lunedì 19 ottobre 2009

L'età barbarica

L’età barbarica non è un film imperdibile.
Una volta entrati nel messaggio, diventa piuttosto prevedibile e si tratta solo di aspettare qualche piccola invenzione stilistica che renda meglio o peggio l’idea, o le numerose citazioni, volute o inconsapevoli, da film di fantapolitica già visti.
Più che di una narrazione si tratta di un elenco ordinato di elementi di vita contemporanea, al passaggio dei quali ti resta solo da annuire, riconoscendoli.
Ecco allora:
- una attività lavorativa inutile, al limite dell’idiozia, chiusa dentro riti che servono a darle credibilità
- una famiglia ridotta a microcosmo economico, fornitrice di status e di beni materiali
- una organizzazione sociale desolante (il pendolarismo, l’ospizio asettico e freddo)
- una connotazione kafkiana delle istituzioni (gli uffici governativi dentro lo stadio immenso, con le persone ridotte a formichine impotenti, schiacciate da una realtà divenuta troppo complessa)
- un ordine sociale paradossale con i processi all’uso delle parole negro e nano e le ronde antifumatori con in cani, le vittime degli incidenti stradali che devono pagare per i danni all’arredo urbano o gli immigrati musulmani che stanno in galera senza motivo
- la fuga dalla realtà dentro mondi patetici: i sogni fantozziani del protagonista che sogna avventure erotiche e successi nei media oppure il finto mondo medioevale dove vanno a giocare la domenica un po’ di disperati
- infine la soluzione bucolica che soluzione non è: un po’ scontata, un po’ codarda, soprattutto senza speranza: per uno che si rifugia a fare la marmellata di mele (un cliché ormai dai tempi di Baby Boom) ce ne sono milioni che restano a resistere in questo schifo di mondo alla Brasil.

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