venerdì 28 settembre 2007

... melissico e niffoiante

Da una recensione in rete: ... Dal punto di vista dello stile... omissis... è paragonabile ad un vero e proprio testo multisensoriale: odorato ed udito, infatti, prevalgono sulla crudezza visiva delle scene disegnate dalla penna di Niffoi.

Ecco il punto.
Il libro di Niffoi che sto leggendo si chiama Il viaggio degli inganni e per ora mi sembra un dignitoso racconto di una infanzia povera e contadina, come ce ne sono moltissimi (anzi, diciamolo a bassa voce, come non se ne può più).
Quello che fa la differenza, e che ha reso questo autore apprezzato dai critici, è probabilmente lo stile che racconta una materia crudele attraverso una fioritura di sollecitazioni sensoriali violente.

Il problema è che tempo fa ho letto un divertente massacro (Toni La Malfa su Vibrisse bollettino/Bottega di lettura) del primo libro di Melissa P. in cui si sottolineava la ripetuta insistenza della suddetta nella doppietta di aggettivi: umida e triste, stupita e instupidita, odoroso e sensuale, succose e morbide, dritta e inesorabile, felpati e silenziosi, molle e scavata... un delirio!
Così, un po’ incattivita da questo intervento, ho scoperto che quel vago senso di fastidio che stavo provando nella lettura del testo di Niffoi aveva la stessa origine: la micidiale doppietta.
Per esempio: giorni rancidi e maledetti, pioggia pesante e affilata, fanghiglia rossastra e ferrosa, furba e veloce, le ombre morbide e spugnose, carezze asmatiche e appiccicose, sudore gelido e puzzolente, tono acrimonioso e dispotico, fragranza frizzante e leggera... e ho aperto a caso una sola pagina!
La doppietta può essere di due tipi. Nel primo tipo i due aggettivi dicono la stessa cosa, si tratta praticamente dell’utilizzo di due sinonimi e la finezza delle lieve sfumatura di significato dell’uno o dell’altro nulla aggiunge se non una certa mollezza o musicalità o eco alla recitazione mentale.
Nel secondo tipo c’è il gioco di accostare fra loro due sensazioni che fanno capo a due diversi organi di senso, o che un po’ si contraddicono, o che comunque costituiscono una accoppiata inusuale: un effetto poetico efficace se usato con parsimonia, una fatica per la lettura se usato così di continuo. Una fatica che dopo un po’ diventa fastidio.

Certo, si potrà dire che la lettura può, o forse deve anche essere faticosa.
Ma allora rivalutiamo anche le doppiette della povera (si fa per dire) Melissa?

giovedì 27 settembre 2007

martedì 25 settembre 2007

Circolo chiuso di Coe

Circolo chiuso... forse è stato un errore leggerlo così a ridosso de La banda dei brocchi; devo capire perché, nonostante la leggerezza della narrazione, l’intreccio non scontato, i riferimenti sociali e politici precisi e malinconicamente graffianti, sono arrivata al fondo del libro con un senso di sgradevolezza. Pura assuefazione da troppo Coe concentrato?
Punto a): effetto telenovela, gli stessi personaggi che ruotano ruotano ruotano intorno alle vicende e non le vicende che ruotano intorno ai personaggi; così: si decide che i personaggi sono questi e faccio succedere delle cose che li giustifichino; non importa quanto dopo un po’ le cose che faccio succedere comincino a perdere di verosimiglianza. Sia detto, mica lo so quale l’ordine giusto (decido i personaggi e faccio succedere le cose oppure decido gli eventi e ci costruisco intorno i personaggi?), magari l’ideale è un’equilibrata, banalissima metà strada e nel Circolo chiuso si pende troppo da una parte.
Punto b): effetto claustrofobia. Magari è un effetto voluto, non a caso il titolo del romanzo è Circolo chiuso: chiusi i personaggi su se stessi e su un passato irrisolto dopo un po’ ti fanno incazzare. Quando si diventa grandi? Quando l’amore non ricambiato dell’adolescenza smette di essere la scusa buona per non prendersi delle responsabilità affettive? E perché l’amore di Paul deve essere “interno” alla storia, così esageratamente interno alle vicende familiari degli anni dell’adolescenza? E perché questo grottesco ritorno di Cecily?
Punto c): cambio totale della figura di Ben. Ovvero come immedesimarsi nei palpiti profondi di un adolescente ombroso, inquieto, intelligente, profondo, sfigato ma nel giusto, amante della musica e con velleità di scrittore e ritrovarsi un adulto coetaneo fallito, ma non dignitosamente fallito, bensì ridicolmente fallito, qualcosa che assomiglia abbastanza da vicino a un deficiente.
Forse è questa la sgradevolezza: forse Coe mi ha detto qualche verità scomoda. Chissà.

lunedì 24 settembre 2007

grandissimo Elio Germano

Succede che un anno, meglio un paio di stagioni, impazza sulla Rai una fiction per sempliciotti di bocca buona, piene di valori positivi, che celebra la famiglia ma introduce elementi di discussione, di tolleranza, di modernità; succede che, anche se trovi che non si tratti di un capolavoro di approfondimento culturale, sei stanca e ti accorgi che, miracolosamente, l’appuntamento domenicale piace ai figli bambini, anzi addirittura, sedersi con loro a guardarlo ti consente qualche spunto per spiegare cose della vita...
Succede poi che negli anni il prodotto diventi consunto, banale fino all’idiozia, irrealistico perché si è spremuto proprio di tutto e non si sa più quale strampalata situazione di vita inventarsi solo allo scopo di tenere in piedi la serie. Ma questa è un’altra storia, perché quello che qui voglio ricordarmi è l’irripetibilità della seconda stagione in cui i bambini e la mamma guardavano gioiosamente insieme Un medico in famiglia.
C’è un ragazzino che recita in quella serie: Er Pasticca. Epica figura avviata sulla cattiva strada. Esempio di ragazzo da non far frequentare alle figlie, nelle cui braccia cade naturalmente la ragazza protagonista, salvandolo e riconducendolo sulla via del bene. Una figura secondaria nelle vicende, le più diverse, dei componenti la famiglia allargata. Una faccia e una presenza scenica che invece mi sono rimaste impresse. Insomma, a me Er pasticca piaceva proprio. Se avessi avuto 15 anni me lo sarei sognato la notte. E non perché fosse bello, il fatto è che “era”; era un personaggio forte, uno sguardo significativo, un sorriso leggero che spalancava un mondo interiore.
Così succede a distanza di molti anni che mi noleggio Mio fratello è figlio unico, perché è di Lucchetti, perché è una storia bella, perché ha un cast interessante, perché penso che sia un film con molte cose da dirmi.
Infatti. Che dire? Ci sono anche tutte queste belle cose... e i rossi e i neri, e il rapporto fra i fratelli, e l’Italia degli operai fra i 60 e i 70, e la colonna sonora fortemente evocativa, e i momenti comici, e le riflessioni sulla violenza gratuita, sugli eccessi insensati dall’una e dall’altra parte, e l’amore, e la lotta armata, e la vita misera, e i sogni infranti... ma io le ho viste passare tutte in secondo piano queste belle cose, perché in quel film c’è qualcosa che sopravanza e oscura tutto, c’è una presenza scenica che giganteggia: Elio Germano. Mi dispiace per Lucchetti e per il suo bel film, ma io mi sono persa completamente appresso all’attore protagonista, non ce n’è per nessuno. Non lo so se è un bravo attore, o se semplicemente è una persona talmente ricca da risplendere di luce propria, indipendentemente dalla parte che recita: Er pasticca è una forza superiore!

venerdì 21 settembre 2007

alla fine

Alla fine quel cimitero sembrava un parco verdissimo e l’aria era fresca quanto basta.
Alla fine c’era il sole e i tuoi figli sembravano William&Henry alla morte di Diana.
Alla fine il prete anziano si era impegnato tanto, aveva letto delle parole molto poetiche.
Alla fine, pensa, il prete anziano aveva osato accendere un CD col telecomando, proprio là dall’altare e una musica strana ma dolce, moderna, malinconica ci aveva turbati ancora di più e ce l’ha pure spiegata, che cosa significava il crescere delle note e la persistenza finale dell’unica nota presente dall’inizio, che non muore, che prosegue, che resta...
Alla fine la commozione maggiore l’ha procurata un prete giovane in jeans che ha detto una cosa banale, alla fine; ha detto al microfono ai tuoi figli di esserne certi, che la mamma ci sarà, che ti avranno sempre con loro, nei momenti di difficoltà: la cosa più facile, ma anche quella che alla fine uno vuole sentirsi dire; è per questo che su quel tono allegrotto del prete giovane alla fine piangevamo veramente tutti, perché credo che, alla fine, tutti sapevamo che non è vero!

mercoledì 19 settembre 2007

per Patrizia... di getto...

La giornata è cominciata in ritardo, come ieri, come l’altro ieri; tutti i santi giorni mi sembra di aver già perso l’autobus dell’ora giusta, che mi avrebbe consentito di non avere addosso questa urgenza.
Tu non ti sei svegliata invece.
Rifare i letti e ridare un ordine approssimativo alla composizione confusa di tavolo, lavello, piano cottura ha di nuovo rubato minuti ai pensieri che così è stato impossibile tradurre in parole e quindi in senso, mentre i figli mi incalzavano: uno cercava da giorni un libro di grammatica, l’altra ha infilato la porta troppo presto (per chi sa quale pettegolo appuntamento) e ha dimenticato la sacca dell’ora di ginnastica, l’altro ancora si attardava e lamentava indistinte stanchezze.
Tu stamattina invece non avevi da correre intorno ai tuoi due figli, coetanei dei miei.
Mi è rimasto un brandello di quarto d’ora per rimettere insieme faccia e capelli e scegliere una combinazione presentabile di colori e tessuti da mezza stagione.
I tuoi capelli non c’erano più da mesi e i vestiti ti cascavano addosso l’ultima volta che ti ho vista.
Sono arrivata in ritardo come sempre e le strade di Milano fanno schifo; il traffico puzza e crea pericoli; la gente è incazzata, pronta al litigio e all’insulto.
Tu non sei andata a lavorare.
Che cosa ne sto facendo, Dio mio, di queste ore che tu non hai più? Quanto spreco.
Se le metto in fila, le prossime ore, vedo solo questo schermo di computer e quattro fogli excel, nulla da dirsi che non sia stato già detto, una cena riscaldata dentro contenitori di plastica unti, calze sporche in giro...
Eppure tu chissà quanto mi invidi. Di sicuro invidi anche questo mio sfinimento, questo divenire sempre più acida e sfatta. Ma la cosa che di certo ti è stata tolta più ingiustamente è quella di non vedere i tuoi figli diventare adulti.
Devo ricordarmelo.
Devo ricordarmelo ogni secondo, stamparlo in ogni angolo di questo appartamentogalera, dove zompetto qua e là tutto il tempo a riordinare e maledirmi, ripetermelo: "io ho ancora la speranza di veder diventare adulti i miei figli". Non è una gioia, è un diritto naturale, porca miseria, era un diritto naturale, anche per te!

lunedì 17 settembre 2007

La pioggia prima che cada (attenzione: contiene finale della storia)

Un Coe diverso. Non tanto perché si tratta di una vicenda molto privata, chiusa in un universo familiare nel quale la storia maiuscola e la società fanno da fondale silenzioso, quanto, mi sembra, perché il racconto ha uno svolgersi molto lineare: c’è una storia minuscola da raccontare lunga un secolo e ci sono venti fotografie in perfetto ordine cronologico, con un insistere molto classico, romantico, sui paesaggi, sui colori, sui vestiti, sulle acconciature.
Due vite parallele, due cugine, Beatrix e Rosamund. Quale delle due vite è più “regolare”? Beatrix ama uomini, si sposa, fa figli. Rosamund ama donne, resta sola per lunghi periodi e soffre perché viene privata per ben due volte della possibilità di crescere una bambina. Quale delle due donne è più affidabile secondo i canoni sociali e perbenisti per crescere una figlia?
La “normalità” vuole che i figli stiano con la madre naturale. La madre naturale può essere cattiva come una matrigna delle fiabe e generare dolore che a sua volta ne genererà altro sulle generazioni di figlie successive.
L’amore della zia “fuori norma” invece è costruttivo, profondo, generoso, granitico. Capace di resistere di lato, nel silenzio, a tentare di porre rimedio inutilmente ai disastri del rapporto madre-figlia che continua a ripresentarsi a ogni generazione in linea retta.
Semplice. Peccato che il finale ricordi come la vita sia molto più complicata.
Beatrix, la madre fisica incapace di amore, terminerà la propria esistenza (egoisticamente rinnovata a ogni colpo di testa) rispettata da un marito ombra, venerata dai colleghi, e, perfino, con accanto la figlia sulla quale la sua superficialità e il suo egoismo avevano prodotto tanti errori.
Rosamund, la parte buona del duo femminile, la vera depositaria della capacità d’amore materno, morirà sola, suicida, nel rimpianto struggente degli amori persi.
Questo tristissimo finale è un espendiente narrativo per movimentare la banalità del racconto?
Temo che questa domanda resti senza risposta, perché è l’impianto stesso del romanzo a suggerire l’incapacità del presente a fondere in una visione unitaria e sensata le vicende umane. Rosamund dedica le sue energie migliori a fare quello che tradizionalmente si pensa sia il compito delle donne/madri nelle famiglie: mettere insieme, consolidare i legami affettivi, consolare, vegliare, trasmettere la tradizione della famiglia tenendo vivi i ricordi.
I suoi sforzi sono inconsistenti, non raggiungono alcuno scopo.
Le resta solo raccontare venti foto, uno dietro l’altra, come le nostre nonne, ahimè ormai anche le nostre mamme, (e fra poco noi, accidenti, non è già pronto tutto l’armamentario di diapositive da catalogare dopo la pensione?) che tappezzano di foto le loro case silenziose e passano le ore in solitudine a riguardarsele, per cogliere in banali, casuali pose significati che non ci sono mai stati, per dare insomma una veste di bel romanzo compiuto alla loro esistenza, scacciando il pensiero che si sia trattato di un passaggio inutile quanto veloce.
L’estremo tentativo di Rosamund di lasciare a Imogen (l’ultimo anello della catena di maternità inadatte Ivy/Beatrix/Thea) il senso del suo essere venuta al mondo (e più banalmente una somma di denaro in eredità) è destinato al fallimento.
La nipote Gill, chiamata quale esecutrice testamentaria a fare un tentativo di “happy end“, di soluzione, di riconciliazione del passato con il presente, fallisce suo malgrado.
Che cosa resta da fare allora? "Il messaggio del libro è in realtà assai semplice" ho letto in una delle tante interviste rilasciate da Coe "siate dei bravi genitori".
Insomma amare i propri figli con tenerezza. Ricordarsi le parole di Marcello Bernardi a proposito del fatto che, messi al mondo dei figli, siamo diventati genitori e non abbiamo il diritto di non assumerci questa responsabilità, non possiamo pretendere di non essere capaci di lasciare desideri e velleità più o meno inconsistenti sullo sfondo.
Forse davvero l’amore è una delle pochissime armi di resistenza passiva che possiamo provare a contrapporre al caso caotico dell’esistenza. Certi di soccombere alla fine, naturalmente.
Pochissime armi.
Anche la letteratura lo è. Vero, Coe?

venerdì 14 settembre 2007

Donna per caso di Jonathan Coe: Maria chi sei?

Il libro è sottile, breve; in copertina la presentazione lascia supporre una storia strana e non attrae.
Io sono in procinto di leggere Circolo chiuso, per scoprire che cosa ne ha fatto Coe di Ben, Lois e Miriam; decido di dedicare un paio di serate a questo breve romanzo d’esordio; decido che non mi piacerà; decido che lo lascerò a metà.
Per tre quarti del libro non riconosco Coe; vado avanti per inerzia aspettando che accada qualcosa di illuminante.
Invece, così accade, che una lettura partita con il piede sbagliato ti entri nello stomaco, oppressiva, e decida di non abbandonarti, pretendendo risposte che non riesci a trovare.
Io sono come Maria?
Quanto pagherei per avere Coe qui di fronte adesso e chiedergli lumi: chi è Maria, chi volevi prendere in giro, volevi davvero indicarci la strada dell’intelligenza emotiva che manca a Maria come chiave per vivere con più frutto l’esistenza o, al contrario, con una sadica risatina, volevi sprofondarci tutti nell’angoscia della vacuità e del non senso di ogni sforzo emotivo?
A fatica ho cercato in rete commenti e recensioni; molti commenti di lettori, probabilmente più felici e risolti e ottimisti di me, si ritraggono perplessi attribuendo a Maria apatia, depressione, mancanza di energia, incapacità di decidere, indifferenza.
Io invece oggi mi sento morbosamente invasa da Maria e dalla sua vita, desolante fino al ridicolo.
Eppure ha intelligenza Maria, ha una infanzia felice alle spalle, e all’inizio del libro sta per lasciare la sua casa per il college universitario: Maria soprattutto ha grandi possibilità davanti a sé.
Poi Coe comincia prendersi gioco di lei: un susseguirsi di eventi catastrofici e grotteschi trasformano la vita di Maria in un fallimento.
Non è vero che Maria non decide; Maria anzi è forte, affronta tutto quello che c’è da affrontare; non si sottrae a studio, convivenze sgradevoli, frequentazioni ipocrite, lavori umilianti, cambi di casa, cambi di città, matrimonio e maternità; ogni volta ricomincia stoicamente.
Maria aspetta forse un premio che non arriva mai? Qualcuno le ha raccontato che la vita è come la scuola, studi la lezione e prendi un bel voto? Maria non fa male a nessuno, ma tutti ne approfittano. Il suo talento va sprecato; la sua gentilezza e mitezza nei rapporti umani provocano odio e dispetto.
Per tutte le poche e bizzarre pagine del libro la vita le si abbatte addosso con crudeltà casuale.
Insomma, dai, lo dico: Maria è una fallita che, senza colpa ma per incapacità emotiva, non riesce mai a volgere gli eventi a suo vantaggio.
E’ un personaggio tremendo.
E perché mi sembra che mi scruti mentre mi guardo allo specchio?
E, soprattutto, quale stupido e irreversibile passo falso sto per fare solo per non sentirmi lei?

giovedì 13 settembre 2007

uffici e caccole

In uno degli stanzini del bagno delle donne, al primo piano dello stabile di periferia nel quale lavoro, ci sono un paio di caccole di naso appiccicate alle pareti ad altezza torace/occhi.
E’ una immagine che mi disgusta talmente tanto che ho voluto scriverla per vedere se la ricerca di una formulazione semplice mi potesse aiutare ad accettarla.
Non è l’unica immagine disgustosa che una si trova ad affrontare quando frequenta un bagno pubblico, anche se il pubblico in questo caso si limita alla trentina (forse meno) di donne che ogni giorno utilizzano questi gabinetti. Ma confesso di avere abbastanza in antipatia le persone che insistono in maniera ostentata sulle loro abitudini superigieniche da perfettini solo allo scopo di costruirsi un personaggio; non faccio parte del gruppo di donne acide che si gratifica ad attaccare biglietti minacciosi sulle pareti dei bagni, invocando in modo altisonante rispetto, civiltà, senso di responsabilità...
Mi piacerebbe saper declinare davvero la parola tolleranza e, prima di arrivare alla tolleranza sociopolitica, mi esercito, ci provo almeno, a tollerare i piccoli errori altrui, le dimenticanze, le maleducazioni frettolose, le debolezze, le nevrosi.
Scarichi non tirati abbastanza, scopini non utilizzati alla bisogna, schizzi e gocce sulla tavoletta, carta igienica svolazzante sui pavimenti non sono immagini carine, eppure sono immagini di sporcizia che... (vediamo un po’ come potrei esprimere il concetto?) ... si tratta di una sporcizia che è “coerente conseguenza” dell’uso del bagno, uso villano indubbiamente, ma uso appropriato.
Invece mi inquieta pensare che qualcuna delle profumate e rispettabili coimpiegate abbia deliberatamente infilato l’unghietta lunga e laccata nella fremente narice e, altrettanto deliberatamente, abbia ripulito la punta della falange strisciandola con disprezzo sulla piastrella azzurra.
Mi inquieta.
Ogni volta che distrattamente mi chiudo proprio in quello stanzino mi chiedo se capita anche a lei di rientrarci, altrettanto distrattamente, e, mentre armeggia con la costosa griffe che ricopre le sue gambe, incrociare con lo sguardo il piccolo pezzo pietrificato che scintilla al sole.
Quel piccolo pezzo è ormai per me il simbolo della desolazione esistenziale di questo ambiente lavorativo, del nulla un po’ putrido nel quale siamo decorosamente immersi, consapevoli privilegiati dallo stipendio fisso a vita, in attesa di prepensionamenti da fusione sui quali sputeremo, senza capirci nulla, avendo barattato l’esistenza per un mutuo.

martedì 11 settembre 2007

Coe e noi brocchi

Come eravamo, anni ’70.
Allora perché mi è piaciuto così tanto?
Sono diverse ore che me lo chiedo e pretendo una risposta.
Proviamo a cambiare l’ordine: qualcosa non mi è piaciuto? Direi la questione tutta romanticismi e svolazzi finali del rapporto Cicely/Ben. Non è coerente con il resto. Perché mai lo sfigato intellettuale dovrebbe fidanzarsi in questa roboante (e carica di aspettative anzi certezze) maniera? Quando mai s’è visto? Il brocco resta brocco e si accontenta di fidanzati di seconda scelta. Ma devo ancora leggere il seguito e magari nel seguito si scopre che la perfezione amorosa era solo nella testa di Ben, e Cicely ha qualche sorpresina sgradevole, tipo riprendere la consuetudine di infilarsi in storie sbagliate. Però io di questo libro sto parlando e non del suo sequel e insomma vorrei proprio tra l’altro sapere che fine ha fatto Miriam Newman.
Quindi il problema è che io non mi c’ero mica messa invece alla fine con il mio Cicely e allora...credo che sia questo il punto vincente del romanzo: mi sono identificata con quei ragazzi perché a distanze geografiche siderali ero pure io adolescente negli anni 70. Coe ha raccontato una storia collettiva di una generazione che a 13 anni doveva essere a pugno alzato per essere del gruppo e a soli 17 si è trovata la compagna di banco con i jeans firmati, ha alzato gli occhi certa di trovare un muro di ostilità e derisione nei confronti di quella deriva capitalista e... i jeans firmati se li erano messi tutti di colpo e per il resto della sua giovinezza si è sentita nel posto sbagliato, inadeguata, impreparata o, meglio, preparata a un mondo che non si era più realizzato.
Poi ci sono quelle altre cose che dicono di Coe: capacità narrativa, ironia, intreccio, analisi sociopolitica.
Ma ecco forse mi sono un po’ fissata con la testa di Malcom, Malcom che era quello che Ben avrebbe potuto essere. Quelle bombe, quella violenza hanno reciso la testa di Malcom e insieme a quella delle possibilità. Da lì poi la storia ha preso un’altra piega per noi che ci credevamo come brocchi.

lunedì 10 settembre 2007

grossman

Forse un altro anno riuscirò; andrò anche io a Mantova; passeggerò nel bosco con David Grossman; come ho visto nel tg, spadellando in piedi nei tre metri stretti stretti dove si svolge giorno dopo giorno la vicenda casalinga della mia esistenza; ho potuto dare una rapida occhiata, solo una rapida occhiata e mi sembrava che le donne lì a passeggire avessero almeno dieci anni più di me; allora avevano potuto lasciare a casa figli ormai cresciuti e andare a stanare nel weekend lo scrittore. (Siamo noi donne a leggere di più, non è vero? Siamo noi a fare la corte plaudente alle presentazioni di libri).
Andrò, quando gli occhiali per vederci da vicino saranno definitivamente appesi al collo con un cordino colorato, invece di restare ancora nascosti al fondo della borsetta. Avrò un abbigliamento sportivo minimale. E gli parlerò. Parlerò a David Grossman.
E gli dirò:
- Che tu sia per me il coltello mi ha rovinato la vita; che ti è saltato in mente di indicarmi la possibilità, la detonante possibilità di esistere sulla carta, nella parola, di ritrovare un io soffocato da anni, facendolo riemergere in una dimensione parallela e dolorosa?
- Qualcuno con cui correre mi avrebbe cambiato la vita se avessi potuto leggerlo a 15 anni, invece che quasi quaranta; i cattivi maestri, che mi hanno istigato a gettare via il tempo e quindi la vita, hanno popolato la mia adolescenza; questo romanzo mi ha appassionato, mi ha fatto sentire il desiderio potente di essere giovane e ancora in tempo per provare a plasmare qualcosa di più, per provare a essere migliori, per avere, appunto, la passione del vivere;
- Col corpo capisco ho cercato di leggerlo senza immedesimarmi, ed è stata una lotta durissima perché tutte le donne di quel libro, mentre accettavano la poesia della loro carne, mi urlavano: “non lo vedi, che sei come me?”
Gli dirò: è per questo, per questa intrusione nella mia vita, per questa impossibilità a restare indifferenti, nonostante la ricercatezza della noiosissima prosa, che penso che, piaccia o non piaccia, tu sia un vero Scrittore.

lunedì 3 settembre 2007

Campiello un sabato notte

Ma se io che passo di sfuggita intorno ai libri mi sono accartocciata sulla sedia, guardando solo per un quarto d’ora l’indecoroso teatrino televisivo impalcato per il Premio Campiello, e ho provato l’impulso di entrare a braccio alzato come superman nel televisore e liberare quella povera scrittrice umiliata sul palco, spalmata da una serie di oleose ovvietà. Allora, un vero letterato che fa, vomita?
E poi, Ines Sastre, è bellissima e simpatica... ma farle leggere mostruosamente le prime righe dei romanzi italiani...
A che serve far passare in televisione i libri in questo modo?
Cento, mille, milioni di Per un pugno di libri, per favore.
Lo so basta spegnere. Infatti.

borat

Ostaggio della curiosità ho noleggiato il film Borat; mi aspettavo di ridere, mi aspettavo di ridere di scene volgari ma talmente divertenti da rendere la volgarità secondaria e strumentale. Mi aspettavo profonda e intelligente ironia.
Mio figlio quindicenne si è allontanato dopo mezz’ora; bisognerebbe prendere esempio dagli adolescenti. Saranno pure vittime inconsapevoli di un sacco di condizionamenti, ma quanto a quattro risate liberatorie su argomenti di cacca gabinetti piselli e affini sono più esperti di noi. E se si annoiano loro... Sesso e parti anatomiche sono talmente in mostra ovunque che cercare di far ridere soltanto perché si filma un uomo nudo grasso e gli si fa fare la lotta con un uomo nudo magro in modo che i due si ritrovino in pose un po’ imbarazzanti diventa veramente difficile.
Considerare che le interviste in alcuni casi erano delle candid camera rende un tantino più interessante l’esperimento mediatico, ma mi lascia comunque perplessa. Ho pensato alle Iene o a Striscia, non quando prendono per i fondelli i potenti, lì godibilissimi, ma quando usano arroganza verso i piccoli, per quanto meschini questi piccoli siano, pretendendo di saper leggere la realtà e insegnare la civiltà.