Siamo tutti case vuote e aspettiamo qualcuno che rompa la serratura e ci renda liberi.
Questo pare l’abbia detto Kim Ki-duk, che è un regista e che ha fatto un film strano e bellissimo che si chiama Ferro3.
Film visto da tempo e ne ricordo ancora scene, suggestioni e silenzi. Chissà se è l’indizio giusto per giudicare un buon film il fatto di ricordarlo così vivo dopo tempo. O il fatto che questa frase sia scritta sulla mia costa d’armadio in ufficio, affianco al calendario, ai disegni dei bambini e alla frase d’effetto di Ugo Foscolo.
E sarà perchè la frase comunque è lì quando mi alzo, quando mi giro verso il cestino e, anche se non la leggo, sfreccia veloce per microsecondi sotto lo sguardo, sarà per questo che ho pensato alle porte e alle serrature, quando Andrea è piombato rumoroso e massiccio nel nostro ufficio, ha stretto mani, si è sparapanzato su sedie, ha ascoltato discorsi di benvenuto, ha spettegolato quanto basta e si è sorbito le prime spiegazioni di questo lavoro/non lavoro, di questa finta rispettabilità cartacea.
Andrea mi è piaciuto d’istinto, un ragazzone di oltre un quintale, incapace di stare fermo, incapace di stare zitto per più di un minuto di fila; capace al contrario di guardarti negli occhi e esporsi.
Dentro gli occhi ho visto una serratura aperta; speriamo non ritrovi la chiave nelle prossime paludose giornate.
L’aria libera che circolava fra le sue finestre si è infiltrata sotto le mie ben chiuse e anche a sera a casa, mi sentivo diversa e non capivo, finché, risvegliandomi il mattino dopo, in quella fascia di consapevolezza magica che è l’alba di una nuova giornata in un letto sfatto e caldo, non ho visualizzato insieme la frase di Ki-duk e Andrea... e ho capito.
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