lunedì 28 maggio 2007

Pedra Delicado, tipo tostissimo!

Vita sentimentale di un camionista di Alicia Gimenez Bartlett mi aveva lasciata un pochino perplessa, mi ero detta: ma questa non è semplicemente una femminista, questa è una che gli uomini li spellerebbe lentamente per cucinarseli a fuoco vivo. Il protagonista di questo romanzo è talmente squallido e la fine che la Gimenez Bartlett gli riserva talmente adeguata a tanto squallore che mi sembrava ne perdesse la verosimiglianza della storia.
Poi ho letto Morti di carta, uno dei romanzi della serie poliziesca.
Prendi una trama gialla e provincializzala; insomma mettici un commissario/ispettore/poliziotto/avvocato molto legato alla sua terra; poi fanne una serie in modo che il lettore si affezioni al protagonista. Il risultato è godibilissimo; il mistero, il gusto dell’arrivare a scoprire l’assassino prima che te lo dica l’autore, il gioco del riconoscere i luoghi, la piacevolezza di fare il turista fra le pagine. Quanti ne ho già letti negli ultimi anni? Pederiali-Bassa Padana; Camilleri-Sicilia; Oggero-Torino; Biondillo-Milano/Brianza; Carofiglio-Bari; Montalban-Barcellona.
In un momento di stanchezza, in una fase di malumore questi romanzi sono una medicina sicura, anche se il giochino è scoperto e non si può fare a meno di notare una certa omogeneità.
Ma se posso votare, questa Pedra Delicado barcellonese della Gimenez Bartlett non mi dispiace per niente: a) è cinica e disillusa; b) è tosta e prepotentemente femminista; c) infila una dietro l’altra piccole perle di saggezza sulla vita quotidiana.
Per esempio, di questo Morti di carta, mi tengo stretta questa bella frase un po’ buddista, un po’ amara, un po’ divertente che in questo momento mi calza addosso a pennello: “Perché rovinarsi la vita con toni da tragedia, se poi tutto finisce per essere quotidiano, ripetitivo, normale?”

martedì 22 maggio 2007

caos calmo

Il titolo è perfetto per questo bizzarro andirivieni, in un parcheggio davanti a una scuola, di personaggi ai quali cerchi di dare un significato e che invece passano e vanno senza che possano dare una svolta concreta alla storia. Ed è perfetta per questa storia la parola che ho trovato nella recensione al romanzo sul sito degli architetti di Roma (?): entropia. Diamine, ho pensato, è vero: questo romanzo racconta un po’ di quel lento e impercettibile aumento dell’entropia che avviene inesorabile a spese del nostro universo ordinato e strutturato e a spese del significato secondo il quale le molecole sembrano disporsi.
Volevo anche dire, sentendomi molto acuta e colta, che Caos Calmo comincia come L’amore fatale di Ian McEwan e prosegue come se fossimo in un romanzo di Ian McEwan, ma mi è bastato aprire la prima recensione nell’ordine che mi propone Google per sapere che questa cosa l’ha già detta qualcun altro (Antonella Cilento).
L’ambiente sociale della storia forse è veramente troppo alto? Certo non ci si sente proprio bene quando gli unici personaggi nei quali ritrovarsi sono le povere mamme di Gorgonzola descritte in maniera impietosa: non badano alla linea, vestono sciatto, non sono abbronzate anzi hanno addosso l’inconfondibile marchio della periferia; beh, Veronesi, se metto insieme questa con quella in cui dichiari che tutte le post quarantenni dovrebbero vestirsi con il tailleurino, ho un prurito alla lingua che mi verrebbe da mandarti a quel paese. Per fortuna ti riscatti un po’ poiché, anche se dai per tutto il libro della “culona” a una donna, decidi anche che proprio quel particolare anatomico si faccia simbolo e protagonista.
Ma a parte gli scherzi, non sono più così sicura che la scelta di un ambiente alto-borghese di moda e televisione sia così poco rappresentativo di una fascia enorme di lettori: a guardarsi intorno, le persone, quelle comuni, quelle al supermercato sotto casa, sembrano vivere immersi sopra le loro possibilità nella vita che viene raccontata ininterrottamente dalla pubblicità alla televisione al locale trendy sotto e poi di nuovo dalla pubblicità al negozietto in franchising che sembra venderti l’appartenenza a un universo piuttosto che uno straccio di maglietta.
D’altra parte, se quello che vediamo dipanarsi fra le pagine è sindrome di Peter Pan, incapacità di elaborazione del lutto, disordine silenzioso, mancanza di senso nei rapporti fra le persone, l’ambiente doveva essere quello di uno che vive a via Durini 3 piuttosto che a Corvetto.
Anche se a via Durini 3 praticamente non ci andiamo; perché la scelta di Milano vale, mi sembra, solo come antitesi del ritorno a Roma, della perdita di Roma; perché la Milano come la vediamo noi che ci viviamo tutti i giorni in questo libro proprio non c’è.
A me il libro è piaciuto molto; la verità è che io continuo a vivere, proprio così continuo a vivere da qualche anno, fusioni in ufficio e sono grata per aver trovato nel romanzo alcune profonde riflessioni, alcune piccole verità. Serve solo a sentirsi un po’ meglio, forse. Serve a una fugace gratificazione, una specie di carezza sulla testa che ti dica che quella rabbia che si alterna allo scoramento è un sentimento legittimo, se ha trovato posto in un romanzo di moda.
Romanzo di moda, un pochino: ogni tanto ti sembra che stia lì, appiccicato con il post it, un riferimento troppo contingente, un episodio troppo piccino, una fatterello che c’entra poco, come è uso in molti romanzi di nostri contemporanei.
MI sento però di dire che, diversamente da alcune osservazioni lette, la scelta di mandare il collega genio e trombato dalla fusione a fare il missionario non è così superficiale quanto potrebbe sembrare. Bisogna viverlo lo sgretolamento delle certezze professionali alle quali hai sacrificato quasi tutto. Bisogna viverlo quel vuoto improvviso, sapendo che sei troppo vecchio per cercare di reinventarti di essere qualcosa di diverso da un funzionario che non serve più a nessuno. E la prima idea cui ti aggrappi, lo giuro, è quella di voler essere il più utile possibile a dispetto di una macchina impersonale che ti rende inutile di colpo. Il più utile. Fino al gesto romantico.

giovedì 17 maggio 2007

A casa nostra di Francesca Comencini: un film intensamente femminista.

Celeste, Bianca, Lucilla... Rita, ma non si capisce bene, mi sembra che forse il suo ragazzo Matteo la chiami Vita da lontano, ma è solo un mio lapsus d’udito. Nomi luminosi.
Ma la metropoli non è affatto luminosa. Domina il grigio.
Non l’ho riconosciuta Milano, perché io a Milano ci vivo e nel film non ci sono rumori, non ci sono file scomposte e impazzite di macchine, non c’è il cemento che vive di vita propria e ci si arrampica addosso strisciando dai mille cantieri di parcheggi sotterranei e appartamenti sventrati ad ogni nuovo inquilino.
Ci sono invece dei silenziosissimi panorami in penombra, delle torri illuminate a metà, delle balconate di case di periferia sotto tramonti disperati.
Ma non credo che fosse necessaria Milano; serviva una metropoli dove il denaro circola, determina, corrompe, compra consensi e corpi.
Forse è vero quello che ho letto qua e là nelle recensioni: troppa carne al fuoco lasciata cadere un po’ di corsa e quando finisce il film resti sospesa, ti aspettavi un finale più spesso, qualcosa di più compiuto. Ma forse invece questa è una scelta precisa di stile che ha peraltro illustri riferimenti, per esempio Altman.
Se un difetto si vuole proprio sottolineare (ma non è neanche così necessario farlo) è il facile manicheismo: buoni troppo dolci e malinconici, cattivi veramente bastardi anche se ugualmente infelici. Tendenzialmente dalla parte dei cattivi gli uomini che bevono e mangiano parlando di calcio e si scambiano complimenti per chi è più bravo con i soldi e si offrono prostitute in regalo, tendenzialmente dalla parte dei buoni le donne che resistono, desiderano la maternità, che non si rassegnano all’infertilità.
La mia visione tutta di parte del film ha apprezzato, ma velocemente, gli aspetti legati alla disonestà e alla corruzione, allo squallore del mondo delle modelle, al disastro della televisione-verità, al disagio del commesso di supermercato che spera in una vita migliore (mentre la moglie/infermiera si fa il mazzo in ospedale e non ne condivide le aspirazioni materialiste), alle parole macchiettistiche (ma praticamente ormai linguaggio di tutti i giorni) del politico che inaugura i giardinetti e altri cento risvolti sociali attualissimi.
La mia visione tutta di parte si è lasciata molto suggestionare da questa centralità della figura femminile capace di coltivare ancora una speranza, dallo scambio di testimone fra la prostituta in coma e il suo neonato, dalla decisione della protagonista di troncare alla fine il rapporto sterile con Matteo, incapace di responsabilità, incapace di slancio.
Ci sono diverse scene di rapporti sessuali; diverse scene e scene molto diverse fra loro. Quella in cui il banchiere Zingaretti lascia la fragile modella Chiatti, dopo essersela maneggiata a distanza come un pupazzetto, su un carrellino al fondo di un grigio corridoio in un interno chic e soffocante; quelle immaginate appena subite nel degrado e nella totale mancanza di umanità dalla prostituta dallo sguardo meraviglioso; quelle tra la modella e il commesso rimorchiato una sera nella ricerca reciproca di una rivalsa alle proprie aspettative deluse; quelle della protagonista Golino aggrappata a un amore al quale crede solo lei, mentre lui letteralmente si sottrae all’abbraccio che cerca la vita.
Questo ho visto soprattutto e per una volta, anche la scena del parto vero, non mi è sembrata fuori posto.

mercoledì 16 maggio 2007

ancora Foscolo: A Zacinto

E’ tutto.
Basta ripeterla, così con le sue rime e quelle c e l e f che si inseguono e la voce non riesce a posarsi ché ogni immagine ne richiama un’altra in un crescendo che raggiunge il suo culmine in un nome magico, Ulisse.
Basta ripeterla e so quello che sono, so quello che sento.
Esilio, mancanza di patria, incapacità di capire qual è se mai ce ne è una.
Vaghezza di immagini di nubi bianchissime sparse in un cielo aperto e fronde d’ulivo, perse per sempre, che quando torni a vederle sono troppo polverose e devi scappare.
Terra petrosa e irraggiungibile, abbandonata al seguito del “folle volo” di Ulisse.
Bellezza eterna del mare.
Ulisse: bellezza della fama; tragica attrazione per la sventura; impossibile smettere di cercare.
Bellezza e basta.
E canto.
E la solitudine illacrimata. Nessun pianto.

C’è tutto.

martedì 15 maggio 2007

all'ombra dei cipressi e dentro l'urne

Era mia zia. Per l’esattezza era una delle sorelle non sposate di mio padre.
Abbia pazienza, io qui ormai ci capito talmente di rado; o meglio, non è che ci “capiti”; altroché, la cosa va organizzata; perché io abito a più di mille chilometri e se sono qui è per la visita a mio padre.
No, mi spiego meglio, quella di mio padre, lo so dov’è; c’ero anch’io quella mattina, c’ero... lasciamo stare...insomma, scusi, il problema è che non so dove sia quella di questa mia zia, ché quella volta io non c’ero, era primavera e di venire giù apposta neanche a parlarne.
Se può provare a guardare nei registri.
Ecco, l’unica cosa che so è che l’hanno, per così dire, momentaneamente appoggiata in una cappella di certi conoscenti; sotto, così m’hanno detto, sotto una cappellina, e dal cancelletto non dovrebbe vedersi nulla nemmeno, forse una scaletta, non so. Niente foto o nomi perché il posto è solo in prestito per un po’, fino a quando sua sorella non trova il tempo o la voglia di metterci dei soldi in questa faccenda, come definirla? La ricerca di un posto.
Ma sa che non saprei neanche da dove cominciare, ma se ne occuperà qualcuno per me; io spero mai per nessuno. Però anche questa sorella malandata che avrebbe dovuto pensarci, quasi non ci vede più.
Ma poi, si saranno detti quei cugini cui è toccato occuparsene, che cosa vuoi che cambi, tenerla qui o là, metterci il nome, metterci la foto. Niente marito, niente figli, fratelli morti o lontani, nipoti indifferenti, mai lavorato, nessun collega o amico, qualche vicina di convenienza, qualche cruciverba e la messa al pomeriggio. Una signorina, una vecchia zitella e ti passava la voglia di andarla trovare anche di sfuggita quando gli ultimi tempi ti rimbrottava: “...eh, beato chi ti vede...”
Io, Dio mio, speriamo, io il mazzo di fare i figli me lo sono fatto; almeno quello, Dio mio, una foto e un nome per allora me li sarò meritati.
Guardi, fa nulla, non riesce a trovare... sono di fretta. Magari la prossima volta, fra un anno o due. Tanto per sostare un minuto davanti a un muro così, senza neanche sapere dove dirigere lo sguardo, la recomaterna(*) gliela dico a casa.

(*) forma dialettale per requiem aeternam

venerdì 11 maggio 2007

McEwan: Espiazione e una bambina

Mi sono chiesta come sia venuta in mente a McEwan quell’idea alla base di Espiazione, quella storia della ragazzina che danneggia la vita della sorella con una bugia, una finta testimonianza infamante contro il fidanzato di lei. Nel romanzo quella ragazzina la segui fin dall’inizio, ti sta simpatica, ti piace, ti ci riconosci.
E così al trauma che determina il disastro, in una materia delicata e pericolosa e scivolosa come uno stupro in famiglia, ci arrivi con dolorosa partecipazione.
Leggendo quel libro mi è tornata prepotente l’immagine di una bambina scontrosa e complessata, chiusa e insicura, piccola, sui 5 anni, che viene portata in una classe di catechismo di una vociante e maleducata periferia; e di una maestrina di catechismo improvvisata, chissà forse una adolescente, che fa una osservazione un po’ insensata su un disegno colorato in anticipo rispetto al procedere della lettura dei capitoli del libretto di catechismo, qualcosa tipo: “..e quando non c’avete niente da fare colorate il catechismo...”
La bambina si offende, si sente messa alla berlina (che sciocco meccanismo mentale si mette in moto in una bambina, un meccanismo che oggi mi appare totalmente privo di logica) e si rifiuta di andare al catechismo la domenica seguente.
Finché succede che un padre, chissà perché si incuriosisce e chiede alla bambina perché; qui l’immagine si sfoca, mi perdo qualche passaggio, qualche scambio di battuta fra padre e figlia fino a che torna nitida la scena: - padre: ma ti ha dato uno schiaffo?; - figlia: sì.
E poi c’è di nuovo una scena forte; una navata affollata di bambini in attesa dell’inizio della Messa. E il padre e la catechista che confabulano; e la bambina terrorizzata, in attesa della bruciante smentita, o del padre che inveisce contro la maestrina o della maestrina che si vendica o dell’alterco pubblico o di una qualunque tragedia e l’enormità del fatto appare incontrollabile e il motivo che l’ha messo in moto inspiegabile.
Poi il padre sorride; la catechista prende la mano della bambina e la conduce in mezzo agli altri.
Solo alla fine della lezione, le rivolge direttamente la parola, dolcissima: “Vieni la prossima volta?”.
Ogni tanto il mondo va per il verso giusto.

Nei capitoli successivi di Espiazione si arriva poi a raccontare di come la sorella maggiore e il fidanzato calunniato si ritrovino poi e riescano a ricucire quella bellissima storia d’amore interrotta dall’equivoco e dalla menzogna. Menomale, accidenti, menomale, pensi accalorandoti nella lettura.
Però McEwan in realtà forse in Espiazione sta parlando anche di un’altra cosa, fin dalle prime pagine, sta parlando anche del potere della creazione letteraria, perché la ragazzina protagonista quello era maledizione: una romanziera. E le ultime pagine, proprio le ultimissime, ti fregano!

giovedì 10 maggio 2007

l'ufficio piccolissimo

Stamattina, mentre pedalavo, non avevo il solito sonno e neanche il solito mal di testa; neanche la solita noia.
Ho anche provato a respirare forte, percorrevo il corso lungo e provavo a sentirmi in forma mentre, dopo il ponte sulla stazione della ferrovia, il paesaggio di case e negozi, trascolorava piano verso il grigio umido della periferia.
Mentre cercavo un posto anche piccolo per addossare alla cancellata la bici e legarla e illudermi che potesse attendere il mio ritorno serale come animale addomesticato, è ricominciato il mal di testa: una punta rovente di coltellino in bilico sul sopracciglio destro.
Lei c’è come sempre e siamo quasi testa contro testa nell’ufficio piccolissimo.
La prima cosa che scarta dopo circa tre quarti d’ora dal suo arrivo sono i grissini; preferirei pochi morsi molto rumorosi ma rapidi, al posto di questo millimetrico avanzare dei denti che il mio udito si ostina a seguire, a dispetto del tentativo della mente di concentrarsi su altro.
Dopo circa un’ora è il turno dello yogurt; non emana odori, ma il cucchiaino sbatacchia sulle pareti di plastica interne producendo un suono attutito e molle che richiama l’immagine del risucchio delle sue labbra sottili e umettate.
Verso le dodici l’arancia; profumatissima, apre spazi infiniti di desiderio di verde e frutteti di sole!
Infine il panino. La stagnola luccica: orrore la vista delle sue guance piene che saltellano su e giù! Orrore l’idea delle infinite bricioline che si accumulano nell’angolo della bocca e devono poi essere scopate via dalla punta della lingua sporca!
Mi afferro la fronte e prego che sia il giorno del prosciutto cotto, quello plasticoso che passa quasi inosservato.
Perché se invece fosse il famigerato giorno del salame, a fette larghe e odorose, non aspetterò più che mi incentivino con il fondo esuberi, come tutti ormai aspettiamo inerti: prima le strappo via soddisfatta il salame a morsi (perché mi attorciglia l’anima quel profumo di buono senza peccato), poi mi licenzio.

lunedì 7 maggio 2007

A proposito di famiglia... Miss Little Sunshine

Spassoso e commuovente. Sincero e buffo.
Come fare a non immedesimarsi nella madre confusionaria e nevrotica, con il desiderio comunque di accontentare tutti e tenere insieme una famiglia di infelici e perdenti, ovvero semplicemente una famiglia di persone normali?
Come fare a non pensare alle beghe quotidiane, alle rotture di scatole infinite, alle piccole cose che vanno storte, ai fallimenti collezionati giorni dopo giorno che a poco più di 40 anni ti fanno capire che è finita, non ce l’hai fatta, che fai prima ad arrenderti?
Avrei mai trovato l’intelligenza di raccontare a un figlio adolescente e disperato ciò che Proust diceva sugli anni dell’infelicità, che sono gli anni memorabili e costruttivi e che è meglio viverseli?
Che cosa vuole dirmi il film? Siamo dei fantozzi, ma se siamo uniti, forse, con un po’ di complicità, un grande affetto, la voglia di regalare un piccolo sogno ai bambini di casa, si trova la determinazione di essere se stessi e rivendicarlo con orgoglio?

“Il mondo si divide in due categorie: vincenti e perdenti. Sapete qual è la differenza? I vincenti non si arrendono mai”

Per contrasto questo film mi ha fatto pensare a Ricordati di me di Muccino; anche in quel film una famiglia, anche in quel film delle persone scontente, avvelenate da una voglia di emergere quasi fosse una rivalsa contro gli altri familiari. Però Ricordati di me finisce male, molto male: nulla si risolve, si compiono squallidi compromessi, si va avanti facendo finta di sorridere, ma scontenti. Allora avevo pensato che fosse l’unico finale possibile.
Oggi voglio credere che invece si possa montare a bordo del furgone malandato tutti insieme, e contentissimi di essere ancora a bordo.

venerdì 4 maggio 2007

Ce l'hai!

Mi hai toccato e scaricato addosso il tuo senso di colpa consumistico.
Adesso sono io che apro l’armadio e guardo quel cappotto assurdo e costosissimo ancora con il cartellino che tua figlia non ha mai voluto portare; e aveva pure ragione, dai, ma non l’hai visto che è più che fuori moda, semplicemente senza moda, una cosa fuori dal tempo che non avresti messo neanche tu, 30 anni fa.
Adesso sono io che mia figlia non ci pensa proprio a metterselo, e il cappotto di vellutino si gonfia nello spazio angusto dell’armadio e faccio quasi fatica a chiudere le ante.
Portarlo nella campana gialla delle pezze smesse? Siamo pazzi. Prima ancora di pensarci rivedo la tua faccia: “E’ costato un occhio!” hai detto seria e pesante quando me l’hai dato.
A chi lo posso passare? Il senso di colpa dello spreco, più che il cappotto, intendo.
La cugina tale è ancora di taglia mignon; la cugina tal’altra tu la vedi tutti i giorni e riconosceresti subito il giochetto.
Buttare 300 euro circa di cappotto di bambina mai messo? Tu non l’hai fatto; io non lo faccio.
Ma io abito a Milano... hai idea di quanto costa un metro quadro dalle mie parti? Hai idea di quanto costa quel mezzo metro quadro di suolo che il tuo cappotto occupa da tre anni?

Allora lo butto.
Deciso.
A meno che...
Magari la figlia del portinaio.
Anche quei giochi in scatola impilati sugli scaffali. Sì quelli che una lontana collega mi ha portato svuotandosi la stanza dieci anni fa (tu hai tre figli, sono praticamente nuovi) e noi tutti contenti ci siamo imbottiti la stanzetta facendo anche, grati e commossi, il calcolo mentale del valore commerciale del regalo ricevuto.

Che imbecilli!

giovedì 3 maggio 2007

mercoledì 2 maggio 2007

Magdalene, un film notevole

Perché mi è così piaciuta la storia vera delle case di correzione per ragazze "perdute" nell'Irlanda ipercattolica degli anni sessanta?
Lo schema è quello di Qualcuno volò sul nido del cuculo e Le ali della libertà: una situazione di prigionia, di per sé già crudele, aggravata dall’infame accanimento degli aguzzini; una tensione crescente che sfocia in un momento di liberazione finale per uno o due eroi e di perdita definitiva della vita (materiale o ideale) per qualcuna delle altre vittime.
Inutile, credo, ribadire che l’imputato del film non è la chiesa cattolica ma l’abuso di potere che si realizza ogni volta che le condizioni sociali particolari consentono che alcuni possano approfittare dell’ignoranza di molti: insomma non tralasciamo il particolare che le ragazze cosiddette peccatrici stanno lì dentro per volere delle famiglie, dei padri e delle madri, che non c'è nessuna legge che le obblighi, ma solo la bieca morale diffusa, della quale le suore (a loro volta anche un po' vittime) sono solo operatrici finali.
Credo che la mia adesione molto commossa al film sia anche dovuta alle specificità di quello che viene raccontato: sessualità femminile incompresa e manipolata. Per farla breve: che bello, una storia di donne vere; non figurine erotizzate.
Bisogna assolutamente far seguire la visione del film dal documentario, con le testimonianze di alcune donne che quei fatti li hanno vissuti veramente.
Moltissime le scene del film che ti si fissano nella coscienza.
Ne scelgo una, la prima. Lo sguardo della ragazza violentata dal cugino durante una festa di matrimonio che, ingenuamente, si precipita a sussurrarlo alla madre; lo sguardo che progressivamente si trasforma: dapprima è fermo e certo dell’ingiustizia subita, fiducioso; poi lentamente e angosciosamente lo sguardo subisce quello che vede attraverso i balli e la musica, i gesti e le mezze parole del padre e degli adulti maschi che si consultano frettolosamente, il cugino intoccato, gli occhi degli altri che si girano a guardare lei con lieve e crescente preoccupazione e disagio e rifiuto. Scena magnifica!