giovedì 19 giugno 2008

una storia romantica di antonio scurati

Scurati dice in una sua intervista: “Ho cercato di scrivere un romanzo comunicativo, sì, ma senza rinunciare alla letteratura, ad ambizioni più alte, a scuotere il lettore, cambiarlo, renderlo partecipe di un’esperienza, fargli conoscere qualcosa di nuovo.”

Per quanto mi riguarda c’è riuscito.

Le 500 e più pagine di Una storia romantica si leggono, tutte, e con attenzione immutata, alternando momenti di puro interesse conoscitivo al gioco della toponomastica milanese, confondendo reminiscenze scolastiche e pedanterie bassoromantiche, riconoscendo nomi e citazioni, concetti filosofici e avvenimenti, frasi di canzoni, testi letterari notissimi, parole e immagini scolpite chissà dove e chissà quando in quel database scomposto che è la nostra confusa coscienza di noi stessi come parte attiva di un mondo.
Alla letteratura chiediamo noi lettori di poterci riconoscere in essa e questo può avvenire a un livello bassissimo e determinare il successo di schifezze editoriali; ma può avvenire a un livello altissimo, nel senso che invece di riconoscere l’individuo preso nella sua facile quotidianità riusciamo a riconoscerci come umanità nella sua interezza: è questo che accade leggendo Una storia romantica.

E’ incredibile come, per quanto sia scoperto sin dal titolo l’impianto di valori eroici e melodrammatici che il romanzo va raccontando, sia impossibile sottrarsi all’identificazione commossa, per cui ciascuno di noi è Aspasia e insieme Jacopo e insieme Italo e più questa triade sembra scopertamente stilizzata, caricata di simboli scontati, forzata nei dialoghi e nei gesti, insomma “quadro” e non personaggio credibile, più riusciamo a riconoscerci in essa, a piangere, a sentire che quelle parole pompose e artefatte sono la rappresentazione epica del nostro essere in un contesto collettivo.

Si arriva alle ultime pagine in uno stato di tensione emotiva paradossale: se da un lato sembra quasi di assistere a una sorta di parodia del sentimento romantico costruito con tutti gli stereotipi possibili, dall’altro proprio quel fare appello agli stereotipi diventa la chiave per la partecipazione intensa a quanto va avvenendo sulla pagina, come se l’autore ti stesse convocando alla condivisione dell’immaginario, a una complicità intellettuale per ricostruire insieme quello che è accaduto alla luce di quello che siamo oggi e viceversa.

Avviene il colmo quando la lettura delle pagine di dichiarazione esplicita delle fonti (Tabula gratulatoria) diventa occasione di commozione quanto e più del romanzo stesso: è come se il romanzo avesse continuato a lasciarti pagina dopo pagina un senso di deja vu che in questo capitoletto finale si disvela dicendoti: ti sei riconosciuta in questo e quello, hai sentito una grande confidenza con questa e quella situazione perché è da questa fonte che viene la citazione ed è la stessa fonte da cui vieni tu.
Quando sono arrivata alla citazione di C’era una volta in America ero al delirio...

lunedì 16 giugno 2008

volver

Le donne curano i morti e i vivi, i sani e i malati; sfregano, spazzano, lavano stoviglie e coltelli; acconciano capelli; improvvisano pranzi di festa dal poco; cantano.
Tengono vive amicizie e parentele; si abbracciano e si baciano; tornano al paese ma sono capaci di andare a vivere da sole nella grande città.
Subiscono stupri e abusi, sopportano tradimenti; ma per difendere un figlio diventano capaci di tutto.
Si inventano imprenditrici dal nulla.
Seppelliscono; incidono lapidi; tengono in ordine le tombe; ritornano dal modo dei morti per troppo amore.
Lavano il sangue.
Sono fantastiche le donne di Almodovar.
Però non le invidio.
Sempre meglio nascere uomo.