lunedì 29 dicembre 2008

La modista di Andrea Vitali

Quello che sono riuscita a fare a natale è stato leggere un libro che sembrava spesso ma in fondo era fatto di carta grossa e giallina: e scritto grande; e con tanti dialoghi.
C’è necessità anche di questi libri; di questi romanzi scritti leggeri, di queste storie con un intreccio che non fa male a nessuno: se ti trovi ostaggio per più di tre giorni in un posto dove ti è richiesto di fare la faccia di chi sta festeggiando il natale, questi libri possono servire molto; te li puoi portare tra un divano e una sedia, perfino davanti a un televisore acceso o mentre alcuni ragazzini giocano a playstation a voce alta e alcuni parenti si raccontano morti e malattie. E vai avanti con la curiosità di sapere che cosa succederà prima o poi, visto che non è che poi succeda molto. E la presunta caratterizzazione geografica della storia non riesci proprio a trovarla, ché quei personaggi starebbero benissimo anche in un romanzo di camillerioggerocarofigliopederiali...
Insomma, la pratica “andreavitali + natale 2008” è definitivamente archiviata.

martedì 23 dicembre 2008

mamma mia

Guardarsi il DVD di Mamma mia al buio, in soggiorno, con una figlia tredicenne e due sue amiche, ingollando patatine e succhi di frutta. E la più gasata sono io.
Alcuni motivi degli Abba che continuano a martellarmi nella testa da giorni; poi pensare che non è che ascoltassi tanto gli Abba io, che ero incistata con i cantautori italiani di sinistra... e insomma, sarà l’ennesimo “mito” inesistente, ricostruito a decenni di distanza, che fa leva sulla vecchiaia incipiente, facendoti sembrare magnifico qualunque cosa circolasse anni fa, solo perché erano anni fa.

lunedì 22 dicembre 2008

un'ottima annata

ridley scott????????????????????

giovedì 18 dicembre 2008

natale 2

Dei Natali dai 30 anni in poi ricorderò i saggi a scuola.
Fino a oggi.
Ho chiuso: i prossimi saranno da nonna.
Quello della scuola media musicale di ieri sera me lo ricorderò perché era veramente modesto: pochi brani approssimati, violini troppo troppo incapaci e nella fila in fondo a destra Silvia che piangeva al buio.
Forse era solo stanca, forse suo figlio maggiore fuma spinelli e prende tre in latino e greco, forse suo marito è un grandissimo stronzo o forse è lei che si è invaghita di un idiota.
O forse è che questo carico del natale da consumare, questo surplus di sorrisi e di scambi di auguri assurdi in cenette inventate all’ultima ora, questi canti natalizi al passo con i tempi dove figlie ragazzine che ci deludono ammiccano con i pantaloni a vita bassa e il capello di babbonatale luccicante in testa è meglio che passi il più in fretta possibile...

mercoledì 17 dicembre 2008

natale 1

L’albero di Natale in un angolo del soggiorno ho deciso che è mio.
A nessuno in casa sembra importare poi tanto.
Solo uno di loro mi ha chiesto distratto qualche giorno fa: ... e l’albero?
Poi si è dimenticato di aspettare la mia risposta.
Come un bravo soldatino ho però immagazzinato l’input e ho prodotto l’output nel giro di poche ore.
Lo stelo di plastica è sempre lo stesso da quindici anni.
Quindici per due fa trenta e quindi per trenta volte ormai il fil di ferro rivestito di aghi verdone scuro viene torto e ritorto, per assumere dimensioni credibili, in fondo alla parete e poi per rattrappirsi nuovamente nella scatola di cartone sempre più slabbrata.

Ho due scatole di palle nuove, azzurre e oro.
Ho dismesso il filo luccicante che perde i pelini tutto intorno sul pavimento e l’ho sostituito con un cordolo di palline lucide e discrete.
Ho riciclato un pezzetto di carta mimetica e vi ho posato la grotta, economica, quella con i pupazzetti già incollati sopra e tutti intorno cinque o sei pecorelle, un paio di improbabili pastori, i tre Re Magi, un’oca aggrappata a un pozzo...

Mi piace. Mi piace, soprattutto, che funzionino tutte e tre le serie di lucine.

Non se l’è filato nessuno.
Ho lasciato le lucine accese e le luci centrali spente, mi sono seduta sul divano e sono rimasta a guardarlo.

martedì 9 dicembre 2008

Amabili resti, Sebold

Il meglio di Amabili resti avviene nelle prime pagine: è straniante l’attacco della voce narrante e non solo perché si tratta di una voce narrante morta, ché in realtà a questo tipo di espediente narrativo siamo ormai abituati. Quello che fa colpo è il come e il perché l’io narrante sia morto, la descrizione particolareggiata e disincantata dell’orrore che ha condotto alla morte della ragazzina, stuprata e fatta a pezzi.
Catturati dal folgorante inizio, turbati dal fatto che lo stupro è autobiografico, ammaliati dalla freschezza e dalla dolcezza delle immagini adolescenziali quasi non ci accorgiamo che il bellissimo racconto fa però via via un po’ fatica a mantenersi all’altezza e comincia a oscillare fra il noir, la storia di fantasmi e il melò, planando su un lieto fine un po’ nebuloso.
Così tutti questi elementi, tenuti insieme da quello stile di prosa americano così diretto e fluido e cristallino, in conclusione mi sono sembrati sfocarsi in un secondo piano e la cosa che ho apprezzato di più, fino alla commozione, è stato il tentativo di raccontare una famiglia, un padre, una madre, tre figli e l’incomprensibile fatica del vivere amandosi.

mercoledì 3 dicembre 2008

Caravaggio: sete di cultura...

O qualcosa del genere. E’ un commento letto a proposito delle migliaia di visitatori del quadro del Caravaggio La conversione di Saulo in mostra gratuita a Palazzo Marino.
Bene. Sfrutto la meravigliosa nuova location lavorativa e utilizzo l’odierno intervallo pranzo per andare a dare una occhiata.
A chi sa ogni commento sul quadro.
Commenti che possono essere abbondantemente reperiti ovunque.
Chi ha fame di cultura si guarda il quadro sui libri e su internet e legge e impara e vede un sacco di cose in quel quadro che prima non poteva vedere.
Mettersi in coda in piazza della Scala è invece forse fame di qualcosa d’altro.
Intanto non dimentichiamoci la gratuità che rende appetibile qualunque cosa, tanto è gratis e quando ti ricapita?
Poi osserviamo la sacralità del contesto e le persone che disciplinano gli ingressi, le code nell’anticamera e le code nella stupenda sala dove, al suono di musica sacroclassica a giusto discreto volume, paletti e corde ti incamminano e ti irreggimentano e sembra di essere nell’infinita coda serpentina dei giochi di gardaland.
Infine ti guardi attorno e pensi che per l’ottanta per cento sei circondata da gente di mezza età ben vestita: siamo un esercito immenso, ex figli del boom italiano sulla soglia del prepensionamento e i figli già abbastanza cresciuti, forse l’ultima generazione a non avere urgenze economiche vere e non ci resta che darci alla cultura perché non abbiamo un fico secco da fare, o meglio da fare ce ne sarebbe ma nessuna passione politica o civile può oramai più smuoverci il cuore.

lunedì 1 dicembre 2008

Come Dio comanda

Reazione numero uno:
- ecco, di nuovo, violenza e pensieri inquietanti un rigo sì e uno no, atmosfera soft-noir, scelta di ambiente borderline, epopea di sfigati, insomma Ammaniti.

Reazione numero due:
- capacità narrativa da maestro, prende da matti, personaggi perfetti, suspence, velocità, cambi di scena, sospensioni ad effetto, vicenda corale; descrizione del mondo in cui ci è dato vivere molto calzante. Fra molti e molti anni se volete sapere come si viveva in Italia negli anni duemila chiedete di Ammaniti.
Descrizione dello stupro nel bosco veramente mirabile e terribile insieme.

Reazione numero tre:
- vicende sempre più improbabili; passaggio dal realismo al grottesco; in nome dell’amore Cristiano (nome a caso?) salva tutti. Amen.

Reazione numero quattro:
- Elio Germano nei panni di Quattro Formaggi? Non vedo l’ora, meraviglioso!

martedì 11 novembre 2008

webcam

La chiamo per telefono due o anche tre volte al giorno e mi sembra poco. Smisuratamente poco in relazione al numero incalcolabile di giorni che ho frapposto tra lei e me, andando a vivere lontano. Tento di arginare il senso di colpa raccontandomi che queste conversazioni telefoniche hanno una loro importanza, forniscono a lei una dimensione di sfogo senza la faccia dell’interlocutore, un luogo di produzione di parole che le consentono articolazioni di nuovi pensieri: questo non le è consentito nelle conversazioni con i figli che vede tutti i giorni e, paradossalmente, non le riesce neanche con la me stessa che va a trovarla per le vacanze estive.
Il patto silente è che sia sempre io a chiamarla; la scusa è che la mia tariffa conviene di più o che semplicemente io sono più ricca di lei, però la verità è che aleggia fra noi l’ingiusta presunzione che il mio tempo sia più prezioso e che tocchi a me decidere i momenti e che il suo di tempo invece sia una distesa paludosa nella quale pescare alla bisogna.
Finisce così che, se mi chiama inaspettatamente alla sera, mi procura un lieve moto di dispetto perchè turba l’incastonamento imperfetto che tento di comporre fra le piccole e insopportabili “cose da fare” in quelle ore che separano il rientro dal lavoro dal sonno notturno, ore nelle quali si stipa stretta stretta tutta la vita che vorrei e che alla fine si comprime in una illusione di rinvii, umiliati dal ferro da stiro, dal sacchetto sempre pieno della spazzatura, dal lavandino della cucina, perenne orizzonte bianco e piccolo piccolo del mio sguardo opaco.
Presumo che lei si accorga che mentre ci parliamo io mi muovo, sposto oggetti, produco suoni di stoviglie e acqua che scorre, strozzo la voce nell’ennesimo piegamento che raccoglie un calzino o una ciabatta; non la contraddico mai, sottolineo appresso a lei tutti i difetti di tutti i familiari e i vicini e i conoscenti, chiedo particolari di ricette di cui non mi importa nulla, commento e mi accaloro per l’ultimo programma televisivo che lei ha guardato seduta in cucina ed io ho sbirciato un momento e del quale ho letto su qualche inutile pagina di internet per tenermi aggiornata e darle qualche risposta all’altezza.
E’ successo che mio fratello l’ha fatta sedere davanti al suo computer e ci ha messo in comunicazione visiva.
Lei era ingessata ed io non avevo argomenti.
Ogni tanto fra le nostre due immagini sgranate calava un silenzio doloroso.
Le due figure accostate sullo schermo, la mia e la sua, tagliate sullo stesso livello del tronco, ugualmente dimesse da domenica pomeriggio, mi hanno obbligato a vedere me stessa in movimento lungo la scia dei suoi movimenti, a riconoscere i lineamenti comuni, le stesse spalle, il taglio dei capelli e la piega della bocca imbarazzata nello stesso ghigno di inadeguatezza e superbia inutile. Abbiamo riconosciuto l’una la voglia di chiudere dell’altra.
Esiste il territorio dell’incontro fisico con la sua ritualità e i suoi codici di ipocrisia e difesa. Esiste il territorio libero della telefonata senza volto.
Per questa videotelefonata invece mi sento senza strumenti.
Finalmente lei ha trovato la forza di chiudere.
E mi ha richiamato per telefono mezz’ora dopo, sollevata.

l'ospite inquietante

Il fatto che io abbia così significativamente ridotto il ritmo numerico dei libri letti è dovuto a un contrarsi contingente delle ore a disposizione per la lettura o a un inconsapevole momento di rigetto?
Forse è solo un caso; forse è solo che niente che mi sia passato per le mani in queste settimane mi ha catturato, sia pure per una sola pagina.
Forse è che l’aiuto saltuario richiesto da mio figlio per fisica e matematica mi sta costringendo (con mio sommo diletto!!!) a metterci del tempo e della passione, di solito sfogata sui libri.
Comunque ho finalmente letto il famoso L’ospite inquietante di Umberto Galimberti, pieno di tanto buon senso in bella forma e di tante idee sulle quali non si può che essere d’accordo; facile da leggere, spunto di riflessioni sul proprio quotidiano.
Quando si leggono libri così scatta la sindrome dell’impegno sociale e ti metti a portarlo in bella mostra nelle situazioni più disparate, augurandoti che ti chiedano “cos’è perché com’è chi è” e tu suggerisci lodi e proponi.
Me lo hanno già chiesto in prestito in cinque o sei.
Eh dai, compratelo; è uno dei rari casi di libri per i quali il rapporto contenuto/prezzo è superiore alla triste media.
Non è che ci siano dentro risposte definitive; è però pervaso da una tensione spirituale forte e questo mi piace, di questo c’è bisogno, tensione spirituale.
Non voglio più lasciarmi scavare dentro dal tanto che fa, tanto a che serve, tanto è lo stesso.

giovedì 6 novembre 2008

è morto Crichton

è morto Crichton
mi dispiace
molto
veramente molto

ci sono diversi momenti della mia vita che sono stati più sopportabili grazie a lui

per esempio la lettura di Sfera
per esempio l'idea di E.R.
eccetera

lunedì 27 ottobre 2008

caos calmo parlandone da film

Se non avessi letto Caos calmo di Veronesi, sono sicura che, alla fine del film, mi sarei chiesta di che cavolo parlava. Con tutta la simpatia nei confronti dell’autore, la verità e che sotto sotto penso che le persone di cui parla nel suo romanzo siano insopportabilmente inutili.
Insopportabilmente non per loro colpa, ma per troppa adesione e senso di colpa, ché ad ogni riga finisco per riconoscermi e sentire quindi ugualmente inutile la mia propria esistenza.
Caos calmo (il libro) descriveva una realtà sociale molto simile alla mia, una ritualità di eventi del piccolo esistere nella quale sono immersa anche io. Così la lettura era gradevole, anche perchè, pur in assenza di eventi avvincenti, era ricca invece di pensieri interessanti.
Il film non può tradurre a fondo i pensieri, può suggerire e ottenere che chi ha letto il libro riconosca il passaggio e rifaccia un breve percorso emotivo, ma chi questa lettura non ha fatto? Vede il padre fermo sotto la scuola e, infine, il padre che rimette in moto la macchina sotto richiesta delle figlia e in mezzo un po’ di personaggi con le proprie inutili e borghesi storie, ma la vicenda sembra inesistente, il climax non arriva mai... o meglio il climax nel film è la lunghissima e fin troppo realistica scena di sesso che nel libro mi sembrava avere una importanza decisamente minore.
Insomma il film non rende la complessità del libro e resta solo l’autocelebrazione di chi ha letto il romanzo e simpatizza per il cast (Orlando, Carnelutti, Rorhwacher, una Ferrari di tutto rispetto, un Gassman veramente bellissimo)

mercoledì 22 ottobre 2008

casetta

Non mi hanno ancora dato un posto mio e così non ho potuto riportare da casa lo zaino che trabocca delle inutili cose che fanno “casetta” sul mio posto di lavoro da anni.
Nell’attesa mi appoggio sulla scrivania di una donna e respiro da clandestina la sua atmosfera di “casetta” e mi accorgo che mi fa piuttosto schifo.
Sotto il video, la foto di una bimba sconosciuta mi rivolge uno sguardo continuo che mi inquieta; per giunta la foto, troppo grande, è parzialmente coperta dal disegno di una testa di cavallo tenuto con una molletta da bucato. La cornice del video tutto intorno è macchiata di cartacce: vecchi disegnini della bimba, incerti e presuntuosi, ingialliti e ripiegati; post-it minuscoli che forse risalgono a decenni perché non riescono più a stare incollati da sé e sono stati attaccati con pezzettini di nastro adesivo, intanto la striscia di colla del post-it si è tutta ripiegata e ha assorbito polvere nera: eppure ci vorrebbe così poco per ricopiare i numeretti scritti a matita su un post-it nuovo brillante!
La tastiera traballa perché poggia in malo modo su una specie di agenda da tavolo a foglioni slabbrati, sulla quale perde di continuo l’equilibrio una immaginetta della madonna malritagliata da un cartoncino.
Sul ripiano laterale fanno mostra di sé: tre piccoli calendari da tavolo di argomento religioso, una scatola vuota di gomme da masticare, un tubetto di crema per le mani, una tazza da the sporca (!), un rotolo di carta igienica, scontrini vari sparsi ovunque, anche attorcigliati sul filo del mouse, dal piano superiore della cassettiera, infilata sotto il tavolo laterale, sporgono diversi numeri di una rivista pubblicitaria di mobili a buon mercato.
Dietro la mia testa, in ottima vista, due lunghe stampate che già conosco: uno è l’elenco dei revival anni 70 e 80 (noi che abbiamo visto in televisione questo e quello e poi mangiavamo come merenda questo e quello e poi non avevamo il computer e giocavamo a questo e quello...): ma che palle, io non sono i prodotti di consumo della mia infanzia, io sono altro e più dei programmi della tv dei ragazzi; poi c’è la solita spataffiata sulla maternità: per le mamme che questo e per le mamme che quello e vai di lacrima facile.
Così sono in dubbio se ripristinare il mio arredo da scrivania il giorno che finalmente ne avrò una mia. O almeno cercherò di fare una analisi seria di quello che finirà per rappresentar

lunedì 20 ottobre 2008

cambiare

Oggi è stato il mio primo giorno in una direzione centrale nuova, in una attività che non ho mai fatto, con persone sconosciute.
Il palazzo è antico, austero e prestigioso. Bene, se uno deve lavorare in banca almeno che sia una bella sede.
La posizione topografica splendida, il richiamo toponomastico patriottico.
A metà pomeriggio ho avuto una crisi di noia e solitudine e un improvviso senso di perdita: ma che cosa credevo di trovare, in fondo è l’ennesima prigione!
Non so perché, tra l’altro, in questa stanza dove mi hanno momentaneamente parcheggiata faccia così freddo.
Le quattro persone presenti nella stanza parlano poco anche fra loro.
Mi hanno dato qualcosa da fare. Ci ho messo mezzora.
Il resto della giornata è stato eterno.
Avevo degli amici, avevo delle cose da fare che conoscevo bene.
Tutto da rifare.
Così stanca, così vecchia. Non ne valeva la pena.
Eppure questo posto è il risultato di una mia vittoria personale.
Forse fra poche settimane andrà tutto benissimo, mi ripeto incazzandomi con la mia debolezza.
Ogni tanto penso ai colleghi che ho lasciato venerdì, li penso come una massa indistinta. Terribile! Se proprio decido di focalizzarmi con più precisione su uno di loro mi vengono in mente gli ultimi due, quelli che sono arrivati in ufficio solo da pochi mesi. Sulle persone che conosco da venti anni è all’improvviso calata una lontana indifferenza.
Non vedo l’ora di tornare a casa.

venerdì 17 ottobre 2008

cambio lavoro

che sarà

mercoledì 15 ottobre 2008

armadio

Succede che ho vinto una piccola battaglia.
Dopo 4 anni, forse, di arrabbiatura me ne vado in un altro ufficio, in un’altra direzione, scelta da me, dove io ho chiesto di andare, dove ho fatto un colloquio con due persone che mi hanno scelta e messa in cima alla lista dei possibili candidati.
Ho dovuto vincere le resistenze dei piccoletti che mi tenevano legata qui, fino ad alzare la voce.
Ho vinto.
Meno tre giorni.
Tre giorni assurdi.
Bisognerebbe andarsene su due piedi quando si è costretti ad alzare la voce.
Passo il tempo a passare consegne, a sentirmi in colpa con i colleghi che restano, a ripulire l’ufficio perché le cose personali non te le traslocano e quindi devo farmi il mio borsone. Da questo armadio alle mie spalle salta fuori un universo: spartiti, matematica, fisica, dizionario dei sinonimi, manuali di scrittura creativa, dizionario di inglese, manualetti di francese e di tedesco, racconti e raccontini scritti in ore di noia e follia, disegni dei bambini che non sono più bambini, ritagli di frasi lette in giro e stampate e attaccate sul computer o sull’anta dell’armadio, foto, cd, riviste, pacchi di ricevute di bollettini postali, blister di pastiglie di ferro iniziate e mai finite, foto di un collega morto, aspirina, coltello, spazzola, manuali di finanza, romanzi, umidificatore, asciugacapelli da viaggio...

martedì 30 settembre 2008

politically correct

Non mi sono spiegato, dice spesso il mio capo. Lo dice con un tono di voce inequivocabile.
Qualcuno gli ha detto che per educazione non si dice “non hai capito”.
Ma il disprezzo che trasuda dalla postura, il fatto che lo dica interrompendo l’altro, l’arroganza dell’insieme rendono la scelta dei vocaboli una ridicola ipocrisia.
Eppure la spiegazione non è quasi mai che lui non si è spiegato o che l’altro non ha capito: la spiegazione è quasi sempre che lui sta dicendo delle scemenze e qualcuno sopra di lui gli ha dato licenza di dirlo...
Così ci tocca subire i suoi “non mi sono spiegato”, lasciandogli pure l’autocompiacimento di essere una persona beneducata.

venerdì 26 settembre 2008

videoconferenza

Mi sto guardando nello schermo di una videoconferenza.
La videoconferenza è una invenzione moderna e serve a fare le riunioni a distanza.
Nella saletta ci sono due grossi schermi: in quello di sinistra vediamo noi stessi, quello di destra è diviso in 4 riquadri, uno per ognuna delle sale collegate.
La consulente autoconvinta che ha organizzato la riunione ha chiesto un giro di presentazioni che sono state veloci e confuse.
Non solo io non ricordo nemmeno un nome, ma non riesco neanche a collegare le immagini alle città da cui arrivano. Le persone negli schermi sono piccole e scarsamente definite. Distinguo gli uomini dalle donne solo per una maggiore fantasia nell’abbigliamento femminile. Le bocche non si vedono e si intuisce chi parla dalla postura della schiena che si allunga verso il tavolo.
Passo il tempo a guardare me stessa nello schermo di sinistra dove l’immagine è più grande e mi è molto vicina.
Così noto che sono diversa dagli altri. Loro sono capaci di stare immobili e diritti e guardare fisso e non fare rumore.
Invece mi vedo oscillare il busto di continuo e muovere le mani verso il viso, sbattere le palpebre, grattare la punta del naso, sostenere la guancia con il palmo, strofinare l’arcata del padiglione auricolare, picchiettare il mento, carezzare con il bordo dell’unghia l’arcata sopraccigliare.
Non mi piaccio, sembro nervosa, scontenta, sul punto di fuggire, annoiata.
Tremendamente annoiata.
Tremendamente annoiata.

giovedì 25 settembre 2008

lucchetti di famiglia

Legando la bici rossa al palo davanti all’ufficio le dita sono inciampate come sempre sulla catena inguainata bloccata intorno al manubrio da quando la bici era usata da mia figlia.

Sono già due o tre le catene legate e dimenticate sulle bici di casa, per le quali si è persa la chiave.
Credo però che le chiavi non siano andate veramente perdute, di sicuro riposano nei cassettini dell’ingresso, oppure fra carte, biglietti e rimasugli di giochi elettronici negli scaffali dei ragazzi, o nelle scatole da scarpe svuotatasche impilate su ogni piano orizzontale del piccolo studio/deposito/stanzette di servizio cioè la pseudosoffitta di casa nostra.
Magari quella chiave è stata a suo tempo conservata con cura, dopo un meditato esame di angoli e ripiani e scatoline, alla ricerca del luogo più adatto, in un gesto che esprimesse insieme affetto e possesso per le cose di casa.

Nessuno ha voglia di cercare,catalogare, accoppiare le chiavi alle catene e consentire la liberazione delle bici dai lacci di ferro e gomma che sbatacchiandoci sopra ne arrugginiscono la struttura.
E lasciamo che si stratifichino oggetti, vecchi gesti, ricordi, simboli, come se cominciassimo davvero a condividere una storia lunga ormai qualche lustro, una storia che comincia a valere la pena di ricordi e racconti e di una casa mezzo museo.

mercoledì 24 settembre 2008

Morte di un diciottenne perplesso

di Marco Bosonetto: una boccata di aria fresca!

lunedì 15 settembre 2008

L' atlante delle nuvole

David Mitchell presumo sia una specie di pazzo.
O invece un grandissimo genio.
L’atlante delle nuvole ha una struttura bizzarra nella quale fai fatica a districarti: ha incastonato una storia dentro l’altra, lasciandole in sospeso e riprendendole in ordine inverso e seminando qua e là riferimenti fra una storia e l’altra.
Ma non è così semplice. Intanto le storie sono diversissime per ambientazione e stile: il romanzo epistolare, la spy story, l’interrogatorio, il flusso di coscienza.
Poi ogni storia si dipana in se stessa in maniera profondissima, si ha la sensazione di precipitare in un pozzo che va allargandosi di significati e rimandi sociologici, politici, filosofici, antropologici, scientifici...
Sono storie che si svolgono a dimensioni lontanissime nel tempo e nello spazio, eppure ne trai una visione di insieme. Ecco, più che una struttura a matrioska, l’idea forte è invece quella degli universi paralleli, o del tempo come concetto relativo, di fronte, invece alla simultaneità di tutta la storia, in un unico puntino.
Estenuante e affascinante.

venerdì 5 settembre 2008

tutto quello che fa male ti fa bene

Brillante, a tratti divertente.
Un saggio che si legge volentieri: contenuti interessanti e prosa fluida.
Tante idee intelligenti, tanti spunti sui quali aprire una discussione (per esempio difendere la qualità e gli stimoli all’intelligenza che può fornire la TV grazie alla complessità dei telefilm americani quali 24 o E.R.: eh grazie tanto, hai preso il meglio...)

Ci sono cose con le quali è impossibile non trovarsi d’accordo. E cmq una speciale menzione al coraggio di esprimere lucidamente idee contro la facile corrente.

giovedì 4 settembre 2008

Tutto per una ragazza

Un bel giorno, a proposito di Hornby, potresti decidere che quell’aria scanzonata ti comincia a stare profondamente sulle scatole; all'inizio ti può sembrare l’amicone della compagnia che ha sempre la battuta pronta, che riesce a sdrammatizzare ogni situazione, che è insostituibile e necessario per ravvivare la serata, ma il giorno che ti succede qualcosa di brutto comincia un po’ a stufarti, fino a quando quell’ironia onnipresente non ti diventa insopportabile.
Insomma uno potrebbe anche chiedersi che cosa cavolo ci trovi Hornby di così leggiadro e divertente nelle difficoltà delle ragazze madri, nelle famiglie sfasciate, nei depressi che vogliono suicidarsi, nelle 40enni in crisi di identità; ti potresti chiedere come fa a rendere buffa commedia il disagio sociale.
Ecco. Proprio questa è la risposta, forse. Come fa a rendere commedia il disagio sociale? Semplicemente, forse, con la sua intelligenza.
Così pensavo, mentre leggevo d’un fiato le disgraziate vicende di un sedicenne un po’ svampito che si ritrova padre senza neanche sapere come, che sarebbe fantastico avere Hornby come biografo.
Diamine, sarebbe utilissimo mettergli in mano la propria sgangheratezza esistenziale e vedere che cosa potrebbe tirarne fuori. Come riuscirebbe a farmi ridere, commuovere e compatire me stessa. E, naturalmente, aiutarmi a vivere.

lunedì 1 settembre 2008

La fabbrica delle donne di goffredo buccini

Sono stupita del fatto che questo romanzo abbia avuto meno risonanza di altri polpettoni che girano.
Secondo me è scritto molto bene ed è una storia forte e importante.
Sembra quasi una favola e diventa una tragedia a tinte fosche.
Sembra quasi la solita rappresentazione folcloristica e paesana e diventa invece una storia di mancata integrazione e dialoghi fra mondi.
Ci sono passaggi di grande poesia.
Ci sono personaggi ben delineati.
Ci sono considerazioni che sembrano battute lievi e invece lasciano un sapore amaro e profondo.

forse sono ennis

Ho visto Brokeback Mountain.
Tutta una vita a desiderarne un’altra.
E’ questa la storia.
E ha ragione quella recensione che dice che è una storia shakespeariana.
E’ il racconto magnifico di un pezzo di ciascuno di noi.

venerdì 29 agosto 2008

Un cerino nel buio

E’ una delle letture più interessanti degli ultimi mesi.
Argomento aulico; tono da chiacchierata fra amici, riferimenti culturali che spaziano dall’alto al basso senza discontinuità, con eleganza; alcune verità illuminanti racchiuse in singole frasi disseminate qua e là come se niente fosse.
Non è chiaro se Brevini ha letto Baricco o se Baricco ha letto Brevini o se si sono letti in contemporanea influenzandosi a vicenda.
L’argomento è lo stesso; la diversità dello stile e dell’approccio rendono le due letture complementari.
Insomma Un cerino nel buio. Come la cultura sopravvive a barbari e antibarbariè un saggio che si scorre d’un fiato; e la spocchia da intellettuale che affiora qua e là suscita soprattutto simpatia.

lunedì 25 agosto 2008

L' ombra del vento

Vai avanti per la curiosità di sapere come si risolverà l'intreccio... ma veramente veramente sopravvalutato

lunedì 21 luglio 2008

girolamo de michele

La visione del cieco ha, secondo me, tra le altre, tre caratteristiche:
- c’è il solito protagonista che cerca di dipanare un mistero, però per una volta non c’è il suo giganteggiare sulla vicenda “gialla”; Giulioandrea è presente con il suo vissuto ma è un vissuto che si intuisce, si ricorda ed è soprattutto un vissuto di fatti che hanno un rilievo storico sociale importante; non ci sono tic e gusti culinari, particolari erotici e ricordi di infanzia... non ci sono insomma i fattacci propri dell’ispettore/avvocato/giudice/commissario/professoressa;
- c’è una prosa ricercatissima nella stesura (si intuisce dietro un lavoro enorme) eppure di lettura agevole; a volte, in altri libri mi è capitato di avvertire la sensazione contraria ossia una prosa ostica alla lettura, risultato di una ricercatezza fine a se stessa e probabilmente non così difficile da mettere giù in quanto frutto di un “parlarsi addosso” scambiato per alta cultura;
- c’è un mondo; è un mondo che non mi appartiene; non conosco i vizi privati di una provincia opulenta e senza anima; conosco il vivere faticoso e sfidante della grande metropoli; però mi interessa leggere la cronaca del mio tempo e certi riferimenti precisi che a pelle potrebbero sembrare fastidiosi e svilenti, servono magari proprio a rendere più netto il contorno e acquisteranno valore con il passare del tempo.
Tre caratteristiche che colgo io, sono anche tre pregi?

lunedì 14 luglio 2008

maria full of grace

C’è questo film colombiano. C’è questa bellissima ragazza. Bellissima.
C’è questo quadro di miseria collettiva. C’è un ragazzo che non sa o non vuole salire sul tetto. C’è un bambino che deve nascere. C’è Maria, archetipo della donna incinta alla ricerca della stalla e il figlio non è figlio di nessuno o forse è figlio dell’intera umanità e a Maria spetta il compito di farlo nascere.
C’è questa storia delle donne che ingoiano le capsule di cocaina e rischiano morte e galera, andata e ritorno da New York.
C’è il mito dell’emigrazione.
C’è che il film finisce bene e allora qualcuno dice che è un documentario didascalico.
Ma io non sono sicura che finisca bene. Finisce con una sfida aperta perché avere un bambino da far nascere crea una forza e questa forza risulta incomprensibile a te stessa in qualunque altro momento della vita.

mal di pietre

mal di pietre è brevissimo; con tutto il materiale che c’è dentro si poteva fare una soap opera di 5 stagioni. Non capisco se è un merito o un demerito, cioè se lodare l’autrice per la capacità di sintesi (chissà come martella i suoi studenti su ‘sta cosa) o rammaricarmi per lo spreco.
Mal di pietre è molto accattivante per un target ben preciso, cui appartengo: donne, sposate, madri, oltre la quarantina: insomma gronda autobiografismo femminile di quello buono, di quello che ci trovi l’amore per la propria terra, qualche espressione dialettale qua e là, ricordi di infanzia, maternità, desiderio di amore profondo, sensualità negata, istruzione negata, senso della famiglia, testimone che passa da nonna a nipote.
Qualcosa s’era già visto, per esempio c’è molta Tamaro in questo libro.

giovedì 19 giugno 2008

una storia romantica di antonio scurati

Scurati dice in una sua intervista: “Ho cercato di scrivere un romanzo comunicativo, sì, ma senza rinunciare alla letteratura, ad ambizioni più alte, a scuotere il lettore, cambiarlo, renderlo partecipe di un’esperienza, fargli conoscere qualcosa di nuovo.”

Per quanto mi riguarda c’è riuscito.

Le 500 e più pagine di Una storia romantica si leggono, tutte, e con attenzione immutata, alternando momenti di puro interesse conoscitivo al gioco della toponomastica milanese, confondendo reminiscenze scolastiche e pedanterie bassoromantiche, riconoscendo nomi e citazioni, concetti filosofici e avvenimenti, frasi di canzoni, testi letterari notissimi, parole e immagini scolpite chissà dove e chissà quando in quel database scomposto che è la nostra confusa coscienza di noi stessi come parte attiva di un mondo.
Alla letteratura chiediamo noi lettori di poterci riconoscere in essa e questo può avvenire a un livello bassissimo e determinare il successo di schifezze editoriali; ma può avvenire a un livello altissimo, nel senso che invece di riconoscere l’individuo preso nella sua facile quotidianità riusciamo a riconoscerci come umanità nella sua interezza: è questo che accade leggendo Una storia romantica.

E’ incredibile come, per quanto sia scoperto sin dal titolo l’impianto di valori eroici e melodrammatici che il romanzo va raccontando, sia impossibile sottrarsi all’identificazione commossa, per cui ciascuno di noi è Aspasia e insieme Jacopo e insieme Italo e più questa triade sembra scopertamente stilizzata, caricata di simboli scontati, forzata nei dialoghi e nei gesti, insomma “quadro” e non personaggio credibile, più riusciamo a riconoscerci in essa, a piangere, a sentire che quelle parole pompose e artefatte sono la rappresentazione epica del nostro essere in un contesto collettivo.

Si arriva alle ultime pagine in uno stato di tensione emotiva paradossale: se da un lato sembra quasi di assistere a una sorta di parodia del sentimento romantico costruito con tutti gli stereotipi possibili, dall’altro proprio quel fare appello agli stereotipi diventa la chiave per la partecipazione intensa a quanto va avvenendo sulla pagina, come se l’autore ti stesse convocando alla condivisione dell’immaginario, a una complicità intellettuale per ricostruire insieme quello che è accaduto alla luce di quello che siamo oggi e viceversa.

Avviene il colmo quando la lettura delle pagine di dichiarazione esplicita delle fonti (Tabula gratulatoria) diventa occasione di commozione quanto e più del romanzo stesso: è come se il romanzo avesse continuato a lasciarti pagina dopo pagina un senso di deja vu che in questo capitoletto finale si disvela dicendoti: ti sei riconosciuta in questo e quello, hai sentito una grande confidenza con questa e quella situazione perché è da questa fonte che viene la citazione ed è la stessa fonte da cui vieni tu.
Quando sono arrivata alla citazione di C’era una volta in America ero al delirio...

lunedì 16 giugno 2008

volver

Le donne curano i morti e i vivi, i sani e i malati; sfregano, spazzano, lavano stoviglie e coltelli; acconciano capelli; improvvisano pranzi di festa dal poco; cantano.
Tengono vive amicizie e parentele; si abbracciano e si baciano; tornano al paese ma sono capaci di andare a vivere da sole nella grande città.
Subiscono stupri e abusi, sopportano tradimenti; ma per difendere un figlio diventano capaci di tutto.
Si inventano imprenditrici dal nulla.
Seppelliscono; incidono lapidi; tengono in ordine le tombe; ritornano dal modo dei morti per troppo amore.
Lavano il sangue.
Sono fantastiche le donne di Almodovar.
Però non le invidio.
Sempre meglio nascere uomo.

martedì 27 maggio 2008

la solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano

La cosa che mi frulla nella testa prima di qualunque altra considerazione è che questo romanzo lo ha scritto un fisico teorico di 25 anni.
Ciò mi ispira immediatamente tante suggestioni positive sul connubio tra fisica e letteratura, ma potrebbe anche significare che costui è semplicemente un ragazzo di grande intelligenza e ordine mentale che ha seguito un bel corso di scrittura e si è limitato, con la sua abitudine mentale allo studio e all’applicazione dei principi studiati, a eseguire molto per bene il compito.
Dato che si tratta di un’opera prima molto osannata ho cercato le stroncature e ho trovato soprattutto critiche alla mancata spontaneità: si tratterebbe cioè di un romanzo studiato con intelligenza nella struttura, nei clichè dei personaggi e nello stile.
Il fascino di questo libro è però semplicissimo: parla di bambini e adolescenti attraverso la sofferenza del sentirsi diverso. Ogni volta che qualcuno racconta un dolore adolescenziale in maniera diretta ottiene l’effetto di parlare a un vissuto irrisolto del lettore: è, per l’appunto, matematico.
Ma che male c’è?
Condivido la critica della mancanza di chiaroscuro nei personaggi collaterali (genitori stupidi, bullette stronzette, marito piattissimo); questo vale anche per Mattia e Alice, autocondannati a un universo talmente autoreferenziale da sfociare nel patologico: voglio dire che qualche situazione diventa un po’ irrealistica e paradossale.
Ma insistere sulle imperfezioni non mi piace, preferisco dire che questo libro mi è piaciuto, che ha dato vita, mentre lo leggevo, a un universo che ha abitato le mie ore e i miei pensieri e a personaggi con i quali mi sono confrontata: non è già una specie di miracolo?
E condivido questa frase:
“... è narrata con una partecipazione emotiva che solo chi è ancora vicino all'adolescenza può manifestare, e attingendo a un bacino metaforico che solo chi ha un background scientifico può possedere...” non a caso pronunciata da Odifreddi.
Uno dei pregi di questo romanzo è la freschezza e cioè che si tratta di una storia di formazione scritta da un ragazzo e i suoi personaggi-ragazzi all’ultima pagina sono ancora dei ragazzi.
Alice e Mattia non diventano adulti all’ultima pagina; ché diventare adulti significa avere la forza e l’amarezza di scendere a compromessi anche con le proprie inferiorità e con i propri fantasmi. C’è un momento in cui anche certi drammi adolescenziali diventano un lusso che non ci si può più permettere, anche gli errori dei genitori smettono di essere la scusa buona per sottrarsi alla responsabilità del vivere, anche vendicarsi della bulletta di scuola cattiva diventa inutile e senza soddisfazione.
La solitudine dei numeri primi si ferma prima e sono ben contenta: avrò da leggere Paolo Giordano nei prossimi anni.

lunedì 26 maggio 2008

giorni e nuvole

E come può una donna non apprezzare i film di Soldini che sembrano scritti apposta per celebrare intelligenza e cuore, fatica e leggerezza, fantasia e solidità femminili?
Ed ecco un’altro bel personaggio femminile che senza il minimo dubbio prende sulle spalle il fardello di un disastro economico familiare e passa dalla bambagia di moglie nullafacente con colf e sogni di gloria artistica alla fatica nera del lavoro brutto, del lavoro senza contenuto, solo stanchezza, tempo sottratto e miseria di stipendio a fine mese.
Applausi quindi. E un po’ di retrogusto amaro. Che questa nostra celebrata forza, questa capacità di comprendere fragilità e depressioni maschili, questa nostra flessibilità e capacità di adattamento all’ombra del maschio deprivato del suo ruolo produttivo, questa nostra sensibilità a cogliere l’intero respiro di un grande affresco celato dietro un piccolo particolare comincino ad essere date per scontate?
Basta sconti al mondo, basta.

P.S.: Mamma mia Antonio Albanese! Con quella sua faccia e quel suo fisico così particolari ti aspetteresti una maschera fissa, ti aspetteresti che Cetto Laqualunque e tutti gli altri gli impediscano di fare un ruolo diverso, ti aspetteresti che il personaggio televisivo riproponga se stesso sul grande schermo.
Invece no. E’ veramente veramente veramente bravissimo.

saturno contro

Ci sono delle scene “belle” nel film Saturno Contro; con belle intendo proprio riferirmi all’aspetto estetico, penso cioè alla luce e ai colori, ai movimenti della macchina e alla composizione quasi di danza che i tanti protagonisti fanno sulla scena al ritmo di una colonna sonora molto accattivante; penso ai dialoghi spessi, sempre significativi, una collezione di aforismi; penso alla lussuosa location, al magnifico appartamento e alla bella villa a picco sul mare.
Poi... più niente. Allora cerco qualche recensione in rete... valore dell’amicizia, tema della separazione, dolore per la morte dell’amato... Ma mi sembrano recensioni che si arrampicano sugli specchi in cerca di profondità esistenziali inesistenti. La strana sensazione è che il magnifico regista de Le fate Ignoranti e La Finestra di Fronte non avesse proprio niente da dire e si sia limitato a costruire una sontuosa cornice almodovariana a sue vicende estremamente personali ma anche estremamente normali: banali storie di coppie e corna, stereotipatissimi bambini, cenette a parlar di cazzate, un po’ di sesso molto molto glamour (con una Isabella Ferrari dea della bellezza e dell’eros sofisticato e un Luca del GF in mutanda immacolata stile pubblicità D&G)..
Almodovar nei colori, Almodovar nel gioco corale degli attori, Almodovar nello sguardo sensuale della telecamera sul corpo maschile.
E poi un po’ di angustia, perché, diciamolo, dai tempi de Il Grande Freddo in avanti, di nove benestanti che mangiano, si parlano addosso e giocano a ping pong chissenefrega?
La ricchezza del cast credo sia stata un po’ la carta vincente di questo film, solo che anche in questo caso, non riesco a condividere l’entusiasmo. A parte la mostruosamente brava Vukotic e la non abbastanza lodata Savino, più brava dei ruoli un po’ macchietta in cui è spesso confinata, tutti gli altri mi sembrano leggermente fuori ruolo. Troppo politically correct, senza uno spazio autonomo, senza chiaroscuri, figurine leggere di un girotondo di carta; anche la Angiolini, che pare abbia stupito tutti, in realtà non riesce a liberarsi da quell’aria da “donna del capo”, da “che ci posso fare se sono stata scelta io” che la perseguita e quindi non può apparire credibile in un ruolo che poteva avere molta più drammaticità.
Accorsi e Buy sono finiti per caso in questo film, continuando a interpretare quelli de Le Fate Ignoranti.
Favino e Argentero nel ruolo della coppia omosessuale sprizzano imbarazzo da tutti i pori.
E Timi, Timi, attore d’altra levatura e autore di un bel romanzo, che diavolo ci faceva là in mezzo? Bisognava toccare tutti i temi “alternativi” e allora un accenno alla coppia interrazziale? Mah.

giovedì 22 maggio 2008

cuscinetti e tutù

Credevo semplicemente di aver accompagnato mia figlia alle prove generali di un piccolo saggio di hip hop; invece mi sono trovata immersa in una scena bizzarra, bunueliana .
Immagino esista tutta una categoria di bambine condotte alle lezioni di danza classica; immagino che a un certo punto queste bambine comincino a crescere e che smettano, per forza di cose, insomma di fisichetti alla carlafracci quanti ne resteranno?
Bene, ho scoperto che c’è qualcuna che non smette. Ho scoperto che ci sono gruppi di diciottenni che versano la loro retta a scuole di danza nascoste nei cortili e continuano a sollevarsi sulle punte anche quando il baricentro è stravolto dalle rotondità.
Così ho trascorso un piccola ora, in un teatro vero, piccolo, ma con tutte le sue cose al posto giusto, con il legno del palcoscenico e i tendaggi pesantissimi e scuri e queste ciccie, questi sederoni, questi seni, questi coscioni si mettevano sulle punte, si muovevano con una grazia impensabile, anche se l’effetto finale non era da serata alla Scala.
Non è meraviglioso mi sono detta? Che le persone facciano cose che nessuno si aspetterebbe da loro? Che ci siano teatrini polverosi dove ragazzone cellulitiche ballano il bolero in tutù a dispetto delle immonde riviste che ci intasano il cervello?
Sì, penso proprio che ci sia del bello nascosto in oscuri angoletti.

martedì 13 maggio 2008

tuttalpiù muoio

molto carino
ma con una sensazione molto morbida di dejà vu

è che una volta letto Seminario sulla gioventù di Aldo Busi
è difficile dimenticarselo

lunedì 12 maggio 2008

stupore e tremori di amelie nothomb

Libro giusto al momento giusto.
Essere in caduta libera in questo sconcertante panorama bancario e trovare le pagine giuste per sghignazzare su se stessi.

giovedì 24 aprile 2008

quando il burka soffoca troppo

Richard Dawkins, L'illusione di Dio,
pagine da 355 a 368, ovvero il capitolo finale, ovvero il capitolo che si chiama Un burka smisurato

segnarselo, ricordarselo, impararselo a memoria

farsi aiutare a vivere da questo capitolo

ricordarsi che Douglas Adams era amico di Dawkins

cici

Andrea è entrato riempendo il vano della porta, inghiottendo in un passo l’aria dell’ufficio piccolissimo, senza saper dove mettere le mani troppo grosse, tirando su i calzoni di un brevissimo tratto, quanto basta a farli immediatamente ricadere sotto la curva della pancia. Non mi ricordo se stavo leggendo su internet qualche bieca novità politica, o semplicemente cancellando nervosamente lo spamming dalle mie inutili tre/quattro caselle di posta elettronica. Si è lasciato cadere sulla sedia di fronte e ha detto: - non ne posso più -.
Sorrido e mi pervade una insana soddisfazione a sentire il prevedibile seguito: - non potremmo andarcene in un ufficio insieme io e te? -
- Chi ha litigato con chi questa volta? - gli chiedo.
Scuote la testa arrendendosi all’incapacità di definire in maniera precisa i contorni delle mutevoli diplomazie bellicose che si intrecciano nella sua stanza, una porta più in là, dove Andrea convive quotidianamente con cinque post quarantenni e una trentenne in naftalina.
Poi fa il gesto tipico delle quattro dita della mano che si aprono e si richiudono contro il pollice a simulare un cicaleccio: - è tutto un cici, cici, cici – e io annuisco perché lo so che è sempre questa contro quella e poi viceversa e poi quest’altra contro la tale e un incrocio di sguardi malevoli e frasette bisbigliate che avvelenano i giorni. E quel cici, cici, cici con la manina è l’immagine più immediata e calzante.
Mi vergogno dei pensieri che si articolano ordinati; il numero uno è “donne, porcamiseria, come si fa a negare questa evidenza dolorosa, che 5/6 donne insieme in una stanza non fanno una squadra e neanche un consolante gineceo, bensì un covo di vipere in reciproco sospetto e in perenne stato di lamentela pigolosa e urticante?”; il numero due è “ah, ah, ah, il povero ometto di turno viene da me perché mi vede diversa quindi io sono migliore di quel pollaio, sono un po’ mascolina o sono solo una persona meno stupida?”; poi si accavalla il pensiero numero tre: “quanto sono perfida, dovrei mettere alla porta Andrea e solidarizzare con le altre donne perché è così, dividendoci, mettendoci in competizione e facendoci sentire a turno migliori delle altre, che ci ingannano e ci schiacciano”; il pensiero numero quattro è: “siamo matti? le odio anche io, sono insopportabili galline, la verità va affrontata per quello che è”; e il pensiero numero cinque è: “cici, cici, cici.....”

giovedì 17 aprile 2008

elezioni politiche 2008

“La storia di tutte le maggiori civiltà galattiche tende ad attraversare tre fasi distinte e ben riconoscibili, ovvero le fasi della Sopravvivenza, della Riflessione e della Decadenza, altrimenti dette fasi del Come, del Perché e del Dove.
La prima fase per esempio è caratterizzata dalla domanda Come facciamo a procurarci da mangiare? La seconda dalla domanda Perché mangiamo? E la terza dalla domanda In quale ristorante pranziamo oggi?”

da Douglas Adams, Ristorante al termine dell’universo

lunedì 14 aprile 2008

michael clayton

Michael Clayton ha una trama già vista: un po’ Erin Brockovich, un po’ Il socio. Lo senti, nonostante lo sforzo del regista che mescola ad arte la sequenza temporale, presentando nei primi minuti del film gli avvenimenti finali e obbligandoti quindi a una certa concentrazione per mettere a posto i tasselli; alla fine i fatti sono ancora più lineari di quello che una spettatrice media può attendersi: insomma io avrei detto che era il suo stesso capo a volersi liberare di Clayton e invece il mandante era quello più scontato, e poi il colloquio finale fra Clooney e Swinton puzzava di trappola lontano un miglio.
Ma forse, a parte l’innegabile principio etico e civile, la trama contava di meno e doveva esserci in primo piano l’ambiguità del personaggio principale, la posizione borderline dell’avvocato “spazzino”, il bisogno di soldi a tacitare la coscienza.
Clooney giganteggia e, mi sembra, non sorride mai per tutto il film.

mercoledì 26 marzo 2008

l'eleganza del riccio e pretty woman

Riusciremo mai noi donne a liberarci dalla maledizione di Cenerentola?
L’unica vera storia che continuiamo a raccontarci, modificando il contesto e sostituendo le scarpette di vetro via via con qualcosa di più attuale.
L’unica vera storia che smuove le masse femminili, che si chiami Pretty Woman o che assuma le sembianze di una favola filosofica come L’eleganza del riccio.
Il gioco delle sostituzioni è facilissimo: Cenerentola ha la duplice forma di una portinaia intellettuale in incognito e/o di una ragazzina superintelligente quanto disperata in un condominio molto lussuoso di Parigi; le sorellastre sono le signore snob e socialiste per posa che abitano gli appartamenti; c’è una fata madrina (l’amica che fornisce vestiti e dolci per l’appuntamento con il principe); c’è una bella schiera di animaletti amici (il barbone, i gatti che popolano il condominio, il ragazzo ex-tossico, la ragazza aspirante veterinario); c’è il principe azzurro che ha la forma di un ricco signore giapponese con tutto il suo seducente armamentario di cultura orientale.
Per quel che riguarda le scarpette di vetro, restiamo incantate: dosi massicce di filosofia, storia dell’arte, romanzi di Tolstoj, musica classica, meditazioni sulle ipocrisie occidentalborghesi e litri e litri di tè agli aromi più diversi. Questa è l’arma vincente: la post quarantenne con aspirazioni intellettuali trova un personaggio nel quale identificarsi totalmente, questo c’era nell'entusiasmo della mia collega che mi ha consigliato il libro quasi con le lacrime agli occhi.
Bella mossa scartare il lieto fine; malinconica, arrogante ma perfetta la frase finale.

martedì 25 marzo 2008

odifreddi e i cristiani

L’idea di leggersi Perché non possiamo essere cristiani a cavallo dei tre giorni delle vacanze pasquali è solo un caso; oppure è voluta.
La visione della benedizione urbi et orbi tramessa da raiuno, con tutta quella pioggia, tanta da sembrare debordare dal televisore, alla luce delle cose lette rannicchiata nel letto che mi ospitava, o sul divano mentre altri (una volta tanto) si preoccupavano di che cosa mettere in tavola, quelle immagini, dicevo, di medioevale cupezza apparivano stranianti, inquietanti.
Il punto è che il libro Perché non possiamo essere cristiani è di una incontestabile lucidità.
E’ abbastanza dispettoso il tono, non c’è dubbio. Come meravigliarsi se qualcuno può sentirsi offeso?
Però... mi sembra che Odifreddi non si ponga neanche il problema di dire Dio esiste o no, o forse lo dice, ma chi se ne frega, lui è ateo, OK. Comunque non mi pare che su questo si soffermi più di tanto. Mi sembra che la domanda che rimbomba da una pagina all'altra sia invece: è normale che io accetti che la mia religione (qualunque essa sia) mi chieda di sospendere la ragione e accettare per fede questioni che appaiono assurde se guardate con l’occhio dell’ateo?
Allora questa lettura diventa una sfida affascinante invece che un insulto.
Punto 1: provare il desiderio forte di avere di fronte l’autore per continuare a discutere; punto 2): provare quel piacere della lettura, quello che non si prova spesso, quello che ti fa sentire la presenza dell’autore schietta, senza mediazioni di stile e tecnicismi, semplicemente una intelligenza che si pone al servizio di una discussione.
Mi bastano solo questi due primi punti perché la lettura di questo libro sia una esperienza importante.
Poi ce ne sono un sacco di altri, di punti...

E mi piace come finisce, moltissimo.
Dio se c'è è uno.
La religione dovrebbe essere una per definizione. Per definizione! Come se ne esce dal parodosso che sono invece tante e tutte dicono di essere la sola vera? Forse abbassandole al rango di complesso di riti in ossequio al contesto sociale? Bisognerebbe occuparsene di questo paradosso.

La scienza è una. Una sola. Se Dio esiste, dico così sottovoce Odifreddi, non si offenda, se Dio per caso esiste, non è che la ricerca scientifica e la ricerca teologica sono più vicine di quanto le religioni costituite vogliono farci credere?

A me l'idea della matematica linguaggio con il quale Dio ha scritto l'universo piace da morire.

lunedì 10 marzo 2008

.. a proposito di essere donna

Il giovanotto, faccia pulita e occhialino alla moda, è seduto sulla panca di fronte; si sente a posto con la coscienza e per questo chiede al signore canuto che è appena salito se vuole sedersi: lo dice sorridendo, sentendosi buono.
E guardo il signore canuto che non è tanto alto, i capelli bianchi sono un po’ lunghi, i jeans dimessi, la giacca a vento fuori moda... ma a me sembra giovane; voglio dire che non avrà nemmeno 60 anni.
Mi chiedo che cosa starà pensando, un signore magro, diritto, scattante, vestito da pensionato solo perché magari l’avranno pre-pensionato; che cosa starà pensando se i boyscout di 30 anni vestiti da yuppies gli cedono il posto a sedere: O meglio, non gli cedono il posto, ma stando ben bene seduti gli chiedono ad alta voce se si vuole sedere; non è la stessa cosa.
Mi dico che per una volta ho intravisto un microscopico vantaggio ad essere donna: quando lo offriranno a me quel posto (quanto poco manca?) non mi offenderò, mi siederò volentieri.

lunedì 3 marzo 2008

La febbre

Perchè la visione de La febbre di Alatri mi ha infastidito? Che sia invidia e acido rimpianto quello che sto chiamando fastidio? Dato che sono qui a fare l’impiegato e non mi sono presa il lusso di spingere in una buca del cimitero i capetti che mi rovinano la vita e si fanno beffe dei miei sogni?
Vediamo... il messaggio che sembra voler passare per il tramite di questo film è: ci sono dei trentenni puri che il mondo marcio vuole corrompere con il posto fisso, ci sono dei trentenni creativi che il mondo mediocre vuole ingrigire per renderli uguali a sé. Allora il trentenne eroico, puro e creativo, si salva licenziandosi e andando a vivere in campagna con i cani randagi, ove sarà raggiunto da strafiga innamoratissima secondo la nota formula pieraccionesca per cui più sei imbranato, perdente e inconcludente più la prima strafiga di passaggio si innamorerà di te, devi solo accettare il fatto che prima era un po’ zoccoletta ma era il suo modo di essere creativa.
Il capolavoro dei luoghi comuni con, per di più, Fabio Volo nella parte di se stesso.

venerdì 29 febbraio 2008

ridono

Bisognerebbe raccontare di ciò che si conosce.
Io conosco solo le tegole di amianto dietro la piccola finestra dell’ufficio di via Sile; così di questo potrei raccontare. E del davanzale di marmo grossolano. Poi anche ci sarebbe da raccontare del pavimento che intravedo fuori della porta blu, attraverso la fessura d’aria che la mia collega di stanza mi concede: un compromesso, credo che lei creda, fra il suo bisogno di nido chiuso caldo e oscuro, in cui trasforma questa piccola stanza al mattino e il mio sconsolato desiderio di luce e spazio, insignificante rappresentazione di altri tempi e altri posti.
Il pavimento, dicevo, è fatto di quadratoni di linoleum avana chiaro, che ricoprono misteriosi fasci di cavi, e il fatto che di quadratoni si tratti, invece che di un unica copertura, consente altrettanto misteriosi interventi localizzati e decimetrici su questo orgoglioso procedere di informazioni e energie sotterranee, che alimentano il nostro fare quotidiano.

Inoltre conosco i passi.
Quello saltellante del piccoletto che cerca così una elevazione di qualche centimetro al suo testone. Quello strascicato del depresso, che non ce la fa a tirar più su di tanto le gambe. Quello della truccatissima a tacchetti e una profumazione dolciastra che ristagna minuti dopo il suo passaggio. Quella del gradasso, pesante. Quello della stronza a passetti ravvicinati...

Da qualche giorno ad ogni usuale rumore si è aggiunto un clac sordo che si produce proprio qui dietro l’uscio mio, un segnale di irregolarità fra i quadratoni, un dislivello impercettibile allo sguardo ma pericolosissimo.

Prima il tipastro grigio del fondo del corridoio ha incollato un pezzo di scotch marrone da pacchi fra le commessure.
Poi la tettona in minigonna ha preso un bustone marroncino con l’intestazione ufficiale nell’angolo in alto a sinistra, l’ha rovesciato e l’ha messo in equilibrio su un pezzo di cartone più pesante.
Infine il lungo, quello tifoso dell’Inter, con un grosso pennarello nero ha scritto ATTENZIONE PERICOLO.

Allora il ritmo dei rumori è cambiato; i passi rallentano, il tempo di capire da lontano che cosa sia lo strano oggetto al centro del corridoio, qualche commento.
Io non ho trovato pennarelli, ho preso un evidenziatore azzurro e ho tracciato il teschio, quello solito, quello con le due ossa lunghe incrociate dietro la nuca e per smania di perfezionismo ho disegnato anche i denti, ma non mi sono venuti bene e così le mie facce da teschio, una davanti e una dietro, sembrano sorridere.

Adesso dietro la mia porta il clima è cambiato: tutti passano più piano, si scambiano commenti, si chiedono chi è stato a disegnare. E ridono.
Ridono!

mercoledì 27 febbraio 2008

il cacciatore...

... di teste di Costa Gravas

Così è successo che ci siamo rivoltati l’uno contro l’altro invece che verso chi aveva provocato tutto questo.
Il premio era una pubblicità ammiccante sul fianco di un autobus puzzolente.
Un giardino verde intenso e un figlio che ruba.
E un televisore soprattutto.
Per difendere questo e altre inutilità nefande abbiamo lasciato che ci comprassero il tempo e l’anima, fino a che senza quelle ore e quello stipendio, l’anima ha cessato di esistere.

venerdì 8 febbraio 2008

Che fine ha fatto Mr. Y

La Conoscenza con la c maiuscola, le frontiere della fisica teorica, una spruzzata minima di esoterismo, filosofia ben spiegata, una donna giovane intellettuale emancipata, spiritualità, funzionamento della mente, prosa sobria, avventura, trama imprevedibile ad ogni voltare di pagina... il divertimento perfetto!

mercoledì 6 febbraio 2008

newton... ovvero costernata sorpresa

Insomma, dopo dieci anni di avventure nel mondo della
scienza, è arrivato il momento dei saluti. Questo è l’ultimo
appuntamento che avete con Newton. Con un un giornale
che nei suoi 124 numeri ha cercato di farvi esplorare nuovi territori della
conoscenza, e di vedere con occhi diversi ciò che accade intorno a noi e
un po’ forse anche dentro di noi.


... ma perché?

giovedì 17 gennaio 2008

La strada

Parlare meno che benissimo di Cormac McCarthy mi fa un po’ impressione. E’ veramente un genio, ma questo era evidente in tutti gli altri suoi romanzi.
Però...
Una volta assuefatti allo stile essenziale e potente proprio perché scarno, al male, all’orrore assurto a livello di mito, questo La strada che cosa è? La vicenda è inesistente, il cammino sempre uguale. Metafora della vita? Piuttosto banale però.
Quel che resterebbe dopo una catastrofe nucleare? Hanno già provato a descriverlo in moltissimi, anche con un pochino più di inventiva.
Ho letto in giro sui giornali un po’ di autorevoli recensioni: il mito di Prometeo, l’idea di affidare a un bambino la tenue, inutile speranza... e quindi? Simboli fritti e rifritti.
Anche il neonato sul fuoco, o qualcosa del genere, mi sembra se lo fosse già giocato in qualche altro romanzo.
Mi chiedo se McCarthy non si sia solo tolto lo sfizio di andarsi a riprendere un po’ di archetipi raccontandoceli con la sua prosa perfetta, davanti alla quale mi inchino.
Eppure... dopo personaggi aspri e selvaggi, scorribande e cavalcate, omicidi e efferatezze, questa volta la situazione narrata si è insinuata nel mio inconscio; forse il trucco del romanzo è proprio un lavoro di sottrazione totale; resta la sopravvivenza nuda, quella dell'animale che cerca da mangiare e protegge la prole; insomma ho riconosciuto un mio sogno ricorrente di qualche anno fa, quando il sonno era leggero, pronto a riconoscere vagiti e richiami e le immagini si confondevano fra pericoli di ogni genere e costrizioni di viaggi avventurosi e malconci su sentieri selvaggi con l’unica preoccupazione di infilarsi in tasca qualche pezzo di pane secco per i bambini portati in braccio: questo sogna una giovane madre sbattuta di fronte alla realtà animalesca della vita, sogna La strada.
E’ per questo che pur riconoscendone l’indubbio valore nello stile, penso che questo libro aggiunge troppo poco per poter essere un capolavoro?

mercoledì 16 gennaio 2008

vizio

Ormai posso farlo in qualunque posizione e condizione fisica. Sdraiata, seduta, in piedi. Soprattutto in piedi.
A volte può risultare un po’ più complicato, più difficile concentrarsi.
Forse ci sono giornate di stanchezza, oppure di aria greve, voglio dire per esempio quelle soffocanti, fra giugno e luglio, quando il sudore è copioso e le goccioline rivoleggiano giù per la guancia; l’odore dell’altro diventa intenso, fastidioso, la sua vicinanza e il contatto una inevitabile necessità.
La forza del vizio, però, se ne frega degli ostacoli, anzi se ne alimenta. La passione si organizza, trova forme e modi: anche la scelta dell’abbigliamento ha una sua importanza, la capienza delle tasche, per esempio, la maneggiabilità degli accessori che al momento buono possano lasciarmi libere le mani.
Ecco, le mani sono essenziali, velocemente lo tirano fuori e lo aprono e tu fai un respiro profondo, le palpebre si socchiudono e la bocca si distende e ti immergi in una apnea solitaria.
Anche per pochi istanti, perché anche un solo piccolo istante è godimento.
Quanto può durare di media? Un quarto d’ora, data l’occasionalità delle situazioni, è un buon risultato per ribaltare la noia di una attesa forzata, disegnare una emozione violenta per una donnetta insoddisfatta, una povera anima nervosa.
Quella volta, ecco, per esempio quella volta che ho visto lei, io ero seduta: eravamo affondate in una palude afrorosa di corpi, sbatacchiate dai sussulti discontinui; se sollevavo lo sguardo vedevo una barriera di bacini e cosce, il ronzio di fondo mi impediva di udire le voci sommesse, i respiri.
E’ accaduto che per un momento lo spazio avanti a me si aprisse e io e lei ci siamo potute specchiare l’una nell’altra: era di fronte a me, nella stessa posizione, fra le mani la stessa cosa, tenuta nello stesso identico modo; forse sono stati loro a riconoscersi per primi, nella stessa un po’ consunta edizione economica.
Delitto e castigo era.
Le porte della carrozza della metropolitana milanese si sono chiuse; avevamo un piccolo ghigno sensuale sulle labbra, entrambe, prima che nuovi corpi ci oscurassero.
Viaggiavamo.

mercoledì 9 gennaio 2008

Questa storia, baricco

Insomma questa storia dell’immaginario, del meraviglioso e del mito radunati intorno all’automobile mi lasciano abbastanza indifferente; eppoi chi ci crede davvero a questa storia che “la gente vive per anni e anni ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora lì è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare”; io non ci credo, sarebbe bello, sarebbe questa storia del senso ultimo della propria esistenza da cercare dentro di sé ma chi ci crede a questa storia, sarebbe troppo bello, perché vorrebbe dire che sei predestinato e insomma poi questa storia si allarga ancora di più diventando sempre più inutile. Però dico, dico, ma dico questa storia della russa, diomio, che personaggio femminile potente questa Elizaveta, come illumina la scena; quelle pagine del diario sono intriganti, forti, affascinanti. Lasciate perdere Ultimo Parri, ieri era dietro alle automobili, oggi Ultimo Parri starebbe con la testa dentro uno schermo di computer, è giusto cosi, ce li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni i nostri infantili Ultimo Parri... è Elizaveta che scrive pagine indimenticabili di questa storia, la sua cattiveria, il suo cinismo, le sue malefatte, la sua vendetta contro la povertà, la sua perversione, la sua grandiosità oscura.

venerdì 4 gennaio 2008

Chesil Beach

Prende una frazione di tempo e la racconta lentamente; blocca in fermo immagine e ti racconta un antefatto che renda più chiaro lo svolgersi dell’azione sospesa; forse sta cercando la simultaneità McEwan, la totale coincidenza fra tempo della lettura e tempo dell’evento narrato. Però l’effetto estetico è notevole e tanto più scopri il meccanismo tanto più ne resti affascinata. Se la dilatazione dei momenti in Sabato diventava spesso semplicemente noiosa, non si può negare che qui la materia pruriginosa tiene desta l’attenzione.
Ma come diavolo ha fatto, ti chiedi alla fine, a descrivere così puntigliosamente il disgusto innocente di una ragazza nei confronti del misterioso evento sessuale cui si sente condannata?
Mi hanno detto: a) che racconta ambienti di ricchi fuori del mondo che non gliene può fregare di meno a nessuno; b) che quei due lì sembravano di un secolo prima, altro che 1962, insomma che è un racconto poco verosimile.
Invece è molto vero.
Forse McEwan ti fa incazzare perché si diverte a sezionare gli umani su tavoli di laboratorio.