venerdì 28 dicembre 2007

covacich, Fiona

Pieno di idee. Zeppo di ritagli perfetti sul nostro vivere per immagini. Geniale nella rappresentazione dissociata del protagonista, al quale non riusciamo a dare una identità precisa: come convivono il ricco autore di un successo che si alimenta del peggio televisivo di questi ultimi anni, il marito fraterno dell’intellettuale di sinistra, il padre adottivo che passeggia per i vialetti perfettini di Milano2, il maniaco degli esplosivi, il pazzo bombarolo dei supermercati...?
Il romanzo si dipana per angosce interiori e si risolve precipitosamente; si poteva approfondire qualche aspetto? La lettrice lenta avrebbe voluto più gradualità e più sviluppi narrativi (lo schifo del reality, il personaggio di Maura...), ma forse un rappresentazione del nostro quotidiano è ormai verosimile solo se accelerata, accennata, non spiegata, flashata.

lunedì 24 dicembre 2007

avoledo, Tre sono le cose misteriose

Un nobile intento di fondo (d’altra parte stiamo condannando il Mostro, un capo di stato portato sui banchi di un tribunale internazionale per genocidio e efferatezze varie); una scrittura asciutta e capace di suspense (anche quando la suspense alla fine non si scioglie); idea narrativa interessante per cui la storia e la politica sono raccontati ed evocati e insomma sono lo sfondo sfocato, mentre in primo piano ci sono i rapporti familiari, il bambino soprattutto, le paure, gli incubi, i ricordi personali, i dolori e gli orrori nascosti dentro le immagini intime del passato; una eco mcewaniana, secondo me, molto evidente, soprattutto nello svolgersi lentissimo e preciso nei dettagli di alcuni momenti: la visita all’ipermercato, la gita sul lago, la notte passata sul videogioco.
Allora che cosa non mi è piaciuto? Forse che tutto è pervaso da una forte affascinazione nei confronti della materia trattata, questo maneggio di “cose da uomini”: computer, giochi di guerra, fatti di guerra tramandati da padre a figlio, da suocero a genero, robe da eroi solitari...
Una donna è una moglie lontana, amatissima per carità come no, ma chissà perché incapace di comprendere che suo marito sta facendo la storia e capricciosamente va a passare le sue serate solitarie da un gay un po’ macchiettistico; un’altra donna sarebbe in realtà una guardia del corpo e quindi accolta nel meraviglioso universo dei maschi duri e puri che disinfettano il mondo dagli orrori ma, guarda caso, appena resta sola con l’eroe, gli si offre fisicamente; la terza donna è una domestica a metà strada tra una invasata e una imbecille.
Ecco, più che approfondimento psicologico dei personaggi, mi sembra che qui ci sia l’approfondimento di un solo personaggio, con una decina di figurine che gli girano intorno fatte a sua misura, incapaci insomma di costituire un vero contraddittorio.

venerdì 21 dicembre 2007

Irene, Natale, la pace...

Temo che Irene non abbia pace.
Temo seriamente che Irene non riesca a scivolare via e sia rimasta sospesa in una strana via di mezzo e che, senza quei vincoli di spazio che rendono le cose così difficili a noi viventi, Irene stia vagando fra le città e i cuori; e stia abitando le angosce di quelli che la pensano adesso o l’hanno pensata in questi giorni. Temo che sia un po’ ovunque, soprattutto non è sul tavolo dell’obitorio dove l’hanno posata.
Questa notte.
Nella, a mille chilometri di distanza, si è svegliata. E’ andata in bagno a sciacquare la faccia però si sente intontita; sarà colpa dell’antibiotico, l’ennesima pastiglia, quella del cuore accanto a quella della tiroide accanto a quella della circolazione accanto... Appunto, la pastiglia. Va in cucina e accende la luce ché d’inverno è ancora buio la mattina presto: quella della tiroide, appunto. Ma fa freddo e allora, a passo rannicchiato di troppi anni, se ne torna in camera a infilarsi calze e vestiti e l’orologio adesso lo vede e fa l’una e cinquanta. L’una e cinquanta... vuol dire che si è svegliata all’una e trenta circa e si è alzata credendo che fosse già mattina e che cosa l’ha svegliata come fosse giorno, all’una e trenta di una notte di quasi Natale?
All’una e trenta Irene ha smesso di vivere e Michela, a duecento chilometri di distanza, ha sognato suo figlio nella bara e gli uomini in divisa che volevano inchiodarla, come nel film di Nanni Moretti, e lei ha urlato e si è attaccata alle spalle fredde del corpo magro di quindicenne, che nel sogno terribile era morto, e ha urlato, e si è svegliata e faceva freddo ed era l’una e mezza, proprio nel momento in cui Irene si è arresa, hanno detto a Michela il mattino dopo.
L’aveva scritto già qualcuno in qualche storia: la Tamaro aveva immaginato uno schianto nell’armadio di notte all’improvviso nella stanza della protagonista di Va’ dove ti porta il cuore, mentre il suo vero amore moriva altrove. Anche Coe ci aveva giocato, immaginando il presagio di morte a migliaia di chilometri di distanza, mentre moriva Imogen, ne La pioggia prima che cada.
Chi ci crede a queste cose, dai...
Chi ci crede che Irene non ha pace, questo Natale.

lunedì 17 dicembre 2007

La manutenzione degli affetti di Antonio Pascale

Ha un titolo bellissimo questa raccolta di racconti; davvero varrebbe la pena leggerla solo per questo.
Racconti piccoli di piccoli tentativi di esistere.
Il vuoto spaventoso della controra.
Il risucchio dentro il grasso che imprigiona un corpo da ragazzino.
La bellezza orribile del racconto del morto.
La sconfitta dei sogni di ricchezza.
...
Poi alla fine il regalo di una delle migliori descrizioni di una grossa fetta della mia vita che mai mi sia capitato di leggere, perché quel racconto sui due terroni ministeriali è veramente perfetto, ma chi non sa non può capire... credo.

Andrea Ki-duk

Siamo tutti case vuote e aspettiamo qualcuno che rompa la serratura e ci renda liberi.
Questo pare l’abbia detto Kim Ki-duk, che è un regista e che ha fatto un film strano e bellissimo che si chiama Ferro3.
Film visto da tempo e ne ricordo ancora scene, suggestioni e silenzi. Chissà se è l’indizio giusto per giudicare un buon film il fatto di ricordarlo così vivo dopo tempo. O il fatto che questa frase sia scritta sulla mia costa d’armadio in ufficio, affianco al calendario, ai disegni dei bambini e alla frase d’effetto di Ugo Foscolo.
E sarà perchè la frase comunque è lì quando mi alzo, quando mi giro verso il cestino e, anche se non la leggo, sfreccia veloce per microsecondi sotto lo sguardo, sarà per questo che ho pensato alle porte e alle serrature, quando Andrea è piombato rumoroso e massiccio nel nostro ufficio, ha stretto mani, si è sparapanzato su sedie, ha ascoltato discorsi di benvenuto, ha spettegolato quanto basta e si è sorbito le prime spiegazioni di questo lavoro/non lavoro, di questa finta rispettabilità cartacea.
Andrea mi è piaciuto d’istinto, un ragazzone di oltre un quintale, incapace di stare fermo, incapace di stare zitto per più di un minuto di fila; capace al contrario di guardarti negli occhi e esporsi.
Dentro gli occhi ho visto una serratura aperta; speriamo non ritrovi la chiave nelle prossime paludose giornate.
L’aria libera che circolava fra le sue finestre si è infiltrata sotto le mie ben chiuse e anche a sera a casa, mi sentivo diversa e non capivo, finché, risvegliandomi il mattino dopo, in quella fascia di consapevolezza magica che è l’alba di una nuova giornata in un letto sfatto e caldo, non ho visualizzato insieme la frase di Ki-duk e Andrea... e ho capito.

giovedì 13 dicembre 2007

bambine dalla ancora parte delle...

Alle sette di sera è il momento peggiore ché il pantano triste dell’ufficio ti sta ancora tutto attaccato sulla schiena e la porta di casa aprendosi ti sbatte addosso odore di chiuso, di letti rifatti di corsa al mattino, di zaini scolastici rotolati dal cortile della scuola direttamente sul divano, di cucina illuminata sul tavolo sporco di avanzi di un pasto indegno con il quale hai creduto di lavarti la coscienza lasciandolo pronto a rinsecchirsi sin dalle otto in attesa del loro ritorno da scuola. E proprio ora lei ti mette sotto il naso una nota da firmare umiliante: “Paola è venuta a scuola con pantaloni che lasciano scoperta la pancia e il sedere... “
Prima di terminare la lettura un senso di sconfitta storica mi travolge, di fronte alla grazia innata di mia figlia, la sua femminilità a me da sempre ignota, i capelli identici ad Avril Lavigne (o forse a qualunque altra starletta). Occhi truccati, diosanto, non ha ancora tredici anni. Tutto ho sbagliato: io sconfitta da quella poltroncina che eleva fino al soffitto i panni in attesa di stirature in ore piccole, io sconfitta da una pseudodonnina che sputtana le mie scarpe basse e la mia rabbia, sventolando allo scoperto il solco del sedere, perché lo ordina MTV.
La risposta immediata è una elaborazione mentale in tutta fretta di due righe sul diario che salvino la mia dignità, ecco qualcosa tipo: ... gentile professoressa, lei mi trova perfettamente alleata, le nostre figlie sono vittime omologate di un impianto di valori consumistici che offende la fatica con la quale la nostra generazione tenta di essere persona prima di tutto e non semplicemente un organo genitale dotato di braccia e gambe...
Ma c’è una ultima frase in fondo alla nota: “... si chiede alla madre più collaborazione e controllo .” Lo so, lo so, forse è scritta a fin di bene: ma quella frasetta che sposta su di me colpe e omissioni mi ribalta la prospettiva. Firmo e basta. Nessun rimprovero. Nessuna barricata fra quarantenni e tredicenni. Continuerò ad esserci per quello che sono Paola e fare la madre; tu fai la figlia e non sai quanto ci serve vederci ogni giorno così diverse e uguali allo stesso momento.

lunedì 10 dicembre 2007

lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte

ogni tanto bisogna andare a leggersi i libri di narrativa che le insegnanti di lettere fanno leggere a scuola media ai tuoi figli; bisogna davvero, ogni tanto; e rubarsi il libro con il figlio durante la domenica; e rimbrottarsi dicendo "non dirmi niente che lì non sono ancora arrivata"; bisogna leggerli questi libri; questo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte bisogna davvero...

martedì 27 novembre 2007

Ancora dalla parte delle bambine, numero 2

Bisogna prenderlo per piccole dosi questo lungo elenco di esempi, perché mentre leggi te ne fai carico e ti senti mortificata per tutte le volte che non hai capito piccoli segnali, subdoli ammiccamenti.
Certi mondi poi neanche li conosco; certe riviste, certi prodotti, certi programmi. Me ne sono sempre tenuta alla larga; ma era giusto tenersene alla larga, ignorarli come sottoprodotti culturali, quando invece stavano divorando tutto il mondo della comunicazione fino a diventare gli UNICI modelli proposti alle bambine e alle ragazze?
Una testimonianza dal mondo della pubblicità dice, a un certo punto del libro, che la pubblicità non è colpevole, che la pubblicità deve andare sul sicuro e fa appello all’esistente, che quanto appare negli spot è solo la registrazione patinata di una situazione reale; sono molto perplessa, a me sembra molto più articolata la cosa. A me sembra che l’esistente sia un miscuglio disordinato di tante pulsioni e che la pubblicità vada a cercarsi apposta il peggio di quel miscuglio e su quello faccia leva, rendendolo, in un crescendo che ben conosciamo, soft, accettabile, divertente, di moda, inevitabile fino a elevarlo al rango di riferimento culturale.
E ho un pensiero che mi turba leggero, mentre mi avvio alla fine della lettura: che l’andazzo degli ultimi anni così rovinoso per le donne sia stato generato casualmente in qualche ufficio marketing, che si sia cominciato a giocare su un po’ di retrogusto post-femminista, provando a riproporre qualche immagine tradizionalista e che la cosa abbia preso piede in una spirale che si autoalimentava: il mercato rispondeva e allora il prodotto veniva sempre più reso conforme alla specializzazione di genere fino alla caricatura e così via e così via. Questo potrebbe voler dire che più che prese di posizione culturali consapevolmente maschiliste, quello a cui assistiamo sia ancora una volta l’imporsi di un consumismo insensato fatto di marchi, di mondi immaginari, di icone slegate dalla realtà ma talmente roboanti nella loro imposizione mediatica da sostituire completamente la verità materiale delle persone.
Insomma i soldi dietro tutto, spiace dirlo in questo modo così semplicistico e quasi volgare; insieme a una nuova presenza della donna nella vita sociale, io da bambina ho visto affermarsi altre bellissime idee che riguardavano anche gli uomini e la società tutta e anche queste idee sono state umiliate nei decenni successivi da una vittoria trionfale e pecoreccia del liberismo e dell’egoismo del benessere.
Il dubbio che ho è: se vogliamo capire e reagire qual è il vero nemico cui dobbiamo rivolgerci?

venerdì 23 novembre 2007

Ancora dalla parte delle bambine, numero 1

Avrei voluto fare un commento a Ancora dalla parte delle bambine alla fine della lettura ma è impossibile. Sono solo all’inizio e sarà dura finirlo in fretta; ogni riga è densa. E si affollano cose da dire ad ogni pagina.
Potrebbe essere un saggio, ma mi accorgo che lo leggo come si legge una storia; potrebbe essere la storia negli ultimi 30 anni delle donne che mi circondano, ma mi accorgo che lo leggo come se fosse la mia storia.
Perché ero bambina negli anni settanta, perché ho letto Dalla parte delle bambine, perché ho fatto microscelte e compromessi, perché mi ritrovo stranita e amareggiata di fronte a che cosa sono, a come sono le mie coetanee, a come sono mia figlia e sue amiche. Perché mi chiedo se sono sempre stata vigile e consapevole di quello che stavo scegliendo.
Parliamone, mi sembra che mi dica questo libro. Vediamo di capire come è andata. Vediamo di sapere almeno che cosa è successo prima di arrivare a poterci chiedere il perché.
In mezzo a qualche inconsapevole connivenza mi scopro però compiaciuta a dire “... questo infatti a me non è mai andato giù...”
Per esempio leggere le considerazioni sulla filosofia e sul meraviglioso mondo dei negozi e delle riviste per mamme mi ha riportato indietro alle gravidanze e a quello strano senso di fastidio che avevo per il lezioso incanto. Mi ero presa tutta la colpa allora: sono io che sono timida, o forse ho un cattivo rapporto con il mio corpo e questo essere scaraventata al centro dell’attenzione mi mette a disagio, oppure sono una anticonsumista esagerata che vede il diavolo del profitto anche dove c’è buona fede, oppure sono poco sensibile o poco femminile e non sono portata per la maternità e chissà che disastro di madre sarò... oh insomma, leggendo il libro della Lipperini ho trovata suggerita la parola giusta: umiliazione! Umiliazione: questo finto mondo dove un neonato è solo un batuffolo di tenerezza e tu mamma un’idiota da istruire anche su come infilarsi un reggiseno o come cantare una ninna nanna ti umilia. Ti suggerisce soavemente una sensazione di inadeguatezza, ti induce a una triste posa bamboleggiante e, ovviamente, voilà, ti propina decine di assurde e costose soluzioni. E già che ci sono dico una cosa molto poco simpatica, ma sono certa che molte donne mi darebbero ragione: quelle cazzate micidiali della preparazione al parto, quei suggerimenti soft e severi insieme su come respirare, su come (udite udite) esercitare i muscoli pelvici in vista dello sforzo che dovranno compiere, cazzate micidiali appunto e lo capisci in un colpo solo quando tuo figlio che esce ti squarta viva e una faccia da stronzetta ti chiede scuotendo il capo se hai frequentato il corso pre-parto, perché è chiaro che è sempre colpa tua... Questo interiorizziamo da sempre e per sempre: è colpa nostra, di tutto quello che ci succede. Dal dolore del parto al figlio drogato, dallo stupro all’osteoporosi.
Ma sono solo all’inizio... e credo che ognuna di noi potrebbe scrivere dieci libri su ogni capitolo.
Questo è un libro aperto, che vive.

lunedì 19 novembre 2007

i giorni dell'abbandono, il film

Ho letto I giorni dell’abbandono un paio di anni fa; mi ricordo bene che l’interesse del libro non risiedeva nella storia piuttosto banale e a volte fastidiosa nella sua prevedibilità, quanto nella scrittura, nel racconto dell’inferno mentale della protagonista: il marito, i bambini, il vicino di casa, le amiche (o supposte tali) erano figure lontane, dalle quali alla protagonista arrivava una voce molto ovattata: era come se la donna si muovesse all’interno di una campana insonorizzata e da quei vetri trasparenti vedesse gli altri vivere e agitarsi, all’inizio con impotente dolore, progressivamente con sempre più attutita e quasi apatica indifferenza.
Ecco tutto questo nel film scompare, nel film resta solo la banalità della vicenda, una qualunque storia di corna alla quale la recitazione di Margherita Buy non riesce a dare forza.
Anzi: aver dovuto raccontare la vicenda ha finito col sottolineare ancora di più le debolezze nascoste nel libro.
Si potrebbe fare un lungo elenco ma scelgo su tutti due punti.
a) la figura del musicista; avere scelto di mettere al piano di sotto un grande musicista toglie credibilità: insomma 35enni mollate dal marito per una ragazzina non preoccupatevi, c’è sicuramente nel vostro condominio un musicista di fama internazionale scapolo innamorato di voi, come no!
Io ricordo invece che nel romanzo il musicista del piano di sotto era uno sfigato solitario che sapeva suonare uno strumento, e il fatto che la protagonista lo rivalutasse sentendolo suonare al concerto non significava che se ne innamorasse, e la soluzione finale del “ci amammo quietamente” io l’avevo interpretata come ripiego tiepido, non come happy end.
b) se, come nel libro, scelgo un livello di racconto mentale, posso permettermi di trascurare le quotidianità; se scendo di livello e devo rappresentare con i gesti quotidiani le difficoltà della mente, quel quotidiano deve avere un minimo di realismo; se poi quello che sto raccontando è l’inferno di una casalinga madre di due figli rimasta sola, santocielo, quel quotidiano è “il problema” , quel quotidiano deve giganteggiare, quelle banalità (chiamiamole così) fatte di malattie, figli, cucina, figli, spesa, scuola, figli, pulizie, figli... sono la valanga sotto la quale stramazza la donna normale che si vuole rappresentare; invece, nel film, l’appartamento perfetto e i figli che vanno a letto a comando e si abbracciano tra di loro sono di un irrealismo irritante. Ma non sono obiettiva, lo so...

Brucia Troia

E’ piuttosto strano Brucia Troia; nonostante la collocazione geografica abbastanza intuibile e la datazione precisa degli avvenimenti, la storia sembra vivere in una dimensione di epoche lontane e di personaggi primordiali. C’è un quartiere mitico e infernale popolato di derelitti, c’è un inarrivabile olimpo nel quartiere dei benestanti e c’è un luogo sospeso nel tempo e nello spazio: un brefotrofio di rituali assurdi dove si forgiano follie.
Non sembrano forse gli strampalati eroi un po’ quelle figure da epica delle scuole medie, raccontate da versi omerici tradotti in un italiano così lontano non solo dal parlato ma anche dalla scrittura familiare? Figure che diventano figurine. Archetipi senza famiglia che nessuno cerca, che scompaiono in un posto, riappaiono in un altro cambiando nome.
E non sa di fumetto anche tutta quella storia di padre Spartaco e del suo santuario di plastica?
Il susseguirsi degli eventi è ai margini di altre vite che forse in un altrove scorrono e progrediscono e guardano la partita del secolo, Italia-Germania 4-3, e costruiscono un progresso al quale i protagonisti del libro non partecipano; anzi quando sono chiamati a sfiorarlo è per devastarlo con il fuoco.
Li osservi come si osservano insetti, senza capire; e ti commuovi soprattutto per quei poveri gatti...
Ma Troia, prima o poi, brucia: dovremmo ricordarcelo.

martedì 13 novembre 2007

Flòrez, tu dono degli dei...

“Siamo pazzi, tutti”, dice Sandro Veronesi e sta pensando a ben altra cosa mentre lo dice in Caos calmo.
A me viene in mente questa frase, e il senso che può avere se riferita comunque al fatto che esiste qualcosa di bellissimo in questo pezzo di universo e di straccio infinitesimo di momento cosmico cui ci è dato di appartenere.
Esistono cose bellissime delle quali non ci accorgiamo, delle quali nessuno ci ha mai raccontato, o delle quali abbiamo avuto un assaggio e poi, presi dalle infelicità inutili che amiamo accogliere in grembo quotidianamente, abbiamo dimenticato.
Esiste la Bellezza, richiami di paradiso che si mostrano a noi, idioti che ce ne dimentichiamo e ci lasciamo lordare dalla Volgarità, dalla Bruttezza.
Penso così e ho quasi le lacrime agli occhi mentre ascolto e sento con tutta me stessa Juan Diego Flòrez cantare dal vivo, a pochi metri da me; ne osservo la schiena e l’addome diritto e i movimenti delle braccia e del collo; e la testa e le mani; non sembra umano o forse è troppo umano e siamo noi che ci siamo rassegnati troppo in fretta a non esserlo.
Ogni nota si riconosce pulita, legata alle altre da fili morbidi, prodotta da un numero infinito di respiri sapienti.
Suono schietto, alto.
Perfetto. Che cosa mai potrà significare perfetto? Forse non è il termine adatto.
“Bel canto” lo chiamano, “dono degli dei” mi dico.
Da lassù in alto è un tripudio: applaudono, gridano, battono i piedi.
Nella prossima vita questo vorrei essere: un tenore.
Oppure semplicemente il tappetino di Flòrez, rannicchiata sul pavimento ad assorbire le gocce magnifiche della sua magnifica fatica.

venerdì 2 novembre 2007

Il sopravvissuto, di Antonio Scurati

Immagino: di trovarmi di fronte la me stessa liceale e mi chiedo se ci prenderei insieme un caffè. A 48 ore dalla lettura delle ultime pagine de Il sopravvissuto di Antonio Scurati è questo il pensiero predominante. Andrea e Vitaliano, ovvero io e la mestessaliceale. Che cosa abbiamo da dirci lei ed io, la mestessaliceale da una parte e la sopravvissuta all’adolescenza dall’altra? Che cosa ho da invidiarle, quali ideali inventati, nei quali lei sta stupidamente credendo, le smonterei cinica, quale disprezzo per l’ipocrita accomodamento nel mio grigiore lei mi sputerebbe in faccia e, soprattutto, la mestessaliceale quale delitto tremendo metterebbe in atto per poi puntarmi contro il dito?
Un rapporto irrisolto con la propria giovinezza e la necessità di una tragedia catartica intorno ai quaranta anni, per spedire la mestessaliceale definitivamente dall’altra parte del globo, in una terra promessa dove io e lei dovevamo andare insieme, ma verso la quale non mi resta che restituire al mittente una cartolina senza testo.
Questa è la chiave di lettura che mi ha fatto apprezzare questo romanzo come una esperienza di grande valore emotivo, questo lo stato d’animo con il quale ho cercato dentro di me l’eventuale “... ingratitudine dell’adulto che non ricambia lo sguardo rivoltogli dalla sua perduta giovinezza”.
L’impietoso, eppure appassionato canto sulla scuola mi cattura: sono pagine precise, cattive, realistiche. Fanno riaffiorare ricordi, riscatti mancati, amarezze e bilanci a posteriori da far combaciare con quello che vedo oggi, da madre di studenti.
Ma il romanzo parla di molto altro, perché quell’arma, che già nelle prime pagine viene puntata sulla mediocrità e la noia e la superficialità e il degrado spirituale, può risuonare con lo stesso fragore per esempio in questo ufficio o in uno studio televisivo o in un ospedale pubblico o in un tribunale o in mille altri luoghi di lavoro. Quante volte è già successo nella mia immaginazione che la mestessaliceale sia entrata dalla porta di questa squallida stanzetta detta ufficio e abbia fatto casino, un bellissimo, fragoroso, scandaloso, beffardo, orrendo casino? Quante volte ha già operato nella mia vita questo circuito mentale chiuso: l’adolescente era grandiosa, l’adulta si sente fallita e invece di reagire gioca con il fantoccio dell’adolescente e lo manda in avanscoperta, invidiandone la freschezza e nascondendosi dietro la sua inesperienza.
E' un vezzo divertente la citazione ripetuta, è un vezzo che pratico spesso e ho ritrovato in Scurati. Sono tra di voi, ma non con voi dice il protagonista de Il sopravvissuto (come i guerrieri orgogliosi de Il rumore sordo... ripetevano aut facere scribenda aut scribere legenda); così mi sembra calzante per caso l’ultima delle tante frasi appiccicate con lo scotch intorno al mio computer: “la colpa delle cose è sempre dei migliori” e mi ricordo di averla fissata per ricordarmi di sentirmi responsabile ogni volta che pretendo di sentirmi migliore di quelli che con superbia considero errori altrui.
E insomma, forse questo è anche un romanzo sulla correità, sull’invito a non accomodarci sulla poltrona bianca per farci intervistare, accanto al plastico della nostra esistenza, e intanto giocare con il pupazzetto che ci rappresenta (bella immagine, mi è piaciuta tanto!).
Ma non è così semplice, ché una frase letta da una intervista all’autore mi rimescola le carte: “...ho cercato di raccontare una storia sull'11 settembre senza nominarlo mai...”. Già, la datazione puntuale dei capitoli non era solo un espediente per non confondere fra il presente post delitto e il passato di introspezione del professore. La storia termina il 10 settembre 2001 infatti e la potenza della narrazione deposita il lettore alla vigilia dell’orrore con un sentimento di partecipazione meno distaccato, incapace forse di tracciare la linea netta fra buoni e cattivi oltre la quale collocarsi con ottusa certezza.
Una cosa importante contesto a chi, a proposito dello stile di Scurati, parla di (cito):... narcisismo, virtuosismo, autocompiacimento della bella parola, prolissità, pomposità... Non è vero, si tratta di un lessico affascinante, non c’è una sola parola che sia incomprensibile o volutamente per addetti ai lavori, lo stile è elegante, tutto qui; perché non provare ad apprezzarlo, a farsene ammaliare, a godere di questa prosa spessa e carnale?

lunedì 29 ottobre 2007

Abatantuono c/o Pupi Avati

Ho visto La cena per farli conoscere e non l’ho capito.
Avevo elementi forti di richiamo: Diego Abatantuono e Pupi Avati, insomma come dire Il testimone dello sposo e Regalo di natale. Il testimone dello sposo è un film che avevo molto amato, delicato e profondo, commuovente e recitato benissimo.
Più di recente poi, La seconda notte di nozze aveva solleticato corde struggenti con la superba recitazione di Antonio Albanese, l’affresco appassionato di un mondo agropugliese cui appartengo nel fondo del cuore, la Ricciarelli così perfettamente nella parte, un Neri Marcorè così finalmente cattivo e divertente.
E poi Il cuore altrove, adesso che ci penso...
Ma questo film mi ha lasciata asciutta. C’era forse dietro una urgenza troppo personale, non filtrata, come negli altri film citati, attraverso la storia, il passato, usi e costumi raccontati con particolari nostalgici e bozzetti precisi, che fanno da sfondo sul quale lo sguardo si adagia.
Rapporti familiari, figura paterna incapace da recuperare in zona Cesarini dell’esistenza, disprezzo dell’attuale mondo televisivo. La rappresentazione avviene attraverso storie appena accennate, il finale pare rabberciato in tutta fretta...
Poi la recitazione; non ho strumenti per esprimere giudizi sulla professionalità dell’uno o dell’altro, ma mi sento di dire questo: Abatantuono è bravissimo forse perché lui e il suo personaggio sono indistinguibili, guardi il film e Abatantuono è il suo personaggio.
Le tre figlie molto meno, anzi direi che guardi il film e vedi la simpatica Vanessa Incontrada, la incantevole Ines Sastre e la prezzemolina accattivante Violante Placido che fanno finta di essere le figlie del protagonista. E’ qui la differenza, vero?

lunedì 22 ottobre 2007

le vergini suicide, eugenides

Le vergini suicide è uno dei libri più belli e più veri che abbia mai letto sull’adolescenza.
Fuori dal contorno della realtà il contenuto sostanziale di ciò che accade: un primo incomprensibile suicidio di una tredicenne, un progressivo isolamento e irrigidimento bigotto dei genitori che culmina con la vera e propria prigionia delle 4 sorelle superstiti e, infine, il suicidio collettivo delle quattro ragazze.
Un racconto fantastico e insieme una descrizione di un ambiente sociale.
Per quanto la breve vicenda terrena di queste fanciulle semidee sfumi nella mitologia, il campo è invaso dai dettagli più quotidiani e prosaici: i loro indumenti intimi, i loro piccoli oggetti nel bagno, i loro aliti, il loro sudore, la lista della spesa, una atmosfera intrisa di sensualità puzzolente, di adolescenti accaldati e dai modi grossolani, di femminilità inquietante, di maschi che spiano femmine che si lasciano spiare in un gioco eterno e vitale, di femmine e maschi che crescono nei corpi e nello spirito e sognano cose diverse, ma destinate per magia a incastrarsi attraverso felicità brevissime e sofferenze lunghe e addomesticate.
Condanna della superficialità benpensante e della rigida applicazione di regole rigide e vuote dell’educazione perbenista? Inno dolente alla vita e alla individualità libera? Forse anche.
Il racconto avviene mediante un tentativo di ricostruzione degli eventi da parte di un gruppo di maschi adolescenti: un unico lungo flashback raccontato da un coro, come una tragedia greca.
Chi ha ucciso le sorelle Lisbon?
Patetico da parte delle brave persone che costituiscono la brava middle class, in un’imprecisata provincia americana, tentare una risposta basandosi su analisi sociologiche e luoghi comuni sulla gioventù.
Stranamente l’io narrante collettivo non esprime mai nei confronti dei comportamenti irrazionali e oppressivi dei genitori Lisbon una aperta condanna; più che carnefici essi appaiono vittime di se stessi, pietrificati in un ruolo convenzionale al quale ciecamente si sono abbandonati; magnifica poi la descrizione lenta, precisa del progressivo disfacimento materiale della casa dei Lisbon, il buio oltre le finestre, l’erbaccia, l’odore di marcio che sembra diffondersi nell'aria intorno all'abitazione, mentre il nucleo familiare si chiude sempre più al rischio tumultuoso e sensuale della vita.
Chi o che cosa ha ucciso allora le sorelle Lisbon? Mentre leggi ti accorgi che è come se nel tuo profondo conoscessi perfettamente la risposta.
Quando ti mordi le labbra e chini il capo e ti conformi a quello che i tuoi 40 anni vogliono da te... ti ricordi perfettamente di quando anche tu ti sei suicidata, più o meno venti anni fa. Perché quello che sappiamo è che non ci importa se le ragazze siano morte o semplicemente siano diventate le adulte che la vita vuole che diventino.
E’ così che muoiono gli adolescenti: uccisi dalla vita che avanza.


“... non ha vent’anni ancora, cadrà l'inverno anche sopra il suo viso, potrete impiccarlo allora... “Fabrizio De Andrè, Geordie

mercoledì 17 ottobre 2007

Il rumore sordo della battaglia, prima versione

Non bisognerebbe mai leggere un libro avendo presente il volto dell’autore; il suo modo di parlare; la luce che ha negli occhi; le sue idee politiche.
Arrivare a leggere Scurati perché mi sono incuriosita a causa di alcune sue apparizioni in televisione, delle sue dichiarazioni al Campiello, delle sue affermazioni di manifesto, delle sue prese di posizione sulle pagine dei quotidiani mi rende più complicata la riflessione. E’ come se ogni pagina mi rimandasse a un rapporto personale, a una dichiarazione di esistenza dell’autore come individuo in carne ed ossa. E mi sento condizionata.
Doveva avermi colpito proprio tanto visto che mi sono decisa ad affrontare un libro piuttosto spesso, visivamente poco invitante (pagine solide, con pochi dialoghi, pochi punto e a capo), con sulla copertina una immagine tozza e marrone che da lontano sembra uno scarafaggio schiacciato e si rivela poi essere un guerriero in armatura steso al suolo. E come ho fatto a non farmi scoraggiare dal titolo che, sia pure così musicale, dolce e poetico, suggerisce lettura di guerra, lettura di noiose formazioni in campo, lettura di strategie ed eventi piccoli ma sanguinosi.
Ma si sa che questo è il trucco, la molla che fa scattare la curiosità: una esplorazione di quanto a prima vista appare lontanissimo dal mio immaginario femminile e materno, con la garanzia comunque di poter chiudere il libro e seppellirlo nello scaffale, quando capissi che abbiamo poco da spartire.
E infatti è guerra, non come sfondo cruento a più lievi vicende, ma come protagonista assoluto. Peggio: religione della guerra. Fino a un manipolo di pazzi scatenati che crede che le armi da fuoco abbiano tradito le virtù eroiche, allontanando la storia dal suo senso più alto e si abbandona a una violenza demoniaca.
C’è un livello di lettura che mi sfugge ed è la appassionata erudizione che si intuisce su argomenti che non conosco; eppure questa erudizione mi blandisce, con il suo linguaggio raffinato ed elegante, una eleganza formale che non viene meno anche quando modella una materia che sguazza dal sangue agli intestini spappolati e ai liquidi corporei più volgari.
C’è un altro livello di lettura che mi diverte: il personaggio del professore contemporaneo con la sua mediocre follia; l’ingenuità del cavaliere dei primi capitoli perso dietro le sue altisonanti costruzioni mentali che sfiorano l’idiozia; le scene di sesso medioevali e contemporanee, distribuite qua e là, delle quali a volte non capisci bene la coerenza con il filo narrativo e che spesso hanno un sapore un po’ grottesco e fastidiosamente fallocentrico.
Ma mi sento su tutto affascinata da una fremente sincerità di rappresentazione globale, di ricerca di rapporto profondo fra la pagina scritta e il destino umano. Credo che ulteriori critiche, anche negative, che ho letto in rete e che possono essere parzialmente condivisibili, non possano prescindere da questa linea di demarcazione fra ciò che è scrittura fine a se stessa e ciò che tenta di farsi vita e credo che questo romanzo si collochi decisamente da questa seconda parte del guado.
Ho letto e riletto gli ultimi due capitoli e ho pensato che purtroppo, a tendere bene l’orecchio, c’è davvero ed è facilmente riconoscibile ovunque, anche in questo angolo kafkiano d’ufficio, quel sottofondo, il rumore sordo della battaglia.

lunedì 15 ottobre 2007

l'ultimo inquisitore, milos forman

A chi piacciono i film in costume; a chi piacciono gli affreschi storici; a chi piace il gioco degli incastri fra la storia dei piccoli e la storia dei grandi. Quindi a me.
Con il valore aggiunto dei quadri di Goya.
Non è un gran film, in realtà. La storia è semplice, da feuilleton. I personaggi sono più raccontati che rappresentati. E’ un film didattico, da cineforum delle scuole medie.
Però ne vale la pena.
Non fosse altro che per i titoli di coda stampati sopra le opere di Goya.

venerdì 12 ottobre 2007

commessi di tutto il mondo...

Il negozio è più che un negozio; sono grata a mio figlio solo perché ho avuto il privilegio di esserne cliente. Non importa che ci lasci quasi cinquanta euro per tre fascicoletti di una dozzina di pagine l’uno, stampati su carta ingiallita. Non importa che gli autori di ciò che vi è scritto sono morti da secoli e quindi ciò che vi è scritto dovrebbe essere patrimonio dell’umanità. Vuoi mettere il legno antico, scuro e lucido che riveste l’intera bottega? Vuoi mettere l’angolo di Milano che accoglie quest’universo d’altri tempi? Vuoi mettere l’allineamento elegante di pianoforti d’ogni tipo che copre mezzo salone? E le vetrine gigantesche sulle pareti stipate di trombe, violini, clarinetti? Vuoi mettere entrare con in mano un appunto autografo di un maestro con l’elenco di incomprensibili mirabilia pentagrammate?
E, soprattutto, vuoi mettere la magia di questo commesso che prenderà in mano il tuo dotto elenco e spalancherà scaffali malmessi, tirandone fuori raccoglitori anni cinquanta dai cordini consunti, contrassegnati da scritte malferme e nomi di compositori, di musicisti antichi, di manuali anni quaranta così fondamentali da essere ancora e per sempre i Manuali? A meno che, fra te e il commesso esperto, non si frapponga lei, corvina, magra e acida: “Faccio io, lei vada a smontarmi quella roba, che non posso neanche entrare nel mio ufficio...” Gli strappa di mano il mio biglietto, la padrona. Chi altri può essere? La padrona di un negozio antico. L’avrà ereditato, l’avrà comprato, ne avrà sposato l’erede? Di sicuro è una questione di soldi se il mio omino gentile ed esperto scompare a capo chino dietro un lugubre scaffale e per me hanno inizio venti, dico venti, lunghissimi minuti di attesa davanti al bancone; la “signora” tira su con il naso, risistema ogni momento la chioma e si perde, lenta, incerta, nell’esame di quei raccoglitori alla ricerca di ciò che mi serve. Ho perfino il dubbio che abbia qualche difficoltà con l’alfabeto, o con la vista, o definitivamente con il cervello: tira giù raccoglitori, allenta i nodini, lentamente esamina i fascicoli che ricadono sull’enorme banco; scuote la testa, rimette insieme la pila, riallaccia i cordini, riposiziona a fatica il raccoglitore, cerca, guarda, tira giù, ricomincia. Venti minuti in cui mi sembra che generazioni di lavoratori dipendenti, ombre da “quarto stato” mi si accostino invocando vendetta... Adesso vado, penso, adesso le strappo dalle mani il mio elenco, le dico secca che non ho tempo da perdere, che tornerò quando sia disponibilie il commesso che lei ha appena trattato da servo della gleba. Venti minuti di urgenza di lotta di classe che mi borbotta nello stomaco, ma ho paura di far peggio per quell’uomo che ormai è il mio eroe del popolo.
Venti minuti.
Poi lui ricompare, silenzioso. Lo chiama. Sbaglio o la vocetta si è fatta meno imperiosa? “Guarda un po’ tu” gli ha detto. Il suo modo di chiedere aiuto?
Il mio commesso ci ha messo due minuti.
Due minuti e tanta cortesia.
Commessi di tutto il mondo... unitevi.

lunedì 8 ottobre 2007

La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo

Una situazione surreale e fantascientifica: un uomo affetto da una anomalia genetica che lo fa scomparire senza alcun controllo da parte sua e comparire nudo e sofferente qua e là nel tempo, a volte in situazioni estranee alla sua vita, la maggior parte delle volte, invece, in momenti salienti dell’esistenza sua e delle persone che ama e che lo amano.
Un’idea narrativa svolta raccontando minuziosamente la quotidianità e lo sforzo di Henry e sua moglie Clare per avere una vita normale.
Laddove era possibile addentrarsi in arditi voli e meditazioni sullo scorrere del tempo, sul determinismo e la casualità, sulle tecnologie genetiche, l’autrice fa invece una scelta minimalista, quasi soffocante, e risolve la narrazione nel chiuso del dramma di Henry che non può gestire questo suo potere e ne è totalmente in balia e nel dramma di Clare, cui spetta il compito di aspettare, mettere da parte vestiti, pregare perché suo marito non scompaia nelle situazioni meno opportune.
Così è una storia d’amore. Un amore totale e disperato. Soprattutto totale.
Insomma sono combattuta: da una parte il fascino malinconico che pervade la storia, l’idea dell’amore monolitico e assoluto dei due protagonisti che non si ribellano mai e convivono con l’inatteso, con il tormento di sapere e non poter dire, di aver già vissuto e non poter cambiare, di rivivere angosce decine e decine di volte, convivono con la difficoltà di avere enormi spazi di conoscenza sulla vita dell’altro senza che l’altro sappia e nessun potere per fermare il presente.
Dall’altra ho il fastidio sottile nei confronti del circolo insopportabilmente chiuso su se stesso di tutta la storia, del fatto che uno dei due (Henry) pur faticosamente e con grave pericolo, passeggi nella vita dell’altra (Clare) modellandola a suo piacimento (ché le incursioni di un Henry più che trentenne sul prato di casa di Clare bambina siano alla fine delle violenze psicologiche belle e buone). Clare bambina e adolescente vivono costantemente nell’attesa delle apparizioni di Henry, se ne innamorano e che altro mai potrebbero fare? I viaggi nel passato non cambiano il corso delle cose, come sostiene Henry? La comparsa di quella specie di angelo nudo sul prato non crea una pressione deterministica sulla vita di Clare? E questa insistenza sull’aspetto fisico del rapporto fra i due non sottolinea ulteriormente la condizione di possesso di Henry su Clare?
Però il libro è scritto con una precisione ammirevole nel rapporto fra gli accadimenti e gli incontri e quello che l’uno sa e l’altra no e viceversa; inoltre la lettura ti risucchia totalmente nella spirale avvolta su stessa della vita escheriana di Henry e Clare. Anche quando ci sono descrizioni di quotidianità apparentemente inutili, le segui con il fiato sospeso, aspettandoti che da un momento all’altro Henry scompaia, oppure appaia il suo doppio in arrivo da chissà quale momento futuro, oppure che ci sia qualche piccolo particolare che nel prosieguo della narrazione ti servirà per mettere insieme qualcuno dei tanti puzzle temporali che l’autrice modella fra le pagine.
Una specie di aria magica si materializza intorno al libro e all’immagine di copertina. Con Clare aspetti trepidante le inattese scomparse di Henry e poi... puff, ti scompare anche il libro. Perché l’avevo portato con me e mancavano forse venti pagine e, godendo del sottile piacere che me ne derivava, immaginando ormai lo svolgersi del finale, l’ho chiuso e ho deciso di rimandare il rito della pagina conclusiva e celebrarlo nel silenzio di mezzanotte rannicchiata nel letto. Ma il libro mi ha punito ed è rimasto, credo, sul cruscotto della macchina della persona gentile di cui so solo il cognome e dal quale insieme ad altri ho accettato il passaggio verso casa ieri sera.
Adesso aspetto... che si rimaterializzi qui ed ora... con la sua immagine di copertina sfuocata e inquietante; ma mi piace pensare che sia giusto così: Clare non sa quello che sa Henry e viceversa, il finale è ancora aperto, anche viaggiando nel passato e nel futuro mi è rimasto il gusto di immaginare che le cose potranno ancora cambiare prima dell’ultima riga.

venerdì 28 settembre 2007

... melissico e niffoiante

Da una recensione in rete: ... Dal punto di vista dello stile... omissis... è paragonabile ad un vero e proprio testo multisensoriale: odorato ed udito, infatti, prevalgono sulla crudezza visiva delle scene disegnate dalla penna di Niffoi.

Ecco il punto.
Il libro di Niffoi che sto leggendo si chiama Il viaggio degli inganni e per ora mi sembra un dignitoso racconto di una infanzia povera e contadina, come ce ne sono moltissimi (anzi, diciamolo a bassa voce, come non se ne può più).
Quello che fa la differenza, e che ha reso questo autore apprezzato dai critici, è probabilmente lo stile che racconta una materia crudele attraverso una fioritura di sollecitazioni sensoriali violente.

Il problema è che tempo fa ho letto un divertente massacro (Toni La Malfa su Vibrisse bollettino/Bottega di lettura) del primo libro di Melissa P. in cui si sottolineava la ripetuta insistenza della suddetta nella doppietta di aggettivi: umida e triste, stupita e instupidita, odoroso e sensuale, succose e morbide, dritta e inesorabile, felpati e silenziosi, molle e scavata... un delirio!
Così, un po’ incattivita da questo intervento, ho scoperto che quel vago senso di fastidio che stavo provando nella lettura del testo di Niffoi aveva la stessa origine: la micidiale doppietta.
Per esempio: giorni rancidi e maledetti, pioggia pesante e affilata, fanghiglia rossastra e ferrosa, furba e veloce, le ombre morbide e spugnose, carezze asmatiche e appiccicose, sudore gelido e puzzolente, tono acrimonioso e dispotico, fragranza frizzante e leggera... e ho aperto a caso una sola pagina!
La doppietta può essere di due tipi. Nel primo tipo i due aggettivi dicono la stessa cosa, si tratta praticamente dell’utilizzo di due sinonimi e la finezza delle lieve sfumatura di significato dell’uno o dell’altro nulla aggiunge se non una certa mollezza o musicalità o eco alla recitazione mentale.
Nel secondo tipo c’è il gioco di accostare fra loro due sensazioni che fanno capo a due diversi organi di senso, o che un po’ si contraddicono, o che comunque costituiscono una accoppiata inusuale: un effetto poetico efficace se usato con parsimonia, una fatica per la lettura se usato così di continuo. Una fatica che dopo un po’ diventa fastidio.

Certo, si potrà dire che la lettura può, o forse deve anche essere faticosa.
Ma allora rivalutiamo anche le doppiette della povera (si fa per dire) Melissa?

giovedì 27 settembre 2007

martedì 25 settembre 2007

Circolo chiuso di Coe

Circolo chiuso... forse è stato un errore leggerlo così a ridosso de La banda dei brocchi; devo capire perché, nonostante la leggerezza della narrazione, l’intreccio non scontato, i riferimenti sociali e politici precisi e malinconicamente graffianti, sono arrivata al fondo del libro con un senso di sgradevolezza. Pura assuefazione da troppo Coe concentrato?
Punto a): effetto telenovela, gli stessi personaggi che ruotano ruotano ruotano intorno alle vicende e non le vicende che ruotano intorno ai personaggi; così: si decide che i personaggi sono questi e faccio succedere delle cose che li giustifichino; non importa quanto dopo un po’ le cose che faccio succedere comincino a perdere di verosimiglianza. Sia detto, mica lo so quale l’ordine giusto (decido i personaggi e faccio succedere le cose oppure decido gli eventi e ci costruisco intorno i personaggi?), magari l’ideale è un’equilibrata, banalissima metà strada e nel Circolo chiuso si pende troppo da una parte.
Punto b): effetto claustrofobia. Magari è un effetto voluto, non a caso il titolo del romanzo è Circolo chiuso: chiusi i personaggi su se stessi e su un passato irrisolto dopo un po’ ti fanno incazzare. Quando si diventa grandi? Quando l’amore non ricambiato dell’adolescenza smette di essere la scusa buona per non prendersi delle responsabilità affettive? E perché l’amore di Paul deve essere “interno” alla storia, così esageratamente interno alle vicende familiari degli anni dell’adolescenza? E perché questo grottesco ritorno di Cecily?
Punto c): cambio totale della figura di Ben. Ovvero come immedesimarsi nei palpiti profondi di un adolescente ombroso, inquieto, intelligente, profondo, sfigato ma nel giusto, amante della musica e con velleità di scrittore e ritrovarsi un adulto coetaneo fallito, ma non dignitosamente fallito, bensì ridicolmente fallito, qualcosa che assomiglia abbastanza da vicino a un deficiente.
Forse è questa la sgradevolezza: forse Coe mi ha detto qualche verità scomoda. Chissà.

lunedì 24 settembre 2007

grandissimo Elio Germano

Succede che un anno, meglio un paio di stagioni, impazza sulla Rai una fiction per sempliciotti di bocca buona, piene di valori positivi, che celebra la famiglia ma introduce elementi di discussione, di tolleranza, di modernità; succede che, anche se trovi che non si tratti di un capolavoro di approfondimento culturale, sei stanca e ti accorgi che, miracolosamente, l’appuntamento domenicale piace ai figli bambini, anzi addirittura, sedersi con loro a guardarlo ti consente qualche spunto per spiegare cose della vita...
Succede poi che negli anni il prodotto diventi consunto, banale fino all’idiozia, irrealistico perché si è spremuto proprio di tutto e non si sa più quale strampalata situazione di vita inventarsi solo allo scopo di tenere in piedi la serie. Ma questa è un’altra storia, perché quello che qui voglio ricordarmi è l’irripetibilità della seconda stagione in cui i bambini e la mamma guardavano gioiosamente insieme Un medico in famiglia.
C’è un ragazzino che recita in quella serie: Er Pasticca. Epica figura avviata sulla cattiva strada. Esempio di ragazzo da non far frequentare alle figlie, nelle cui braccia cade naturalmente la ragazza protagonista, salvandolo e riconducendolo sulla via del bene. Una figura secondaria nelle vicende, le più diverse, dei componenti la famiglia allargata. Una faccia e una presenza scenica che invece mi sono rimaste impresse. Insomma, a me Er pasticca piaceva proprio. Se avessi avuto 15 anni me lo sarei sognato la notte. E non perché fosse bello, il fatto è che “era”; era un personaggio forte, uno sguardo significativo, un sorriso leggero che spalancava un mondo interiore.
Così succede a distanza di molti anni che mi noleggio Mio fratello è figlio unico, perché è di Lucchetti, perché è una storia bella, perché ha un cast interessante, perché penso che sia un film con molte cose da dirmi.
Infatti. Che dire? Ci sono anche tutte queste belle cose... e i rossi e i neri, e il rapporto fra i fratelli, e l’Italia degli operai fra i 60 e i 70, e la colonna sonora fortemente evocativa, e i momenti comici, e le riflessioni sulla violenza gratuita, sugli eccessi insensati dall’una e dall’altra parte, e l’amore, e la lotta armata, e la vita misera, e i sogni infranti... ma io le ho viste passare tutte in secondo piano queste belle cose, perché in quel film c’è qualcosa che sopravanza e oscura tutto, c’è una presenza scenica che giganteggia: Elio Germano. Mi dispiace per Lucchetti e per il suo bel film, ma io mi sono persa completamente appresso all’attore protagonista, non ce n’è per nessuno. Non lo so se è un bravo attore, o se semplicemente è una persona talmente ricca da risplendere di luce propria, indipendentemente dalla parte che recita: Er pasticca è una forza superiore!

venerdì 21 settembre 2007

alla fine

Alla fine quel cimitero sembrava un parco verdissimo e l’aria era fresca quanto basta.
Alla fine c’era il sole e i tuoi figli sembravano William&Henry alla morte di Diana.
Alla fine il prete anziano si era impegnato tanto, aveva letto delle parole molto poetiche.
Alla fine, pensa, il prete anziano aveva osato accendere un CD col telecomando, proprio là dall’altare e una musica strana ma dolce, moderna, malinconica ci aveva turbati ancora di più e ce l’ha pure spiegata, che cosa significava il crescere delle note e la persistenza finale dell’unica nota presente dall’inizio, che non muore, che prosegue, che resta...
Alla fine la commozione maggiore l’ha procurata un prete giovane in jeans che ha detto una cosa banale, alla fine; ha detto al microfono ai tuoi figli di esserne certi, che la mamma ci sarà, che ti avranno sempre con loro, nei momenti di difficoltà: la cosa più facile, ma anche quella che alla fine uno vuole sentirsi dire; è per questo che su quel tono allegrotto del prete giovane alla fine piangevamo veramente tutti, perché credo che, alla fine, tutti sapevamo che non è vero!

mercoledì 19 settembre 2007

per Patrizia... di getto...

La giornata è cominciata in ritardo, come ieri, come l’altro ieri; tutti i santi giorni mi sembra di aver già perso l’autobus dell’ora giusta, che mi avrebbe consentito di non avere addosso questa urgenza.
Tu non ti sei svegliata invece.
Rifare i letti e ridare un ordine approssimativo alla composizione confusa di tavolo, lavello, piano cottura ha di nuovo rubato minuti ai pensieri che così è stato impossibile tradurre in parole e quindi in senso, mentre i figli mi incalzavano: uno cercava da giorni un libro di grammatica, l’altra ha infilato la porta troppo presto (per chi sa quale pettegolo appuntamento) e ha dimenticato la sacca dell’ora di ginnastica, l’altro ancora si attardava e lamentava indistinte stanchezze.
Tu stamattina invece non avevi da correre intorno ai tuoi due figli, coetanei dei miei.
Mi è rimasto un brandello di quarto d’ora per rimettere insieme faccia e capelli e scegliere una combinazione presentabile di colori e tessuti da mezza stagione.
I tuoi capelli non c’erano più da mesi e i vestiti ti cascavano addosso l’ultima volta che ti ho vista.
Sono arrivata in ritardo come sempre e le strade di Milano fanno schifo; il traffico puzza e crea pericoli; la gente è incazzata, pronta al litigio e all’insulto.
Tu non sei andata a lavorare.
Che cosa ne sto facendo, Dio mio, di queste ore che tu non hai più? Quanto spreco.
Se le metto in fila, le prossime ore, vedo solo questo schermo di computer e quattro fogli excel, nulla da dirsi che non sia stato già detto, una cena riscaldata dentro contenitori di plastica unti, calze sporche in giro...
Eppure tu chissà quanto mi invidi. Di sicuro invidi anche questo mio sfinimento, questo divenire sempre più acida e sfatta. Ma la cosa che di certo ti è stata tolta più ingiustamente è quella di non vedere i tuoi figli diventare adulti.
Devo ricordarmelo.
Devo ricordarmelo ogni secondo, stamparlo in ogni angolo di questo appartamentogalera, dove zompetto qua e là tutto il tempo a riordinare e maledirmi, ripetermelo: "io ho ancora la speranza di veder diventare adulti i miei figli". Non è una gioia, è un diritto naturale, porca miseria, era un diritto naturale, anche per te!

lunedì 17 settembre 2007

La pioggia prima che cada (attenzione: contiene finale della storia)

Un Coe diverso. Non tanto perché si tratta di una vicenda molto privata, chiusa in un universo familiare nel quale la storia maiuscola e la società fanno da fondale silenzioso, quanto, mi sembra, perché il racconto ha uno svolgersi molto lineare: c’è una storia minuscola da raccontare lunga un secolo e ci sono venti fotografie in perfetto ordine cronologico, con un insistere molto classico, romantico, sui paesaggi, sui colori, sui vestiti, sulle acconciature.
Due vite parallele, due cugine, Beatrix e Rosamund. Quale delle due vite è più “regolare”? Beatrix ama uomini, si sposa, fa figli. Rosamund ama donne, resta sola per lunghi periodi e soffre perché viene privata per ben due volte della possibilità di crescere una bambina. Quale delle due donne è più affidabile secondo i canoni sociali e perbenisti per crescere una figlia?
La “normalità” vuole che i figli stiano con la madre naturale. La madre naturale può essere cattiva come una matrigna delle fiabe e generare dolore che a sua volta ne genererà altro sulle generazioni di figlie successive.
L’amore della zia “fuori norma” invece è costruttivo, profondo, generoso, granitico. Capace di resistere di lato, nel silenzio, a tentare di porre rimedio inutilmente ai disastri del rapporto madre-figlia che continua a ripresentarsi a ogni generazione in linea retta.
Semplice. Peccato che il finale ricordi come la vita sia molto più complicata.
Beatrix, la madre fisica incapace di amore, terminerà la propria esistenza (egoisticamente rinnovata a ogni colpo di testa) rispettata da un marito ombra, venerata dai colleghi, e, perfino, con accanto la figlia sulla quale la sua superficialità e il suo egoismo avevano prodotto tanti errori.
Rosamund, la parte buona del duo femminile, la vera depositaria della capacità d’amore materno, morirà sola, suicida, nel rimpianto struggente degli amori persi.
Questo tristissimo finale è un espendiente narrativo per movimentare la banalità del racconto?
Temo che questa domanda resti senza risposta, perché è l’impianto stesso del romanzo a suggerire l’incapacità del presente a fondere in una visione unitaria e sensata le vicende umane. Rosamund dedica le sue energie migliori a fare quello che tradizionalmente si pensa sia il compito delle donne/madri nelle famiglie: mettere insieme, consolidare i legami affettivi, consolare, vegliare, trasmettere la tradizione della famiglia tenendo vivi i ricordi.
I suoi sforzi sono inconsistenti, non raggiungono alcuno scopo.
Le resta solo raccontare venti foto, uno dietro l’altra, come le nostre nonne, ahimè ormai anche le nostre mamme, (e fra poco noi, accidenti, non è già pronto tutto l’armamentario di diapositive da catalogare dopo la pensione?) che tappezzano di foto le loro case silenziose e passano le ore in solitudine a riguardarsele, per cogliere in banali, casuali pose significati che non ci sono mai stati, per dare insomma una veste di bel romanzo compiuto alla loro esistenza, scacciando il pensiero che si sia trattato di un passaggio inutile quanto veloce.
L’estremo tentativo di Rosamund di lasciare a Imogen (l’ultimo anello della catena di maternità inadatte Ivy/Beatrix/Thea) il senso del suo essere venuta al mondo (e più banalmente una somma di denaro in eredità) è destinato al fallimento.
La nipote Gill, chiamata quale esecutrice testamentaria a fare un tentativo di “happy end“, di soluzione, di riconciliazione del passato con il presente, fallisce suo malgrado.
Che cosa resta da fare allora? "Il messaggio del libro è in realtà assai semplice" ho letto in una delle tante interviste rilasciate da Coe "siate dei bravi genitori".
Insomma amare i propri figli con tenerezza. Ricordarsi le parole di Marcello Bernardi a proposito del fatto che, messi al mondo dei figli, siamo diventati genitori e non abbiamo il diritto di non assumerci questa responsabilità, non possiamo pretendere di non essere capaci di lasciare desideri e velleità più o meno inconsistenti sullo sfondo.
Forse davvero l’amore è una delle pochissime armi di resistenza passiva che possiamo provare a contrapporre al caso caotico dell’esistenza. Certi di soccombere alla fine, naturalmente.
Pochissime armi.
Anche la letteratura lo è. Vero, Coe?

venerdì 14 settembre 2007

Donna per caso di Jonathan Coe: Maria chi sei?

Il libro è sottile, breve; in copertina la presentazione lascia supporre una storia strana e non attrae.
Io sono in procinto di leggere Circolo chiuso, per scoprire che cosa ne ha fatto Coe di Ben, Lois e Miriam; decido di dedicare un paio di serate a questo breve romanzo d’esordio; decido che non mi piacerà; decido che lo lascerò a metà.
Per tre quarti del libro non riconosco Coe; vado avanti per inerzia aspettando che accada qualcosa di illuminante.
Invece, così accade, che una lettura partita con il piede sbagliato ti entri nello stomaco, oppressiva, e decida di non abbandonarti, pretendendo risposte che non riesci a trovare.
Io sono come Maria?
Quanto pagherei per avere Coe qui di fronte adesso e chiedergli lumi: chi è Maria, chi volevi prendere in giro, volevi davvero indicarci la strada dell’intelligenza emotiva che manca a Maria come chiave per vivere con più frutto l’esistenza o, al contrario, con una sadica risatina, volevi sprofondarci tutti nell’angoscia della vacuità e del non senso di ogni sforzo emotivo?
A fatica ho cercato in rete commenti e recensioni; molti commenti di lettori, probabilmente più felici e risolti e ottimisti di me, si ritraggono perplessi attribuendo a Maria apatia, depressione, mancanza di energia, incapacità di decidere, indifferenza.
Io invece oggi mi sento morbosamente invasa da Maria e dalla sua vita, desolante fino al ridicolo.
Eppure ha intelligenza Maria, ha una infanzia felice alle spalle, e all’inizio del libro sta per lasciare la sua casa per il college universitario: Maria soprattutto ha grandi possibilità davanti a sé.
Poi Coe comincia prendersi gioco di lei: un susseguirsi di eventi catastrofici e grotteschi trasformano la vita di Maria in un fallimento.
Non è vero che Maria non decide; Maria anzi è forte, affronta tutto quello che c’è da affrontare; non si sottrae a studio, convivenze sgradevoli, frequentazioni ipocrite, lavori umilianti, cambi di casa, cambi di città, matrimonio e maternità; ogni volta ricomincia stoicamente.
Maria aspetta forse un premio che non arriva mai? Qualcuno le ha raccontato che la vita è come la scuola, studi la lezione e prendi un bel voto? Maria non fa male a nessuno, ma tutti ne approfittano. Il suo talento va sprecato; la sua gentilezza e mitezza nei rapporti umani provocano odio e dispetto.
Per tutte le poche e bizzarre pagine del libro la vita le si abbatte addosso con crudeltà casuale.
Insomma, dai, lo dico: Maria è una fallita che, senza colpa ma per incapacità emotiva, non riesce mai a volgere gli eventi a suo vantaggio.
E’ un personaggio tremendo.
E perché mi sembra che mi scruti mentre mi guardo allo specchio?
E, soprattutto, quale stupido e irreversibile passo falso sto per fare solo per non sentirmi lei?

giovedì 13 settembre 2007

uffici e caccole

In uno degli stanzini del bagno delle donne, al primo piano dello stabile di periferia nel quale lavoro, ci sono un paio di caccole di naso appiccicate alle pareti ad altezza torace/occhi.
E’ una immagine che mi disgusta talmente tanto che ho voluto scriverla per vedere se la ricerca di una formulazione semplice mi potesse aiutare ad accettarla.
Non è l’unica immagine disgustosa che una si trova ad affrontare quando frequenta un bagno pubblico, anche se il pubblico in questo caso si limita alla trentina (forse meno) di donne che ogni giorno utilizzano questi gabinetti. Ma confesso di avere abbastanza in antipatia le persone che insistono in maniera ostentata sulle loro abitudini superigieniche da perfettini solo allo scopo di costruirsi un personaggio; non faccio parte del gruppo di donne acide che si gratifica ad attaccare biglietti minacciosi sulle pareti dei bagni, invocando in modo altisonante rispetto, civiltà, senso di responsabilità...
Mi piacerebbe saper declinare davvero la parola tolleranza e, prima di arrivare alla tolleranza sociopolitica, mi esercito, ci provo almeno, a tollerare i piccoli errori altrui, le dimenticanze, le maleducazioni frettolose, le debolezze, le nevrosi.
Scarichi non tirati abbastanza, scopini non utilizzati alla bisogna, schizzi e gocce sulla tavoletta, carta igienica svolazzante sui pavimenti non sono immagini carine, eppure sono immagini di sporcizia che... (vediamo un po’ come potrei esprimere il concetto?) ... si tratta di una sporcizia che è “coerente conseguenza” dell’uso del bagno, uso villano indubbiamente, ma uso appropriato.
Invece mi inquieta pensare che qualcuna delle profumate e rispettabili coimpiegate abbia deliberatamente infilato l’unghietta lunga e laccata nella fremente narice e, altrettanto deliberatamente, abbia ripulito la punta della falange strisciandola con disprezzo sulla piastrella azzurra.
Mi inquieta.
Ogni volta che distrattamente mi chiudo proprio in quello stanzino mi chiedo se capita anche a lei di rientrarci, altrettanto distrattamente, e, mentre armeggia con la costosa griffe che ricopre le sue gambe, incrociare con lo sguardo il piccolo pezzo pietrificato che scintilla al sole.
Quel piccolo pezzo è ormai per me il simbolo della desolazione esistenziale di questo ambiente lavorativo, del nulla un po’ putrido nel quale siamo decorosamente immersi, consapevoli privilegiati dallo stipendio fisso a vita, in attesa di prepensionamenti da fusione sui quali sputeremo, senza capirci nulla, avendo barattato l’esistenza per un mutuo.

martedì 11 settembre 2007

Coe e noi brocchi

Come eravamo, anni ’70.
Allora perché mi è piaciuto così tanto?
Sono diverse ore che me lo chiedo e pretendo una risposta.
Proviamo a cambiare l’ordine: qualcosa non mi è piaciuto? Direi la questione tutta romanticismi e svolazzi finali del rapporto Cicely/Ben. Non è coerente con il resto. Perché mai lo sfigato intellettuale dovrebbe fidanzarsi in questa roboante (e carica di aspettative anzi certezze) maniera? Quando mai s’è visto? Il brocco resta brocco e si accontenta di fidanzati di seconda scelta. Ma devo ancora leggere il seguito e magari nel seguito si scopre che la perfezione amorosa era solo nella testa di Ben, e Cicely ha qualche sorpresina sgradevole, tipo riprendere la consuetudine di infilarsi in storie sbagliate. Però io di questo libro sto parlando e non del suo sequel e insomma vorrei proprio tra l’altro sapere che fine ha fatto Miriam Newman.
Quindi il problema è che io non mi c’ero mica messa invece alla fine con il mio Cicely e allora...credo che sia questo il punto vincente del romanzo: mi sono identificata con quei ragazzi perché a distanze geografiche siderali ero pure io adolescente negli anni 70. Coe ha raccontato una storia collettiva di una generazione che a 13 anni doveva essere a pugno alzato per essere del gruppo e a soli 17 si è trovata la compagna di banco con i jeans firmati, ha alzato gli occhi certa di trovare un muro di ostilità e derisione nei confronti di quella deriva capitalista e... i jeans firmati se li erano messi tutti di colpo e per il resto della sua giovinezza si è sentita nel posto sbagliato, inadeguata, impreparata o, meglio, preparata a un mondo che non si era più realizzato.
Poi ci sono quelle altre cose che dicono di Coe: capacità narrativa, ironia, intreccio, analisi sociopolitica.
Ma ecco forse mi sono un po’ fissata con la testa di Malcom, Malcom che era quello che Ben avrebbe potuto essere. Quelle bombe, quella violenza hanno reciso la testa di Malcom e insieme a quella delle possibilità. Da lì poi la storia ha preso un’altra piega per noi che ci credevamo come brocchi.

lunedì 10 settembre 2007

grossman

Forse un altro anno riuscirò; andrò anche io a Mantova; passeggerò nel bosco con David Grossman; come ho visto nel tg, spadellando in piedi nei tre metri stretti stretti dove si svolge giorno dopo giorno la vicenda casalinga della mia esistenza; ho potuto dare una rapida occhiata, solo una rapida occhiata e mi sembrava che le donne lì a passeggire avessero almeno dieci anni più di me; allora avevano potuto lasciare a casa figli ormai cresciuti e andare a stanare nel weekend lo scrittore. (Siamo noi donne a leggere di più, non è vero? Siamo noi a fare la corte plaudente alle presentazioni di libri).
Andrò, quando gli occhiali per vederci da vicino saranno definitivamente appesi al collo con un cordino colorato, invece di restare ancora nascosti al fondo della borsetta. Avrò un abbigliamento sportivo minimale. E gli parlerò. Parlerò a David Grossman.
E gli dirò:
- Che tu sia per me il coltello mi ha rovinato la vita; che ti è saltato in mente di indicarmi la possibilità, la detonante possibilità di esistere sulla carta, nella parola, di ritrovare un io soffocato da anni, facendolo riemergere in una dimensione parallela e dolorosa?
- Qualcuno con cui correre mi avrebbe cambiato la vita se avessi potuto leggerlo a 15 anni, invece che quasi quaranta; i cattivi maestri, che mi hanno istigato a gettare via il tempo e quindi la vita, hanno popolato la mia adolescenza; questo romanzo mi ha appassionato, mi ha fatto sentire il desiderio potente di essere giovane e ancora in tempo per provare a plasmare qualcosa di più, per provare a essere migliori, per avere, appunto, la passione del vivere;
- Col corpo capisco ho cercato di leggerlo senza immedesimarmi, ed è stata una lotta durissima perché tutte le donne di quel libro, mentre accettavano la poesia della loro carne, mi urlavano: “non lo vedi, che sei come me?”
Gli dirò: è per questo, per questa intrusione nella mia vita, per questa impossibilità a restare indifferenti, nonostante la ricercatezza della noiosissima prosa, che penso che, piaccia o non piaccia, tu sia un vero Scrittore.

lunedì 3 settembre 2007

Campiello un sabato notte

Ma se io che passo di sfuggita intorno ai libri mi sono accartocciata sulla sedia, guardando solo per un quarto d’ora l’indecoroso teatrino televisivo impalcato per il Premio Campiello, e ho provato l’impulso di entrare a braccio alzato come superman nel televisore e liberare quella povera scrittrice umiliata sul palco, spalmata da una serie di oleose ovvietà. Allora, un vero letterato che fa, vomita?
E poi, Ines Sastre, è bellissima e simpatica... ma farle leggere mostruosamente le prime righe dei romanzi italiani...
A che serve far passare in televisione i libri in questo modo?
Cento, mille, milioni di Per un pugno di libri, per favore.
Lo so basta spegnere. Infatti.

borat

Ostaggio della curiosità ho noleggiato il film Borat; mi aspettavo di ridere, mi aspettavo di ridere di scene volgari ma talmente divertenti da rendere la volgarità secondaria e strumentale. Mi aspettavo profonda e intelligente ironia.
Mio figlio quindicenne si è allontanato dopo mezz’ora; bisognerebbe prendere esempio dagli adolescenti. Saranno pure vittime inconsapevoli di un sacco di condizionamenti, ma quanto a quattro risate liberatorie su argomenti di cacca gabinetti piselli e affini sono più esperti di noi. E se si annoiano loro... Sesso e parti anatomiche sono talmente in mostra ovunque che cercare di far ridere soltanto perché si filma un uomo nudo grasso e gli si fa fare la lotta con un uomo nudo magro in modo che i due si ritrovino in pose un po’ imbarazzanti diventa veramente difficile.
Considerare che le interviste in alcuni casi erano delle candid camera rende un tantino più interessante l’esperimento mediatico, ma mi lascia comunque perplessa. Ho pensato alle Iene o a Striscia, non quando prendono per i fondelli i potenti, lì godibilissimi, ma quando usano arroganza verso i piccoli, per quanto meschini questi piccoli siano, pretendendo di saper leggere la realtà e insegnare la civiltà.

martedì 28 agosto 2007

Il “brio” di Jonathan Coe

La famiglia Winshaw, se cominci a leggerlo per caso senza sapere nulla di più del suo autore se non che è un tuo quasi coetaneo inglese, davvero ti sorprende.
Ha una prosa chiara e rotonda; è buffo ma non strampalato; è molto ironico ma non ridanciano; ha una grazia malinconica ma invece di deprimere ti tiene sveglio; è costruito sapientemente in maniera non lineare, per intersecazioni continue di personaggi e date e rimandi culturalpop e avvenimenti storici veri o presunti; contiene amor patrio e amore per il cinema; si immerge nel gotico horror con una tale leggerezza che quasi quasi prendi le parti dell’omicida.
Non è un libello sociopolitico ma, con qualche risatina a denti stretti, ti accorgi che sta semplicemente raccontando il modello di mondo nato negli anni ottanta e ormai nostro.
Come raccontare la drammaticità del contemporaneo e molto del proprio quotidiano, delle passioni, dei sogni e persino dell’infanzia, senza parlarsi addosso.

giovedì 23 agosto 2007

il cacciatore di aquiloni

Che cosa so della storia dell’Afghanistan? Poco; quello che passa il convento della nostra informazione generalista, non per sua colpa ma per mia mancanza. Quanto può interessarmi saperne di più? Molto. Quanto può diventare anche gradevole saperne di più? Moltissimo, se l’informazione passa attraverso il racconto di una storia. Questo l’apporto positivo della lettura de Il cacciatore di aquiloni.
Aggiungo una bella caratterizzazione del personaggio Baba e il suo graduale umanizzarsi dalla condizione di privilegiato sociale in Afghanistan a quella di profugo ai margini della società americana.
Il resto è: 1) un mix leggero e sentimentale di L’amico ritrovato, Dickens, L’incompreso e letteratura di formazione varia nella prima parte, quella dell’infanzia felice in un Afghanistan felice (?); 2) una fiction ben riuscita sulle vicende agrodolci di una comunità profuga in America nella seconda parte; 3) un susseguirsi un po’ convulso di colpi di scena abbastanza prevedibili e di sviluppi molto pittoreschi della vicenda nella terza parte, dove la stessa figura del protagonista si trasforma da un passato di riflessioni e debolezze a un poco credibile presente da Rambo.
Avrei preferito che il legame con il passato di errori venisse ricucito in nome di amicizia e valori e crescita morale, piuttosto che per l’emergere di rapporti familiari alla soap-opera.
Però sono sicura che la versione cinematografica di Spielberg sarà bellissima; aspetto.

con Orgoglio superare un Pregiudizio

Può capitare in vacanza di vivere qualche vita in più; quella che hai lasciato momentaneamente, indurita di giornate uguali, spesso insensate, alle quali cerchi di non pensare; quella che sembra presente, messa su all’uopo, inventata dai professionisti del finto divertimento e colorata di pizze di cartone e ciabatte gigantesche; quella che avresti potuto vivere, annegata in un assurdo non detto di convenzioni parentali e silenzi dolorosi; poi ci sono magicamente quelle dei libri che ti sei portata dietro o che scippi per un paio di giorni al comodino altrui.
E io, per magia, ho vissuto dieci giorni nell’Inghilterra benestante dei primi dell’Ottocento. Io ed Elizabeth. A che serve dire altro? Chissenefrega di dire altro della storia, dell’ironia, dell’intelligenza, della psicologia dei personaggi, della società, dello scorrere accattivante della prosa? O della lucidità, incredibile per quei tempi, con la quale il rapporto uomo/donna viene ridotto ai suoi minimi termini, ai suoi veritieri passaggi contabili? Orgoglio e pregiudizio semplicemente é un Romanzo, quello che un romanzo deve essere, il risucchio nelle pagine, la fretta di chiudere ogni altra cosa per nascondersi da qualche parte a leggere, il piacere di sapere che non lo hai ancora finito e tutto questo addirittura conoscendo perfettamente la trama e il finale.
Credevo di avere fra le mani il padre di tutti i fotoromanzi, il peccato originale donnesco e invece è stata la mia vera vacanza, il mio biglietto privilegiato sulla macchina del tempo e dello spazio.

lunedì 30 luglio 2007

noialtri, dovlatov

Caro Dovlatov, se mai un Dovlatov dovesse esserci nella scarna stirpe di cui faccio parte, sarei contenta se mi descrivesse come il tuo bizzarro cugino Boris, che diventa grandissimo quando è nelle situazioni peggiori, che è il primo in assoluto e si rovina per il gusto del gesto imprevedibile e di assoluta libertà.
Chissà invece quanto sono monotona e serva dentro per chi mi osserva!
Vorrei anche io essere capace di parlare del mio mondo, ammesso di riconoscere quale esso sia veramente, così da dentro, dal basso, senza morali, senza rinnegare, sorridendo, sentendosi una parte viva del tutto, elencando con leggerezza i fallimenti, le disavventure politiche e familiari, l'angusto regime sotto il quale ci è dato nascere come fossero i tasselli inevitabili, incomprensibili e secondari di un senso della vita molto più a portata di mano di quel che crediamo.

un'alba frettolosa

Ho letto diversi mesi fa la recensione di Raimo su Nazione Indiana e arrivo a leggere La scoperta dell'alba con questo giudizio negativo molto convincente. Quindi con pregiudizio.
Non credo che Veltroni desiderasse farsi annoverare fra i geni della letteratura italiana di inizio millennio. Né mi interessa sapere fino in fondo perché uno che ha il potere (piccolo o grande che sia) abbia bisogno di far finta di essere un romanziere; mi chiedo se il piacere schifoso e suadente che deriva dall’esercizio del comando, dal potere della decisione, dal gusto di essere sotto i riflettori nel bene e nel male non corrompa la persona fino a non lasciare posto per cose alte e belle come immaginarsi una storia di sentimenti e decidere di spendere del tempo a metterla su carta.
Tempo: questa è la domanda. Ho impiegato meno di due ore a leggere La scoperta dell’alba e prima ancora di decidere qualunque giudizio la storia è precipitosamente finita. Eppure di possibilità di sviluppo ce ne erano tante: la figlia down, il figlio solitario, generoso e “calvinista”, la moglie assente e fredda, gli anni di piombo, i mille rivoli dei ricordi degli anni settanta, il personaggio della figlia del professore ucciso, il personaggio della brigatista: tutto risolto in poche semplici battute. Insomma glielo chiederei a Veltroni perché si è imbarcato in questa avventura e poi l’ha lasciata incompiuta così: una bozza di discorso.
Però preferisco che abbia tempo per altre cose più urgenti e prendo questa bozza schematica di romanzo per quello che mi appare soprattutto: un se stesso sinceramente raccontato. Risolviamole così: non ho letto un romanzo, ho fatto una chiacchierata intima e commossa con Veltroni su un balcone rovente in un triste pomeriggio di fine luglio. Mi basta.

venerdì 27 luglio 2007

da non spedire

Cara Margherita,
che ti rispondo a fare? Mi mandi puntuale queste tue cartoline saluto, questi tuoi auguri implacabili: Natale-compleanno-Pasqua-onomastico. Perché lo fai? Sai che mi metti malinconia? Mi immagino tutto il tempo che hai, tutto quel tempo sprecato a fermarsi in una cartoleria e scegliere e comprare un cartoncino colorato in tema con l’augurio da fare, tornare a casa, trovare un angolo di tavolo pulito, sgombro da briciole e compiti e fotocopie e avanzi di ogni cosa che a casa mia riempiono gli spazi orizzontali sempre a dispetto dei miei tentativi di riordino, ma tu avrai innumerevoli spazi orizzontali puliti e sgombri e spolverati tutti i giorni; tu ti siedi e scrivi, con una bella calligrafia rotonda del liceo di una volta; e trovi anche qualcosa da scrivere nella tua esistenza che immagino uguale e tranquilla: riesci a riempire due pagine fitte; invece io non saprei da dove cominciare, non ho tempo per piangere a volte tanto le giornate, le settimane si accavallano, eppure non trovo, in questo caos, qualcosa che valga la pena dirti.
Tu ti ostini a scrivermi, puntuale e cocciuta, con aria di rimprovero, serena e gentile, invii un breve resoconto di qualche acciacco e un rapido riepilogo delle vite degli altri.
E poi trovi il tempo di incollare la busta e recarti da qualche tabaccaio, comprare un francobollo e incollarlo. Cercare con gli occhi sul marciapiede la buca rossa e scommetto che indugi un momento a decidere se la fessura giusta da Bari a Milano sia quella di destra o quella di sinistra.
E mentre tu organizzi questo evento speciale milioni di parole inutili, miliardi di frasi saluti insulti richieste si tramutano in messaggi di posta elettronica istantanea per altrettanti milioni di persone.
Invece tu mi scrivi con un gesto lento e antico come se, faccio fatica a dirlo a pensarlo a capirlo, venti anni ormai, venti anni, non fossero passati da quando si stava insieme nel pensionato universitario, da quando le nostre vite sono diventate diverse e non si sono più incrociate.
Anche questa volta non avrai risposta. Mi sentirò ridicola a elencarti le pagelle, i tornei, i centimetri che crescono sul muro misurati stagione dopo stagione, la riunione di condominio, le rughe nuove che mi leggo nello schermo del computer dell’ufficio.
Avrei da raccontarti altre storie. Ma sono sicura che non vuoi ascoltarle.

posta elettronica

Non so chi sia Franco Arminio
ma questa poesia è talmente...



Outlook di Franco Arminio

1.
venti, venticinque al giorno.
non parlo di sigarette
ma delle volte in cui apro la posta.
aspiro il fumo della comunicazione
ogni volta che è in corso la sospirata ricezione.
all'inizio lo facevo uno, due, tre volte,
ma poi ha preso il largo
la droga del messaggio.
invio, invio
e se non c'è risposta
scrivo e invio,
alla fine parlo
sempre io.

2.
sono qui che giro a vuoto
mentre gli altri restano in attesa.
faccio la lepre della corsa
ma nessuno viene dietro alla mia impresa.
sto giocando la mia gara fino in fondo
pur sapendo che finisce per spaccare il cuore
chi vuole spaccare il mondo.


3.
non scrivi a un altro
ma solo a un ricevente.
non ti agitare
non ti ascolta nessuno.
qui nulla è certo
e ognuno è re
del suo deserto.
alzati, a che serve altro parlare?
il guaio è che anche tacendo
si continua a sproloquiare.

giovedì 26 luglio 2007

manuale d'amore per desolazione metropolitana estiva

Perchè si faccia un film come Manuale d’amore 2 credo sia indiscutibile; perché una persona resti seduta una sera a guardarselo in DVD è stamattina per me oggetto di autoanalisi mortificante. Le cause di un tale degrado possono essere ricondotte a sovraccarico di lavoro mentale in ufficio in vista delle ferie, temperatura elevata in appartamento, silenzio e desolazione quasi agostana per le strade, vista su cantiere che imperterrito continua a cementificare e asfaltare.
Ma ormai il tempo è stato sprecato e bisogna salvare il salvabile. Il salvabile si sostanzia in una ripresa finale dall’alto di una terrazza con panni stesi e oggetti vari molto colorati a formare una serie di strisce perfettamente parallalele ma distribuite sulla terrazza; una delle strisce è un lenzuolo bianco sotto il quale si nasconde e sogna Verdone: bella immagine.
E poi le immagini dell’episodio sul matrimonio gay: campagna luminosissima, bellezza architettonica mozzafiato.
Il salvabile sono Albanese e Rubini e la figlia di Verdone e Dario Bandiera un po’. E la bellezza della ragazza spagnola.
Sceneggiatura bislacca.
Episodio Volo/Bobulova pietoso, quasi un insulto per chi da quelle situazioni ci passa davvero.
Scamarcio slip bianco grezzissimo e Bellucci inconsistente, che pena! Scena di sesso da emozione zero: Big Jim e Barbie avrebbero saputo dare qualche brivido in più.
Fastidiosissimi gli spot pubblicitari.
Patetica l’esposizione di Caos calmo.
Claudio Bisio che diavolo ci faceva? Mah!

venerdì 20 luglio 2007

aspetto il next

A Crichton devo un sacco di sogni e di piaceri mentali e astrazioni e sguardi oltre: per esempio Sfera e, indirettamente, l’amatissimo E.R.
Sicuramente non mi aspetto sofisticate sperimentazioni letterarie. Mi aspetto storielle avvincenti che ti tengano legato a sorbirti una specie di saggio divulgativo.
Superata la metà di Next cominci a chiederti invece quando arriva l’eroe. Non c’è. Non so che cosa sia passato per la mente a Crichton. Ho fatto molta fatica a seguire le microtrame: tutto pazzo, bizzarro, divertente e apparentemente scollegato. Sembrava che qualcuno avesse dato alla Premiata Ditta il compito di allestire una collezione di scenette sulle deviazioni della ricerca genetica e i suoi paradossali impatti etico/giuridici sulla vita delle persone. Più carinamente qualcuno invece dice che si tratta di una sceneggiatura altmaniana.
Non male il pappagallo parlante Gerard al quale va il mio premio di miglior personaggio; troppo superficiale e inverosimile la scimmietta-bambino Dave; irrisolta l’apparizione dello scimmione che bestemmia in tutte le lingue; scopiazzata e esagerata la fuga con fucile della mamma Burnett con bambino per sfuggire al prelievo di cellule; incasinatissimo tutto il resto.
Però non mollo. Un po’ Piero Angela, un po’ Spielberg, un po’ Dan Brown, caro Crichton... aspetto il prossimo.

lunedì 16 luglio 2007

Essere Daisy Miller

La prefazione di Italo Calvino introduce contrapposizioni Europa/America, considerazioni su male e paura di vivere, fobie di classe e perfino suggestioni spirituali di protestantesimo e paganesimo. Insomma un perfetto schema su cui legioni di liceali possono far fiorire tesine interdisciplinari.
Io invece arrivo a Daisy Miller di Henry James passando per Teheran e le lezioni di Azar Nafisi e la mia attenzione si ferma su Daisy e sulla sua semplice e diretta richiesta di essere se stessa. Senza ruolo.
Guardare dritto in faccia senza mossette strategiche. Decidere senza ossequi a formalismi paludosi.
E’ facile essere dalla sua parte sulla carta. Quando in gioco sono le ridicole richieste di presunta buona reputazione vittoriana.
Più difficile provare ad essere Daisy sul serio.
Prendiamo per esempio essere una donna, entrare ogni giorno in un ambiente di lavoro, avere una famiglia: quante mezze calzette di Winterbourne hanno bisogno di trovarti etichette per poterti ridimensionare?
Quante Mrs. Walker hanno sempre la regola giusta da indicarti, dietro solide ipocrisie così comode? Comode anche per Daisy, diamine. Non è molto meglio essere rispettabile? Perché ostinarsi come Daisy a provare la passeggiata notturna fra le rovine del Colosseo, perché ostinarsi a farsi vedere in giro in compagnia di Giovanelli, quando sai che non te ne importa nulla?
Al solo scopo di indisporre la Mrs. Walker di turno è evidente. E non darla vinta a Winterbourne, che diciamocelo, è proprio un vigliacco.

giovedì 28 giugno 2007

formiche guerriere

Un procedere di formichine, dapprima solitarie, poi in gruppetti sempre più folti e determinati. In poche ore costituiscono un esercito.
Partono da un punto, un punto molto preciso sulla nuca e fanno il giro passando in alto, ben lontane dalle orecchie. Arrivate alla tempia si separano e diventano pian piano più crudeli; le prime si avventurano in profondità, raggiungono la mascella e si fissano su un solo dente, dietro un inconsapevole molare, martoriandolo; le seconde cominciano a mordicchiare la pelle del volto, là dove lo zigomo si allarga verso l’occhio, e proprio dietro l’occhio si trovano all’improvviso le più temerarie e non capisci che strada avranno fatto per ritrovarsi dietro l’orbita così tante, così tante da rendere pesante la testa e ogni suo piccolo movimento dispendioso, troppo dispendioso di energie.
Poi comincia la lieve nausea e una specie di disgusto verso il dolce e il salato e il caldo e il freddo.
Le palpebre stanno meglio abbassate, l’occhio sinistro ha una sottile panna incolore che attutisce la luce.
I rumori intorno rimbalzano su casse di risonanza misteriose.
Lo stomaco piange.
Le formiche adesso si sono messe a danzare una danza violenta proprio sulla sommità della testa. Picchiano con i martelli. Li hanno costruiti con gli spilli arrugginiti.
Pietà, farò tutto quello che volete, smettete, ogni piccolo spillo mi provoca un brivido strano.
Formiche guerriere del mal di testa.

domenica 24 giugno 2007

il disegno finito

Tu sei, nel risveglio,
il fluire immediato
di sangue e luce,
il colore del sogno appena interrotto,
ma sfugge.
Così cerco di dimenticarmi
di quella consuetudine appagante
che sembrava così normale
questa notte.

Tu sei l’arrivo
oltre il quale non cerco motivi.
La placidità della fine della corsa,
quel sentore schiacciante e dolciastro
che blocca il respiro e significa
che hai vinto.

Tu sei un esame passato;
il libro sfatto di angoli rotti.
Tu sei il disegno finito,
che non serve più sporcare di pastello
replicando linee di colore imperfetto.
Sei già tutte le ombre che ci vogliono
e tutte le sfumature.

Tu sei quell’esatto momento
di pomeriggio compiuto
in cui la pelle è sporca di sale;
sole basso, rosso e rotondo
e rumore di mare allungato.

Tu sei il silenzio della controra
lussuriosa;
l’orologio bloccato nel momento perfetto.
La stazione dove si vorrebbe scendere.
Il viaggiatore tranquillo
che voltando la schiena
esce, con una borsa piccola
e passi tranquilli, dalla stazione.
E dal finestrino lercio
lo guardo che va nel sole
e non ne sento più i passi
mentre il mio treno imbocca l’ultima galleria.

venerdì 15 giugno 2007

Leggere Leggere Lolita a Teheran a Milano

Questo mi spiazza: che i simboli di femminilità da me mai desiderati, quasi disprezzati come segno di inutile vanità e esposizione degradante di se stesse, qui invece mi appaiano come simbolo positivo.
Per me sono liberi e a portata di mano; anzi sono parte integrante di quella che mi appare la follia collettiva delle donne di farsi bambolotte per vendere: rifiutarli è il vero gesto di libertà.
In questo racconto doloroso mi accorgo che anche un colore più vivace di un calzino diventa reato.
Allora lo smalto che io non metto, il rossetto che non uso sono da difendere, da invocare? Sono davvero il simbolo della mia possibilità di decidere di me stessa?
Libertà di smalto e libertà di lettura.
Perché, ho chiesto, secondo te, se la sono presa così tanto con le donne?
Perché una donna giovane è desiderabile e ha un potere forte di cui hanno paura e che vogliono neutralizzare, uno mi ha risposto.
Un altro invece ha detto che non c’è un vero motivo, che tutte le rivoluzioni nascono da uno spunto sacrosanto; poi finisce che, dopo la prima fase, il potere vero resta in mano ai peggiori, e questi, senza neanche sapere veramente perché, prendono una frase, un dogma qualunque e ne fanno legge sacra, per il puro gusto di esercitare controllo e fare del terrore.
Non lo so chi ha ragione.
Ho solo paura che questo o qualcosa di simile possa accadere in ogni momento, anche qui.
E ho deciso di comprare più libri.
E mettermi il rossetto.



qui
recensione di Citati

giovedì 7 giugno 2007

Alice Munro e me

Quando ti invaghisci di una scrittura e del suo autore dovresti affrettarti a consigliarlo in giro. Perché questo non mi accade con Alice Munro? Il sentimento più forte quando la leggo invece è il senso di privilegio tutto mio per avere fra le mani quel libro in quel momento, quello e non l’ultimo giallo ammiccante; e poi il piacere di una conversazione privata fra donne. Non una conversazione fra donne che si lamentano delle solite cose, invocando una sorellanza. La voluttà che mi regala Alice Munro ha a che fare con l’idea di nascondersi sotto le coperte con mia sorella e raccontarsi delle cose nostre, quelle vere, quelle che noi stesse non avevamo capito troppo bene se non nel momento in cui abbiamo provato a nominarle o che avevamo capito troppo bene e avevamo paura a dirlo forte. Poi ci stiamo raccontando fatti e casi di altre e stiamo dando un’altra versione, spiazzante, un po’ perversa, stiamo mischiando le carte, stiamo riallacciando segreti del passato e normalità finta del presente. E mentre facciamo tutto questo contano il colore di un vestito, un episodio buffo ma quotidiano, una nuova pettinatura, un lavoro di casa. E le persone di cui parliamo non hanno nulla di speciale, hanno tratti del viso banali, corporature naturalmente brutte, esistenze vicine e scialbe. Ma mentre parliamo le arricchiamo di sensi oscuri, e arricchiamo di senso il nostro appartamento spoglio di ragazzine qualunque, abbiamo negli occhi il lampo di un gesto ribelle che sparigli la partita, abbiamo il coraggio di provare a guardare nel pozzo dei sentimenti cattivi, degli altri e nostri.
Ecco, forse, è talmente grande la capacità di questa lettura di passarmi sotto la pelle che ho quasi paura a consigliarla in giro, quasi per il pudore di non voler pubblicizzare un pezzo della mia verità personale, invece che un libro.

lunedì 28 maggio 2007

Pedra Delicado, tipo tostissimo!

Vita sentimentale di un camionista di Alicia Gimenez Bartlett mi aveva lasciata un pochino perplessa, mi ero detta: ma questa non è semplicemente una femminista, questa è una che gli uomini li spellerebbe lentamente per cucinarseli a fuoco vivo. Il protagonista di questo romanzo è talmente squallido e la fine che la Gimenez Bartlett gli riserva talmente adeguata a tanto squallore che mi sembrava ne perdesse la verosimiglianza della storia.
Poi ho letto Morti di carta, uno dei romanzi della serie poliziesca.
Prendi una trama gialla e provincializzala; insomma mettici un commissario/ispettore/poliziotto/avvocato molto legato alla sua terra; poi fanne una serie in modo che il lettore si affezioni al protagonista. Il risultato è godibilissimo; il mistero, il gusto dell’arrivare a scoprire l’assassino prima che te lo dica l’autore, il gioco del riconoscere i luoghi, la piacevolezza di fare il turista fra le pagine. Quanti ne ho già letti negli ultimi anni? Pederiali-Bassa Padana; Camilleri-Sicilia; Oggero-Torino; Biondillo-Milano/Brianza; Carofiglio-Bari; Montalban-Barcellona.
In un momento di stanchezza, in una fase di malumore questi romanzi sono una medicina sicura, anche se il giochino è scoperto e non si può fare a meno di notare una certa omogeneità.
Ma se posso votare, questa Pedra Delicado barcellonese della Gimenez Bartlett non mi dispiace per niente: a) è cinica e disillusa; b) è tosta e prepotentemente femminista; c) infila una dietro l’altra piccole perle di saggezza sulla vita quotidiana.
Per esempio, di questo Morti di carta, mi tengo stretta questa bella frase un po’ buddista, un po’ amara, un po’ divertente che in questo momento mi calza addosso a pennello: “Perché rovinarsi la vita con toni da tragedia, se poi tutto finisce per essere quotidiano, ripetitivo, normale?”

martedì 22 maggio 2007

caos calmo

Il titolo è perfetto per questo bizzarro andirivieni, in un parcheggio davanti a una scuola, di personaggi ai quali cerchi di dare un significato e che invece passano e vanno senza che possano dare una svolta concreta alla storia. Ed è perfetta per questa storia la parola che ho trovato nella recensione al romanzo sul sito degli architetti di Roma (?): entropia. Diamine, ho pensato, è vero: questo romanzo racconta un po’ di quel lento e impercettibile aumento dell’entropia che avviene inesorabile a spese del nostro universo ordinato e strutturato e a spese del significato secondo il quale le molecole sembrano disporsi.
Volevo anche dire, sentendomi molto acuta e colta, che Caos Calmo comincia come L’amore fatale di Ian McEwan e prosegue come se fossimo in un romanzo di Ian McEwan, ma mi è bastato aprire la prima recensione nell’ordine che mi propone Google per sapere che questa cosa l’ha già detta qualcun altro (Antonella Cilento).
L’ambiente sociale della storia forse è veramente troppo alto? Certo non ci si sente proprio bene quando gli unici personaggi nei quali ritrovarsi sono le povere mamme di Gorgonzola descritte in maniera impietosa: non badano alla linea, vestono sciatto, non sono abbronzate anzi hanno addosso l’inconfondibile marchio della periferia; beh, Veronesi, se metto insieme questa con quella in cui dichiari che tutte le post quarantenni dovrebbero vestirsi con il tailleurino, ho un prurito alla lingua che mi verrebbe da mandarti a quel paese. Per fortuna ti riscatti un po’ poiché, anche se dai per tutto il libro della “culona” a una donna, decidi anche che proprio quel particolare anatomico si faccia simbolo e protagonista.
Ma a parte gli scherzi, non sono più così sicura che la scelta di un ambiente alto-borghese di moda e televisione sia così poco rappresentativo di una fascia enorme di lettori: a guardarsi intorno, le persone, quelle comuni, quelle al supermercato sotto casa, sembrano vivere immersi sopra le loro possibilità nella vita che viene raccontata ininterrottamente dalla pubblicità alla televisione al locale trendy sotto e poi di nuovo dalla pubblicità al negozietto in franchising che sembra venderti l’appartenenza a un universo piuttosto che uno straccio di maglietta.
D’altra parte, se quello che vediamo dipanarsi fra le pagine è sindrome di Peter Pan, incapacità di elaborazione del lutto, disordine silenzioso, mancanza di senso nei rapporti fra le persone, l’ambiente doveva essere quello di uno che vive a via Durini 3 piuttosto che a Corvetto.
Anche se a via Durini 3 praticamente non ci andiamo; perché la scelta di Milano vale, mi sembra, solo come antitesi del ritorno a Roma, della perdita di Roma; perché la Milano come la vediamo noi che ci viviamo tutti i giorni in questo libro proprio non c’è.
A me il libro è piaciuto molto; la verità è che io continuo a vivere, proprio così continuo a vivere da qualche anno, fusioni in ufficio e sono grata per aver trovato nel romanzo alcune profonde riflessioni, alcune piccole verità. Serve solo a sentirsi un po’ meglio, forse. Serve a una fugace gratificazione, una specie di carezza sulla testa che ti dica che quella rabbia che si alterna allo scoramento è un sentimento legittimo, se ha trovato posto in un romanzo di moda.
Romanzo di moda, un pochino: ogni tanto ti sembra che stia lì, appiccicato con il post it, un riferimento troppo contingente, un episodio troppo piccino, una fatterello che c’entra poco, come è uso in molti romanzi di nostri contemporanei.
MI sento però di dire che, diversamente da alcune osservazioni lette, la scelta di mandare il collega genio e trombato dalla fusione a fare il missionario non è così superficiale quanto potrebbe sembrare. Bisogna viverlo lo sgretolamento delle certezze professionali alle quali hai sacrificato quasi tutto. Bisogna viverlo quel vuoto improvviso, sapendo che sei troppo vecchio per cercare di reinventarti di essere qualcosa di diverso da un funzionario che non serve più a nessuno. E la prima idea cui ti aggrappi, lo giuro, è quella di voler essere il più utile possibile a dispetto di una macchina impersonale che ti rende inutile di colpo. Il più utile. Fino al gesto romantico.

giovedì 17 maggio 2007

A casa nostra di Francesca Comencini: un film intensamente femminista.

Celeste, Bianca, Lucilla... Rita, ma non si capisce bene, mi sembra che forse il suo ragazzo Matteo la chiami Vita da lontano, ma è solo un mio lapsus d’udito. Nomi luminosi.
Ma la metropoli non è affatto luminosa. Domina il grigio.
Non l’ho riconosciuta Milano, perché io a Milano ci vivo e nel film non ci sono rumori, non ci sono file scomposte e impazzite di macchine, non c’è il cemento che vive di vita propria e ci si arrampica addosso strisciando dai mille cantieri di parcheggi sotterranei e appartamenti sventrati ad ogni nuovo inquilino.
Ci sono invece dei silenziosissimi panorami in penombra, delle torri illuminate a metà, delle balconate di case di periferia sotto tramonti disperati.
Ma non credo che fosse necessaria Milano; serviva una metropoli dove il denaro circola, determina, corrompe, compra consensi e corpi.
Forse è vero quello che ho letto qua e là nelle recensioni: troppa carne al fuoco lasciata cadere un po’ di corsa e quando finisce il film resti sospesa, ti aspettavi un finale più spesso, qualcosa di più compiuto. Ma forse invece questa è una scelta precisa di stile che ha peraltro illustri riferimenti, per esempio Altman.
Se un difetto si vuole proprio sottolineare (ma non è neanche così necessario farlo) è il facile manicheismo: buoni troppo dolci e malinconici, cattivi veramente bastardi anche se ugualmente infelici. Tendenzialmente dalla parte dei cattivi gli uomini che bevono e mangiano parlando di calcio e si scambiano complimenti per chi è più bravo con i soldi e si offrono prostitute in regalo, tendenzialmente dalla parte dei buoni le donne che resistono, desiderano la maternità, che non si rassegnano all’infertilità.
La mia visione tutta di parte del film ha apprezzato, ma velocemente, gli aspetti legati alla disonestà e alla corruzione, allo squallore del mondo delle modelle, al disastro della televisione-verità, al disagio del commesso di supermercato che spera in una vita migliore (mentre la moglie/infermiera si fa il mazzo in ospedale e non ne condivide le aspirazioni materialiste), alle parole macchiettistiche (ma praticamente ormai linguaggio di tutti i giorni) del politico che inaugura i giardinetti e altri cento risvolti sociali attualissimi.
La mia visione tutta di parte si è lasciata molto suggestionare da questa centralità della figura femminile capace di coltivare ancora una speranza, dallo scambio di testimone fra la prostituta in coma e il suo neonato, dalla decisione della protagonista di troncare alla fine il rapporto sterile con Matteo, incapace di responsabilità, incapace di slancio.
Ci sono diverse scene di rapporti sessuali; diverse scene e scene molto diverse fra loro. Quella in cui il banchiere Zingaretti lascia la fragile modella Chiatti, dopo essersela maneggiata a distanza come un pupazzetto, su un carrellino al fondo di un grigio corridoio in un interno chic e soffocante; quelle immaginate appena subite nel degrado e nella totale mancanza di umanità dalla prostituta dallo sguardo meraviglioso; quelle tra la modella e il commesso rimorchiato una sera nella ricerca reciproca di una rivalsa alle proprie aspettative deluse; quelle della protagonista Golino aggrappata a un amore al quale crede solo lei, mentre lui letteralmente si sottrae all’abbraccio che cerca la vita.
Questo ho visto soprattutto e per una volta, anche la scena del parto vero, non mi è sembrata fuori posto.

mercoledì 16 maggio 2007

ancora Foscolo: A Zacinto

E’ tutto.
Basta ripeterla, così con le sue rime e quelle c e l e f che si inseguono e la voce non riesce a posarsi ché ogni immagine ne richiama un’altra in un crescendo che raggiunge il suo culmine in un nome magico, Ulisse.
Basta ripeterla e so quello che sono, so quello che sento.
Esilio, mancanza di patria, incapacità di capire qual è se mai ce ne è una.
Vaghezza di immagini di nubi bianchissime sparse in un cielo aperto e fronde d’ulivo, perse per sempre, che quando torni a vederle sono troppo polverose e devi scappare.
Terra petrosa e irraggiungibile, abbandonata al seguito del “folle volo” di Ulisse.
Bellezza eterna del mare.
Ulisse: bellezza della fama; tragica attrazione per la sventura; impossibile smettere di cercare.
Bellezza e basta.
E canto.
E la solitudine illacrimata. Nessun pianto.

C’è tutto.