giovedì 10 giugno 2010

Maratona Macondo a Milano, Lella Costa a Babele, la mia gioventù

Sono dovuta rientrare in ufficio.
Ieri e oggi. L’ho fatto così malvolentieri. Sotto le arcate della Loggia dei Mercanti le poltroncine erano comode e, magia magia, l’aria filtrava da un lato all’altro regalando addirittura folate e frescura. Voci e volti conosciuti e sconosciuti si stavano passando il testimone della lettura di Cent’anni di solitudine, ad alta voce, praticamente in mezzo alla via, la meraviglia delle parole fra schiamazzi e volti corrucciati che si affrettano a raggiera.
E io stavo dimenticando dove fossi, catturata di nuovo nel gorgo di una favola strana, pulsante, maledetta. E dimenticavo soprattutto il quando, il desolato quando in cui sto lasciando finire la conta dei giorni.
Era “vent’anni fa o giù di lì” ed ero giovane, dio quanto giovane, leggevo Repubblica avidamente, guardavo la televisione, la Raitre di Gugliemi. C’era Babele irrinunciabile. E dentro Babele l’appuntamento ogni volta con un ospite diverso che portava con sé un libro amato. Ci fu Lella Costa una volta e portò Cent’anni di solitudine. Non è che mi ricordi davvero che cosa disse. Ma fu piuttosto convincente, direi, coinvolgente, ne parlò con calore, con quella indefinibile passione, con quel sorpreso piacere che sentiamo quando un libro all’improvviso fra tanti ci riconosce.
Me lo procurai e lo amai. Posseduta dal circolo chiuso dei suoi nomi e della sua follia, mi convinsi a dare i nomi di famiglia ai figli che poi arrivarono, mi cercai intorno la mia Macondo. Era tutto diverso, tutto doveva accadere, prima del ’92.
Poi però arrivò la coda di maiale.

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