martedì 27 novembre 2007

Ancora dalla parte delle bambine, numero 2

Bisogna prenderlo per piccole dosi questo lungo elenco di esempi, perché mentre leggi te ne fai carico e ti senti mortificata per tutte le volte che non hai capito piccoli segnali, subdoli ammiccamenti.
Certi mondi poi neanche li conosco; certe riviste, certi prodotti, certi programmi. Me ne sono sempre tenuta alla larga; ma era giusto tenersene alla larga, ignorarli come sottoprodotti culturali, quando invece stavano divorando tutto il mondo della comunicazione fino a diventare gli UNICI modelli proposti alle bambine e alle ragazze?
Una testimonianza dal mondo della pubblicità dice, a un certo punto del libro, che la pubblicità non è colpevole, che la pubblicità deve andare sul sicuro e fa appello all’esistente, che quanto appare negli spot è solo la registrazione patinata di una situazione reale; sono molto perplessa, a me sembra molto più articolata la cosa. A me sembra che l’esistente sia un miscuglio disordinato di tante pulsioni e che la pubblicità vada a cercarsi apposta il peggio di quel miscuglio e su quello faccia leva, rendendolo, in un crescendo che ben conosciamo, soft, accettabile, divertente, di moda, inevitabile fino a elevarlo al rango di riferimento culturale.
E ho un pensiero che mi turba leggero, mentre mi avvio alla fine della lettura: che l’andazzo degli ultimi anni così rovinoso per le donne sia stato generato casualmente in qualche ufficio marketing, che si sia cominciato a giocare su un po’ di retrogusto post-femminista, provando a riproporre qualche immagine tradizionalista e che la cosa abbia preso piede in una spirale che si autoalimentava: il mercato rispondeva e allora il prodotto veniva sempre più reso conforme alla specializzazione di genere fino alla caricatura e così via e così via. Questo potrebbe voler dire che più che prese di posizione culturali consapevolmente maschiliste, quello a cui assistiamo sia ancora una volta l’imporsi di un consumismo insensato fatto di marchi, di mondi immaginari, di icone slegate dalla realtà ma talmente roboanti nella loro imposizione mediatica da sostituire completamente la verità materiale delle persone.
Insomma i soldi dietro tutto, spiace dirlo in questo modo così semplicistico e quasi volgare; insieme a una nuova presenza della donna nella vita sociale, io da bambina ho visto affermarsi altre bellissime idee che riguardavano anche gli uomini e la società tutta e anche queste idee sono state umiliate nei decenni successivi da una vittoria trionfale e pecoreccia del liberismo e dell’egoismo del benessere.
Il dubbio che ho è: se vogliamo capire e reagire qual è il vero nemico cui dobbiamo rivolgerci?

venerdì 23 novembre 2007

Ancora dalla parte delle bambine, numero 1

Avrei voluto fare un commento a Ancora dalla parte delle bambine alla fine della lettura ma è impossibile. Sono solo all’inizio e sarà dura finirlo in fretta; ogni riga è densa. E si affollano cose da dire ad ogni pagina.
Potrebbe essere un saggio, ma mi accorgo che lo leggo come si legge una storia; potrebbe essere la storia negli ultimi 30 anni delle donne che mi circondano, ma mi accorgo che lo leggo come se fosse la mia storia.
Perché ero bambina negli anni settanta, perché ho letto Dalla parte delle bambine, perché ho fatto microscelte e compromessi, perché mi ritrovo stranita e amareggiata di fronte a che cosa sono, a come sono le mie coetanee, a come sono mia figlia e sue amiche. Perché mi chiedo se sono sempre stata vigile e consapevole di quello che stavo scegliendo.
Parliamone, mi sembra che mi dica questo libro. Vediamo di capire come è andata. Vediamo di sapere almeno che cosa è successo prima di arrivare a poterci chiedere il perché.
In mezzo a qualche inconsapevole connivenza mi scopro però compiaciuta a dire “... questo infatti a me non è mai andato giù...”
Per esempio leggere le considerazioni sulla filosofia e sul meraviglioso mondo dei negozi e delle riviste per mamme mi ha riportato indietro alle gravidanze e a quello strano senso di fastidio che avevo per il lezioso incanto. Mi ero presa tutta la colpa allora: sono io che sono timida, o forse ho un cattivo rapporto con il mio corpo e questo essere scaraventata al centro dell’attenzione mi mette a disagio, oppure sono una anticonsumista esagerata che vede il diavolo del profitto anche dove c’è buona fede, oppure sono poco sensibile o poco femminile e non sono portata per la maternità e chissà che disastro di madre sarò... oh insomma, leggendo il libro della Lipperini ho trovata suggerita la parola giusta: umiliazione! Umiliazione: questo finto mondo dove un neonato è solo un batuffolo di tenerezza e tu mamma un’idiota da istruire anche su come infilarsi un reggiseno o come cantare una ninna nanna ti umilia. Ti suggerisce soavemente una sensazione di inadeguatezza, ti induce a una triste posa bamboleggiante e, ovviamente, voilà, ti propina decine di assurde e costose soluzioni. E già che ci sono dico una cosa molto poco simpatica, ma sono certa che molte donne mi darebbero ragione: quelle cazzate micidiali della preparazione al parto, quei suggerimenti soft e severi insieme su come respirare, su come (udite udite) esercitare i muscoli pelvici in vista dello sforzo che dovranno compiere, cazzate micidiali appunto e lo capisci in un colpo solo quando tuo figlio che esce ti squarta viva e una faccia da stronzetta ti chiede scuotendo il capo se hai frequentato il corso pre-parto, perché è chiaro che è sempre colpa tua... Questo interiorizziamo da sempre e per sempre: è colpa nostra, di tutto quello che ci succede. Dal dolore del parto al figlio drogato, dallo stupro all’osteoporosi.
Ma sono solo all’inizio... e credo che ognuna di noi potrebbe scrivere dieci libri su ogni capitolo.
Questo è un libro aperto, che vive.

lunedì 19 novembre 2007

i giorni dell'abbandono, il film

Ho letto I giorni dell’abbandono un paio di anni fa; mi ricordo bene che l’interesse del libro non risiedeva nella storia piuttosto banale e a volte fastidiosa nella sua prevedibilità, quanto nella scrittura, nel racconto dell’inferno mentale della protagonista: il marito, i bambini, il vicino di casa, le amiche (o supposte tali) erano figure lontane, dalle quali alla protagonista arrivava una voce molto ovattata: era come se la donna si muovesse all’interno di una campana insonorizzata e da quei vetri trasparenti vedesse gli altri vivere e agitarsi, all’inizio con impotente dolore, progressivamente con sempre più attutita e quasi apatica indifferenza.
Ecco tutto questo nel film scompare, nel film resta solo la banalità della vicenda, una qualunque storia di corna alla quale la recitazione di Margherita Buy non riesce a dare forza.
Anzi: aver dovuto raccontare la vicenda ha finito col sottolineare ancora di più le debolezze nascoste nel libro.
Si potrebbe fare un lungo elenco ma scelgo su tutti due punti.
a) la figura del musicista; avere scelto di mettere al piano di sotto un grande musicista toglie credibilità: insomma 35enni mollate dal marito per una ragazzina non preoccupatevi, c’è sicuramente nel vostro condominio un musicista di fama internazionale scapolo innamorato di voi, come no!
Io ricordo invece che nel romanzo il musicista del piano di sotto era uno sfigato solitario che sapeva suonare uno strumento, e il fatto che la protagonista lo rivalutasse sentendolo suonare al concerto non significava che se ne innamorasse, e la soluzione finale del “ci amammo quietamente” io l’avevo interpretata come ripiego tiepido, non come happy end.
b) se, come nel libro, scelgo un livello di racconto mentale, posso permettermi di trascurare le quotidianità; se scendo di livello e devo rappresentare con i gesti quotidiani le difficoltà della mente, quel quotidiano deve avere un minimo di realismo; se poi quello che sto raccontando è l’inferno di una casalinga madre di due figli rimasta sola, santocielo, quel quotidiano è “il problema” , quel quotidiano deve giganteggiare, quelle banalità (chiamiamole così) fatte di malattie, figli, cucina, figli, spesa, scuola, figli, pulizie, figli... sono la valanga sotto la quale stramazza la donna normale che si vuole rappresentare; invece, nel film, l’appartamento perfetto e i figli che vanno a letto a comando e si abbracciano tra di loro sono di un irrealismo irritante. Ma non sono obiettiva, lo so...

Brucia Troia

E’ piuttosto strano Brucia Troia; nonostante la collocazione geografica abbastanza intuibile e la datazione precisa degli avvenimenti, la storia sembra vivere in una dimensione di epoche lontane e di personaggi primordiali. C’è un quartiere mitico e infernale popolato di derelitti, c’è un inarrivabile olimpo nel quartiere dei benestanti e c’è un luogo sospeso nel tempo e nello spazio: un brefotrofio di rituali assurdi dove si forgiano follie.
Non sembrano forse gli strampalati eroi un po’ quelle figure da epica delle scuole medie, raccontate da versi omerici tradotti in un italiano così lontano non solo dal parlato ma anche dalla scrittura familiare? Figure che diventano figurine. Archetipi senza famiglia che nessuno cerca, che scompaiono in un posto, riappaiono in un altro cambiando nome.
E non sa di fumetto anche tutta quella storia di padre Spartaco e del suo santuario di plastica?
Il susseguirsi degli eventi è ai margini di altre vite che forse in un altrove scorrono e progrediscono e guardano la partita del secolo, Italia-Germania 4-3, e costruiscono un progresso al quale i protagonisti del libro non partecipano; anzi quando sono chiamati a sfiorarlo è per devastarlo con il fuoco.
Li osservi come si osservano insetti, senza capire; e ti commuovi soprattutto per quei poveri gatti...
Ma Troia, prima o poi, brucia: dovremmo ricordarcelo.

martedì 13 novembre 2007

Flòrez, tu dono degli dei...

“Siamo pazzi, tutti”, dice Sandro Veronesi e sta pensando a ben altra cosa mentre lo dice in Caos calmo.
A me viene in mente questa frase, e il senso che può avere se riferita comunque al fatto che esiste qualcosa di bellissimo in questo pezzo di universo e di straccio infinitesimo di momento cosmico cui ci è dato di appartenere.
Esistono cose bellissime delle quali non ci accorgiamo, delle quali nessuno ci ha mai raccontato, o delle quali abbiamo avuto un assaggio e poi, presi dalle infelicità inutili che amiamo accogliere in grembo quotidianamente, abbiamo dimenticato.
Esiste la Bellezza, richiami di paradiso che si mostrano a noi, idioti che ce ne dimentichiamo e ci lasciamo lordare dalla Volgarità, dalla Bruttezza.
Penso così e ho quasi le lacrime agli occhi mentre ascolto e sento con tutta me stessa Juan Diego Flòrez cantare dal vivo, a pochi metri da me; ne osservo la schiena e l’addome diritto e i movimenti delle braccia e del collo; e la testa e le mani; non sembra umano o forse è troppo umano e siamo noi che ci siamo rassegnati troppo in fretta a non esserlo.
Ogni nota si riconosce pulita, legata alle altre da fili morbidi, prodotta da un numero infinito di respiri sapienti.
Suono schietto, alto.
Perfetto. Che cosa mai potrà significare perfetto? Forse non è il termine adatto.
“Bel canto” lo chiamano, “dono degli dei” mi dico.
Da lassù in alto è un tripudio: applaudono, gridano, battono i piedi.
Nella prossima vita questo vorrei essere: un tenore.
Oppure semplicemente il tappetino di Flòrez, rannicchiata sul pavimento ad assorbire le gocce magnifiche della sua magnifica fatica.

venerdì 2 novembre 2007

Il sopravvissuto, di Antonio Scurati

Immagino: di trovarmi di fronte la me stessa liceale e mi chiedo se ci prenderei insieme un caffè. A 48 ore dalla lettura delle ultime pagine de Il sopravvissuto di Antonio Scurati è questo il pensiero predominante. Andrea e Vitaliano, ovvero io e la mestessaliceale. Che cosa abbiamo da dirci lei ed io, la mestessaliceale da una parte e la sopravvissuta all’adolescenza dall’altra? Che cosa ho da invidiarle, quali ideali inventati, nei quali lei sta stupidamente credendo, le smonterei cinica, quale disprezzo per l’ipocrita accomodamento nel mio grigiore lei mi sputerebbe in faccia e, soprattutto, la mestessaliceale quale delitto tremendo metterebbe in atto per poi puntarmi contro il dito?
Un rapporto irrisolto con la propria giovinezza e la necessità di una tragedia catartica intorno ai quaranta anni, per spedire la mestessaliceale definitivamente dall’altra parte del globo, in una terra promessa dove io e lei dovevamo andare insieme, ma verso la quale non mi resta che restituire al mittente una cartolina senza testo.
Questa è la chiave di lettura che mi ha fatto apprezzare questo romanzo come una esperienza di grande valore emotivo, questo lo stato d’animo con il quale ho cercato dentro di me l’eventuale “... ingratitudine dell’adulto che non ricambia lo sguardo rivoltogli dalla sua perduta giovinezza”.
L’impietoso, eppure appassionato canto sulla scuola mi cattura: sono pagine precise, cattive, realistiche. Fanno riaffiorare ricordi, riscatti mancati, amarezze e bilanci a posteriori da far combaciare con quello che vedo oggi, da madre di studenti.
Ma il romanzo parla di molto altro, perché quell’arma, che già nelle prime pagine viene puntata sulla mediocrità e la noia e la superficialità e il degrado spirituale, può risuonare con lo stesso fragore per esempio in questo ufficio o in uno studio televisivo o in un ospedale pubblico o in un tribunale o in mille altri luoghi di lavoro. Quante volte è già successo nella mia immaginazione che la mestessaliceale sia entrata dalla porta di questa squallida stanzetta detta ufficio e abbia fatto casino, un bellissimo, fragoroso, scandaloso, beffardo, orrendo casino? Quante volte ha già operato nella mia vita questo circuito mentale chiuso: l’adolescente era grandiosa, l’adulta si sente fallita e invece di reagire gioca con il fantoccio dell’adolescente e lo manda in avanscoperta, invidiandone la freschezza e nascondendosi dietro la sua inesperienza.
E' un vezzo divertente la citazione ripetuta, è un vezzo che pratico spesso e ho ritrovato in Scurati. Sono tra di voi, ma non con voi dice il protagonista de Il sopravvissuto (come i guerrieri orgogliosi de Il rumore sordo... ripetevano aut facere scribenda aut scribere legenda); così mi sembra calzante per caso l’ultima delle tante frasi appiccicate con lo scotch intorno al mio computer: “la colpa delle cose è sempre dei migliori” e mi ricordo di averla fissata per ricordarmi di sentirmi responsabile ogni volta che pretendo di sentirmi migliore di quelli che con superbia considero errori altrui.
E insomma, forse questo è anche un romanzo sulla correità, sull’invito a non accomodarci sulla poltrona bianca per farci intervistare, accanto al plastico della nostra esistenza, e intanto giocare con il pupazzetto che ci rappresenta (bella immagine, mi è piaciuta tanto!).
Ma non è così semplice, ché una frase letta da una intervista all’autore mi rimescola le carte: “...ho cercato di raccontare una storia sull'11 settembre senza nominarlo mai...”. Già, la datazione puntuale dei capitoli non era solo un espediente per non confondere fra il presente post delitto e il passato di introspezione del professore. La storia termina il 10 settembre 2001 infatti e la potenza della narrazione deposita il lettore alla vigilia dell’orrore con un sentimento di partecipazione meno distaccato, incapace forse di tracciare la linea netta fra buoni e cattivi oltre la quale collocarsi con ottusa certezza.
Una cosa importante contesto a chi, a proposito dello stile di Scurati, parla di (cito):... narcisismo, virtuosismo, autocompiacimento della bella parola, prolissità, pomposità... Non è vero, si tratta di un lessico affascinante, non c’è una sola parola che sia incomprensibile o volutamente per addetti ai lavori, lo stile è elegante, tutto qui; perché non provare ad apprezzarlo, a farsene ammaliare, a godere di questa prosa spessa e carnale?