lunedì 21 luglio 2008

girolamo de michele

La visione del cieco ha, secondo me, tra le altre, tre caratteristiche:
- c’è il solito protagonista che cerca di dipanare un mistero, però per una volta non c’è il suo giganteggiare sulla vicenda “gialla”; Giulioandrea è presente con il suo vissuto ma è un vissuto che si intuisce, si ricorda ed è soprattutto un vissuto di fatti che hanno un rilievo storico sociale importante; non ci sono tic e gusti culinari, particolari erotici e ricordi di infanzia... non ci sono insomma i fattacci propri dell’ispettore/avvocato/giudice/commissario/professoressa;
- c’è una prosa ricercatissima nella stesura (si intuisce dietro un lavoro enorme) eppure di lettura agevole; a volte, in altri libri mi è capitato di avvertire la sensazione contraria ossia una prosa ostica alla lettura, risultato di una ricercatezza fine a se stessa e probabilmente non così difficile da mettere giù in quanto frutto di un “parlarsi addosso” scambiato per alta cultura;
- c’è un mondo; è un mondo che non mi appartiene; non conosco i vizi privati di una provincia opulenta e senza anima; conosco il vivere faticoso e sfidante della grande metropoli; però mi interessa leggere la cronaca del mio tempo e certi riferimenti precisi che a pelle potrebbero sembrare fastidiosi e svilenti, servono magari proprio a rendere più netto il contorno e acquisteranno valore con il passare del tempo.
Tre caratteristiche che colgo io, sono anche tre pregi?

lunedì 14 luglio 2008

maria full of grace

C’è questo film colombiano. C’è questa bellissima ragazza. Bellissima.
C’è questo quadro di miseria collettiva. C’è un ragazzo che non sa o non vuole salire sul tetto. C’è un bambino che deve nascere. C’è Maria, archetipo della donna incinta alla ricerca della stalla e il figlio non è figlio di nessuno o forse è figlio dell’intera umanità e a Maria spetta il compito di farlo nascere.
C’è questa storia delle donne che ingoiano le capsule di cocaina e rischiano morte e galera, andata e ritorno da New York.
C’è il mito dell’emigrazione.
C’è che il film finisce bene e allora qualcuno dice che è un documentario didascalico.
Ma io non sono sicura che finisca bene. Finisce con una sfida aperta perché avere un bambino da far nascere crea una forza e questa forza risulta incomprensibile a te stessa in qualunque altro momento della vita.

mal di pietre

mal di pietre è brevissimo; con tutto il materiale che c’è dentro si poteva fare una soap opera di 5 stagioni. Non capisco se è un merito o un demerito, cioè se lodare l’autrice per la capacità di sintesi (chissà come martella i suoi studenti su ‘sta cosa) o rammaricarmi per lo spreco.
Mal di pietre è molto accattivante per un target ben preciso, cui appartengo: donne, sposate, madri, oltre la quarantina: insomma gronda autobiografismo femminile di quello buono, di quello che ci trovi l’amore per la propria terra, qualche espressione dialettale qua e là, ricordi di infanzia, maternità, desiderio di amore profondo, sensualità negata, istruzione negata, senso della famiglia, testimone che passa da nonna a nipote.
Qualcosa s’era già visto, per esempio c’è molta Tamaro in questo libro.