un labirinto senza via d’uscita, perché foto e parole continuano a girare a vuoto come il protagonista dal cognome che dà il titolo, ex bambino ebreo affidato a un treno della salvezza da Praga a Londra negli anni della persecuzione nazista, condannato a una solitudine interiore quasi folle e a un girovagare in età matura fra Parigi e Praga e Londra, inseguendo vanamente per il cuore dell’Europa la propria identità.
Questo libro è un viaggio nel cimitero della illusione della civiltà.
E’ un monolite di scrittura spessa e colta, eppure fluida. Non c’è un solo capoverso. La prosa procede per continue aperture di nuovi fronti di cose filosofiche e suggestioni artistiche, di perle di conoscenza e stupori naturalistici, di cronache di piccoli oggetti e bozzetti della memoria, mai un discorso aperto si chiude, ogni tombino che si dischiude ti trascina in un gorgo ad aprirne un altro, come in un malinconico e crepuscolare gioco di continue associazioni mentali. Buchi neri di malinconia incurvano di tanto in tanto lo spazio di angosciante apnea nel quale procede inebetita la lettura: uno su tutti, la terribile foto riemersa dal nulla di Agata, la mamma perduta, deportata, svanita nei fumi della follia della storia, un viso scuro che mi assomiglia troppo.
Potente.

Nessun commento: