lunedì 17 settembre 2007

La pioggia prima che cada (attenzione: contiene finale della storia)

Un Coe diverso. Non tanto perché si tratta di una vicenda molto privata, chiusa in un universo familiare nel quale la storia maiuscola e la società fanno da fondale silenzioso, quanto, mi sembra, perché il racconto ha uno svolgersi molto lineare: c’è una storia minuscola da raccontare lunga un secolo e ci sono venti fotografie in perfetto ordine cronologico, con un insistere molto classico, romantico, sui paesaggi, sui colori, sui vestiti, sulle acconciature.
Due vite parallele, due cugine, Beatrix e Rosamund. Quale delle due vite è più “regolare”? Beatrix ama uomini, si sposa, fa figli. Rosamund ama donne, resta sola per lunghi periodi e soffre perché viene privata per ben due volte della possibilità di crescere una bambina. Quale delle due donne è più affidabile secondo i canoni sociali e perbenisti per crescere una figlia?
La “normalità” vuole che i figli stiano con la madre naturale. La madre naturale può essere cattiva come una matrigna delle fiabe e generare dolore che a sua volta ne genererà altro sulle generazioni di figlie successive.
L’amore della zia “fuori norma” invece è costruttivo, profondo, generoso, granitico. Capace di resistere di lato, nel silenzio, a tentare di porre rimedio inutilmente ai disastri del rapporto madre-figlia che continua a ripresentarsi a ogni generazione in linea retta.
Semplice. Peccato che il finale ricordi come la vita sia molto più complicata.
Beatrix, la madre fisica incapace di amore, terminerà la propria esistenza (egoisticamente rinnovata a ogni colpo di testa) rispettata da un marito ombra, venerata dai colleghi, e, perfino, con accanto la figlia sulla quale la sua superficialità e il suo egoismo avevano prodotto tanti errori.
Rosamund, la parte buona del duo femminile, la vera depositaria della capacità d’amore materno, morirà sola, suicida, nel rimpianto struggente degli amori persi.
Questo tristissimo finale è un espendiente narrativo per movimentare la banalità del racconto?
Temo che questa domanda resti senza risposta, perché è l’impianto stesso del romanzo a suggerire l’incapacità del presente a fondere in una visione unitaria e sensata le vicende umane. Rosamund dedica le sue energie migliori a fare quello che tradizionalmente si pensa sia il compito delle donne/madri nelle famiglie: mettere insieme, consolidare i legami affettivi, consolare, vegliare, trasmettere la tradizione della famiglia tenendo vivi i ricordi.
I suoi sforzi sono inconsistenti, non raggiungono alcuno scopo.
Le resta solo raccontare venti foto, uno dietro l’altra, come le nostre nonne, ahimè ormai anche le nostre mamme, (e fra poco noi, accidenti, non è già pronto tutto l’armamentario di diapositive da catalogare dopo la pensione?) che tappezzano di foto le loro case silenziose e passano le ore in solitudine a riguardarsele, per cogliere in banali, casuali pose significati che non ci sono mai stati, per dare insomma una veste di bel romanzo compiuto alla loro esistenza, scacciando il pensiero che si sia trattato di un passaggio inutile quanto veloce.
L’estremo tentativo di Rosamund di lasciare a Imogen (l’ultimo anello della catena di maternità inadatte Ivy/Beatrix/Thea) il senso del suo essere venuta al mondo (e più banalmente una somma di denaro in eredità) è destinato al fallimento.
La nipote Gill, chiamata quale esecutrice testamentaria a fare un tentativo di “happy end“, di soluzione, di riconciliazione del passato con il presente, fallisce suo malgrado.
Che cosa resta da fare allora? "Il messaggio del libro è in realtà assai semplice" ho letto in una delle tante interviste rilasciate da Coe "siate dei bravi genitori".
Insomma amare i propri figli con tenerezza. Ricordarsi le parole di Marcello Bernardi a proposito del fatto che, messi al mondo dei figli, siamo diventati genitori e non abbiamo il diritto di non assumerci questa responsabilità, non possiamo pretendere di non essere capaci di lasciare desideri e velleità più o meno inconsistenti sullo sfondo.
Forse davvero l’amore è una delle pochissime armi di resistenza passiva che possiamo provare a contrapporre al caso caotico dell’esistenza. Certi di soccombere alla fine, naturalmente.
Pochissime armi.
Anche la letteratura lo è. Vero, Coe?

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