giovedì 22 luglio 2010

L' anno dei dodici inverni, Tullio Avoledo

Anche questa volta l’ottimo Avoledo ha scritto un romanzo complesso, cioè non un raccontone tirato per le lunghe come molta narrativa contemporanea ma un vero romanzo, con più personaggi principali e diverse situazioni che si intrecciano. Si divide in tre parti abbastanza diverse nei contenuti.
L’atmosfera iniziale è molto simile a quella de La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo: la possibilità di tornare nel passato messa al servizio di una storia d’amore percepita come unica e totalizzante. E, come nell’altro libro, anche qui si avverte lo studio preciso del meccanismo delle consequenzialità temporali, per non perdersi nel labirinto del continuo sovrapporsi della storia dell’io narrante da giovane a vecchio e della storia privata della famiglia Grandi nelle diverse versioni possibili. Diversamente da Niffenegger però Avoledo si diverte ad elencare accanto alle storie piccole dei personaggi gli eventi della Storia grande che si dipanano mano a mano (i mondiali dell’82, la morte di lady D., la tragedia di Bophal, Chernobyl e così via) e ci mette le sue passioni probabilmente, la musica colta, gli sviluppi tecnologici dell’HiFi, le poesie... e poi, chissà perché Harry Potter e Dan Brown, un “come eravamo” mano a mano che si va formando, un minestrone melanconico di “tempo che non torna più” prima ancora che sia passato.
Il racconto è complesso, si infittisce, aggiunge elementi su elementi che si illuminano in primo piano, poi vengono accantonati, ti attacchi alla pagina per la curiosità del disvelamento del mistero.
La seconda parte è la meno riuscita: un lungo resoconto di pochi particolari ritagliati sui due personaggi femminili principali, una microvicenda che, sia pure necessaria all’intreccio, riceve un’attenzione eccessiva e allenta il ritmo. Ma forse proprio su questa caduta di attenzione si costruisce poi l’effetto, bizzarro per alcuni, bellissimo per me, del futuro fantascientifico che irrompe sulla scena nella terza parte. Il registro cambia di colpo, l’immaginazione galoppa e ti butta in mezzo a un mondo assurdo. L’idea della Chiesa della Divina Bomba e della religione di san Filippo Dick è portentosa: la stessa vertigine di piacere intellettuale e giocoso insieme che già avevo provato leggendo il finale de L’elenco telefonico di Atlantide, non solo perché la fantasia sparata così spudoratamente è godibilissima, ma anche perché ti arriva inaspettata, quando ti stavi un po’ ammosciando su vicende esistenzialromantiche che cominciavano ad avvitarsi su se stesse.
A questo punto Avoledo ne deve uscire e rimette insieme i fili un po’ in fretta e forse con troppa diligenza: ecco che ci sistema la faccenda del quadro e poi quella della foto e quella della macchina fotografica e quella della password del messaggio criptato.
Avoledo ha uno stile che non si confonde nella massa e scrive con grande accuratezza, ma si muove in una atmosfera cupa e piuttosto “maschile”. Per quanto sia un gran pregio la scelta di inventare storie fino ai confini della realtà, invece di propinarci il solito autobiografismo mascherato di tanti altri, nel corso della lettura continuo a percepire il suo io che governa la narrazione in maniera molto forte. Forse è per questo che ne apprezzo soprattutto la vena fantascientifica, mentre i suoi ritratti di donna mi appaiono a senso unico: donne tristi, bellissime e sfortunate, icone di una fragilità esteriore e di una maledizione interiore nelle quali ci imprigiona la visione maschile del mondo e che non bastano a rappresentarci.

1 commento:

Anonimo ha detto...

necessita di verificare:)