lunedì 30 aprile 2007

Primo Maggio, Primo Levi

Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono.

Primo Levi, La chiave a stella

giovedì 26 aprile 2007

Frank McCourt, i libri, il film

Ho letto Le ceneri di Angela dopo aver letto Che paese, l’America; poi ho saputo che il primo era il capolavoro e il secondo era già il volume b, tanto per cavalcare l’onda del successo. Ma a me anche Che paese, l’America era piaciuto. Non tanto per il contenuto, perché (come poi per Ehi, prof!) ha il lieve difetto di essere un po' piatto, tutto uguale dall'inizio alla fine, tanti piccoli episodi in fila all’altro, e puoi leggerne uno prima, uno dopo, uno oggi, uno fra un mese. Di Che paese, l’America mi aveva colpito la freschezza, il racconto diretto, la lingua viva.
De Le ceneri di Angela non può che colpirti l’ottimismo, la comicità dell’assurda ingiustizia, la povertà che diventa quasi una forza.
Del film registro il colore grigio/marroncino stanco e la pioggia continua; invece il libro mi era sembrato più colorato. Registro che i bambini sono proprio belli, invece nel libro me li ero figurati decisamente malmessi.
Registro la celebrazione del sogno americano, un po’ in stile; ma poi mi ricordo che è una storia vera e non è stato forse vero che l’America ha salvato Frank McCourt?
Ho anche fatto l’educatrice pallosa e ho sottolineato con forza ai miei figli che quel ragazzo del film si è salvato perché era brillante a scuola.
Sono più di 40 anni che credo anche io a questa favola e mi lucido gli occhi alla mia statua della libertà personale, da qualche parte del centro qui a Milano...

martedì 24 aprile 2007

Sette piani di Dino Buzzati

Qual è la metafora di Sette Piani di Dino Buzzati? Evidente, la vita stessa: cominci dal settimo e guardi con scaramantico distacco i poveretti dei piani inferiori, giù giù fino all’orribile primo piano degli incurabili moribondi. E un po’ alla volta li fai tutti quei piani, anche tu, inesorabilmente.
E tutti intorno a prenderti in giro, ché si scende di un piano, ma è provvisorio, è una parziale riorganizzazione, è un errorino burocratico senza peso; e, illuso a volte, ma a volte disperato, scendi sempre più giù, completamente impotente.
Resta il dubbio se chi ti sta intorno ti stia prendendo in giro sapendo di farlo, o se si tratta di (a loro volta inconsapevoli) ingranaggi di una burocratica e insensata organizzazione fine a se stessa: ma allora, mi allontano un momento dall’idea della metafora della vita e della morte e mi trovo invece immersa fino al collo nella metafora dei luoghi di lavoro per esempio.
Quella volta che lo spostamento nel triste capannone di periferia era solo per un paio di mesi, tre al massimo, sai i vostri uffici sono già pronti; e via, una volta che ci sei...
Oppure quella volta che andava in pensione l’anziana signorina della copia, lasciando indietro qualche lavorino da ridistribuire, sì, lavori insulsi, a volte umilianti, però che vuoi fare, temporaneamente ce ne prendiamo un po’ per uno, finché non si trova una soluzione organizzativa migliore e... da 4 anni ormai, rispondi al telefono e batti gli indirizzi su Word.
O ancora quella volta che c’era un buco da coprire in una città lontana; alla prima possibilità il posto in sede è tuo e sono 8 anni che fai il pendolare.

lunedì 23 aprile 2007

Everyman di Philip Roth

Everyman è il racconto di una persona che muore; come tutti. Non ha niente di speciale questa persona che muore, ha fatto un po’ di stupidaggini nella vita, qualche errore come tutti; un paio di errori veramente fondamentali, però.
Mi sono chiesta a chi parlasse Roth; a chi consiglierei questa lettura. Penso che i post sessantenni dovrebbero tenersene proprio alla larga perché sprofonderebbero. Penso che i trentenni non lo capirebbero ancora, lo troverebbero solo un po’ funereo, una specie di gioco letterario macabro, esteticamente perfetto.
Così, in preda a una autoreferenzialità anagrafica, mi sembra che i lettori ideali sono quelli che gravitano nel vasto intorno del decennio 40-50 anni, quando gli errori irreversibili che marcano l’esistenza sono stati fatti tutti ma c’è ancora tempo, forse, per capirlo e passare il resto degli anni a crogiolarsi nel perché e i percome, raccontandosene il film e provando a mettere qualche pezza qua e là.
Che il protagonista è morto si sa dalle prime righe ed è inutile che io stia qui a girarci intorno: devo morire anche io e anche io lo so dalle prime righe. E allora perché lo leggo questo libro di cui conosco già da subito il mesto finale? Per la banale speranza che nel mezzo ci sia qualcosa che valga la pena, comunque. Mi immergo con Roth in un esame a posteriori, io che ho più di 40 anni e un bel pezzo di capitoli già scritti definitivamente.
Mi prende, perché è già successo (è Roth, è quello di Pastorale americana, è quello di Il complotto contro l’America, è questa formidabile capacità di racconto di umanità) e dopo un po’ mi accorgo che faccio il tifo: vabbene, muore, ma almeno non muoia SOLO, è questo che desidero fino alla fine, il colpo di scena finale per il quale trepido fino all’ultima riga, non senza piangere a singhiozzi, veri, nella penultima straziante sequenza, sulla tomba dei suoi genitori, e del mio padre morto, e sulla mia tomba e su quella di Roth, e di tutti quelli che oggi ancora vivono vicini a me, che non amo abbastanza e mi toccherà forse vedere cadaveri, infilati in una cassa e in un buco.
Che cosa abbiamo sbagliato? Quella seconda moglie così perfetta, tradita in maniera così stupida? Quella figlia affettuosa? Quei due figli maschi lasciati crescere senza padre per leggerezza, non per cosciente menefreghismo? Quelle amicizie che magari valeva la pena tenere care, che non finissero con l’essere alla fine solo l’angosciante dovere di telefonate di condoglianze? E quella stupida idea di credere che l’età anziana coincidesse con la magnifica libertà creativa, con la possibilità finalmente di dare sfogo all’estro troppo soffocato dai doveri di lavoro e di famiglia nel corso della cosiddetta vita attiva?
Quando ho chiuso il libro ho pensato: ma quanto tempo avrò ancora a disposizione per rimediare qualcuno che ci sia quel giorno a tenermi la mano?

venerdì 20 aprile 2007

vonnegut e faletti

Insomma Eliot è un pazzo, o è il meno pazzo di tutti? Fra situazioni strampalate e ironia dolorosa ieri sera ho finito Dio la benedica, Mr. Rosewater di Vonnegut. Vorrei averlo qui accanto a me, Vonnegut, e farmi suggerire la chiave ironica migliore per sopravvivere al grigiotopo spalmato sulla faccia delle persone che mi girano fra i piedi in quest’ufficio. Il pensiero, idiotissimo, che mi è passato per la mente invece è che essere così diverso e lucido e intelligente non gli è servito a non morire. Come non serve a nessuno. Poi se lasci andare la mente su questa china pericolosa non ti fermi più. Sarà colpa di quel meraviglioso, potente Everyman di Philip Roth che mi gira funereo per le viscere da quando me ne sono goduta la lettura tre settimane fa?
Poi non avevo sonno e in circa venti minuti mi sono fatta passare per le mani la favoletta di Faletti allegata al Corriere di ieri. Forse non erano venti minuti, forse di meno. Io ci ho messo un euro in edicola e venti minuti di una sera già andata. Lui quanto ci avrà messo? Credo altrettanto poco. Tutto sommato è stata una transazione equa.

giovedì 19 aprile 2007

aprile e i quasi adolescenti

Il vecchio proverbio stupido diceva “Aprile non ti scoprire” e se dopo giornate da temperature estive una mattina in bici alle 8 per le strade di Milano ti accorgi che era meglio se ti mettevi addosso uno strato in più, non ti puoi stupire: il proverbio antico te lo diceva, perché Aprile ha tutto il diritto di propinarti una giornata fresca all’improvviso, come e quando vuole. Ma il secondo immediato pensiero, sempre sulla bici, è: “Come si è vestita quella fanatica di mia figlia?” e ti sembra di ricordare dei pantaloni corti mimetici, una magliettina che lasciava fuori l’addome ad ogni minimo movimento, una felpina bianca striminzitissima, insomma una mise agostana da serata sulla spiaggia.
Stavo facendo finta di prepararmi a fronteggiare i figli adolescenti, anticonformismo e ribellione, rifiuto dell’ordine, individualismo sfrenato e mi preparavo coltivando la parte ribelle, l’ex-adolescente (o quel che ne resta) in me, collezionando anche qualche figuraccia pur di non diventare madre omologata e incapace. E invece ho sbagliato tutto, ché se fossi omologata forse riuscirei a capirla meglio questa ragazzina; il paradosso è che noi 40enni siamo scontenti e vaghiamo ancora alla ricerca di senso e loro invece non hanno nessuna voglia di ribellione e sono il bacino assertivo e pecorone di chi ci fa i soldi sopra.
E soprattutto, accidenti, non avevo finito di prepararmi, lei ha solo UNDICI anni!!!!

mercoledì 18 aprile 2007

fantascienza

Da pochi giorni è scomparso Kurt Vonnegut. Quale omaggio migliore che leggere uno dei suoi libri.
A caso.
"Dio la benedica, Mr. Rosewater" del lontano 1965.
Mi imbatto subito in un brano che voglio ricopiare: il discorso di Eliot agli scrittori di fantascienza.
...Siete i soli che leggo, ormai. Siete gli unici che parlano dei cambiamenti veramente straordinari che si stanno verificando, gli unici così pazzi da sapere che la vita è un viaggio nello spazio, e neanche tanto breve, perché durerà miliardi di anni. Siete gli unici tanto coraggiosi da preoccuparsi veramente per il futuro, da notare veramente tutto quello che ci stanno facendo le macchine, che ci stanno facendo le guerre, che ci stanno facendo le città, che ci stanno facendo le idee semplici e grandiose, di quali tremendi equivoci, errori, incidenti e catastrofi sono causa. Siete gli unici tanto sciocchi da arrovellarsi sul tempo e sulle distanze senza fine, sui misteri che non moriranno mai, sul fatto che sitiamo decidendo proprio adesso se il viaggio spaziale del prossimo miliardo di anni o giù di lì finirà in paradiso o all'inferno."