mercoledì 28 ottobre 2009

chi ha ucciso sarah? di andrej longo

Ingredienti da giallo classico, e pure in ordine canonico: c’è un morto; c’è un luogo del delitto sul quale tornare e ritornare; c’è la sfilata dei possibili imputati da mettere a turno sotto il riflettore e poi scartare, alibi dopo alibi; c’è la coppia solita di investigatori: il vecchio e il giovane, ossia il saggio e l’ingenuo, ovvero l’uomo dal passato ferito e il pivello che ci mette ancora il cuore.
E c’è la città, questa volta è Napoli, ma ognuna c’ha la sua; nei successi gialloseriali dell’ultimo decennio ormai il dialetto e i vizi del luogo fanno a gara con il “commissario” per chi è il vero protagonista.
Ma forse è questo il punto: che qua non c’è macchietta, non c’è vezzo, non c’è campanilismo. Lo sfondo è una città malinconica e stracciona, i rubinetti gocciolano a fatica e il caldo dissecca qualunque sentimento.
E l’io narrante non sa nulla, fotografa, ci riporta gli eventi piccoli piccoli, così come accadono, dei gesti e delle parole fa una cronaca scarna come se raccontasse a un amico ragazzo; la lingua incespica negli errori di un parlato popolano semidialettale, ma non fa fatica a farsi capire.
Così la lettura diventa agile, spontanea e gli occhi perduti di Sarah ti restano impressi come se nel cortile del palazzo bene l’avessi trovata tu stesso.
Delicato.

giovedì 22 ottobre 2009

Pausa caffè di Giorgio Falco

Giorgio Falco è un discepolo di Aldo Nove? Si può dire discepolo? Non ho idea di che rapporto intercorra fra i due, però penso che chi, come me, ha amato Woobinda e Amore mio infinito per esempio, continui a sentirne gli echi per tutta la lettura di Pausa caffè.
Pausa caffé è un puzzle disordinato e coloratissimo di pezzi di vita grama, di miserie, di lavori squallidi, di contemporaneità becera e autoreferenziale, di ottusità postcapitalistica, di deriva consumistica che diventa una filosofia di vita anche per chi non ha i soldi per consumare ma ingloba comunque i precetti del brand.
Forse un po’ lungo: capito il messaggio, alcune parti potevano essere sfrondate, ripulite senza danno; cioè il libro sembra il materiale grezzo sul quale costruire più che il punto di arrivo letterario che su quella materia riesce a ottenere passaggi di sublime lirismo (vedi Aldo Nove, appunto). Però merita un giudizio molto positivo, dove si pensi che il romanzo debba descrivere un’epoca: Pausa caffè ci riesce bene, riesce a farti sentire a disagio, in colpa per aver lasciato che tutto questo succedesse.

martedì 20 ottobre 2009

Con grazia

Una volta Grazia ed io siamo addirittura andate al cinema insieme.

Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.

Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.

Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.

Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.

Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.

Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.

Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.

Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.

Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.

Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.

Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”

Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.

“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”

Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.

Dissi: niente.

La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.

“Allora vuoi venire al cinema con me?”

Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.

Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.

Pensai che Grazia mi stava scegliendo.

Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.

Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.

Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...

A che ora?

Dissi così, dissi: a che ora.



Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.

Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.

Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.

Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.

Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.

Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.

Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.

lunedì 19 ottobre 2009

L'età barbarica

L’età barbarica non è un film imperdibile.
Una volta entrati nel messaggio, diventa piuttosto prevedibile e si tratta solo di aspettare qualche piccola invenzione stilistica che renda meglio o peggio l’idea, o le numerose citazioni, volute o inconsapevoli, da film di fantapolitica già visti.
Più che di una narrazione si tratta di un elenco ordinato di elementi di vita contemporanea, al passaggio dei quali ti resta solo da annuire, riconoscendoli.
Ecco allora:
- una attività lavorativa inutile, al limite dell’idiozia, chiusa dentro riti che servono a darle credibilità
- una famiglia ridotta a microcosmo economico, fornitrice di status e di beni materiali
- una organizzazione sociale desolante (il pendolarismo, l’ospizio asettico e freddo)
- una connotazione kafkiana delle istituzioni (gli uffici governativi dentro lo stadio immenso, con le persone ridotte a formichine impotenti, schiacciate da una realtà divenuta troppo complessa)
- un ordine sociale paradossale con i processi all’uso delle parole negro e nano e le ronde antifumatori con in cani, le vittime degli incidenti stradali che devono pagare per i danni all’arredo urbano o gli immigrati musulmani che stanno in galera senza motivo
- la fuga dalla realtà dentro mondi patetici: i sogni fantozziani del protagonista che sogna avventure erotiche e successi nei media oppure il finto mondo medioevale dove vanno a giocare la domenica un po’ di disperati
- infine la soluzione bucolica che soluzione non è: un po’ scontata, un po’ codarda, soprattutto senza speranza: per uno che si rifugia a fare la marmellata di mele (un cliché ormai dai tempi di Baby Boom) ce ne sono milioni che restano a resistere in questo schifo di mondo alla Brasil.

Il dubbio di Shanley

Grande prova teatrale per Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman, che mettono in scena un duello fra poteri, profondo nei contenuti e aperto nel finale, senza vinti e vincitori. Resa cinematografica un po' incerta, a tratti noiosa.

lunedì 12 ottobre 2009

una ragione per continuare...

... a venire qui di tanto in tanto?????????????????????