Un nobile intento di fondo (d’altra parte stiamo condannando il Mostro, un capo di stato portato sui banchi di un tribunale internazionale per genocidio e efferatezze varie); una scrittura asciutta e capace di suspense (anche quando la suspense alla fine non si scioglie); idea narrativa interessante per cui la storia e la politica sono raccontati ed evocati e insomma sono lo sfondo sfocato, mentre in primo piano ci sono i rapporti familiari, il bambino soprattutto, le paure, gli incubi, i ricordi personali, i dolori e gli orrori nascosti dentro le immagini intime del passato; una eco mcewaniana, secondo me, molto evidente, soprattutto nello svolgersi lentissimo e preciso nei dettagli di alcuni momenti: la visita all’ipermercato, la gita sul lago, la notte passata sul videogioco.
Allora che cosa non mi è piaciuto? Forse che tutto è pervaso da una forte affascinazione nei confronti della materia trattata, questo maneggio di “cose da uomini”: computer, giochi di guerra, fatti di guerra tramandati da padre a figlio, da suocero a genero, robe da eroi solitari...
Una donna è una moglie lontana, amatissima per carità come no, ma chissà perché incapace di comprendere che suo marito sta facendo la storia e capricciosamente va a passare le sue serate solitarie da un gay un po’ macchiettistico; un’altra donna sarebbe in realtà una guardia del corpo e quindi accolta nel meraviglioso universo dei maschi duri e puri che disinfettano il mondo dagli orrori ma, guarda caso, appena resta sola con l’eroe, gli si offre fisicamente; la terza donna è una domestica a metà strada tra una invasata e una imbecille.
Ecco, più che approfondimento psicologico dei personaggi, mi sembra che qui ci sia l’approfondimento di un solo personaggio, con una decina di figurine che gli girano intorno fatte a sua misura, incapaci insomma di costituire un vero contraddittorio.
Nessun commento:
Posta un commento