giovedì 3 dicembre 2009

foto di classe di mario desiati

La sorpresa con Foto di Classe è che mi aspettavo una lettura di autoconferma, assoluzione e consolazione, a causa della conterraneità e della medesima vicenda di cambio di città dopo i diciotto anni.
Invece ho fatto fatica a riconoscermi nella tristezza che pervade il libro. A parte alcune dolorosissime descrizioni di paesaggio postindustriale tarantino.
Ho provato a cercare di capire perché e ho contato la differenza di età fra me e Desiati.
In quella manciata di anni un cambio di generazione così significativo?
Ecco per esempio io, Desiati, non pensavo di essere una emigrata, né tanto meno una fuorisede.
Io semplicemente pensavo che vivere a Taranto o a Milano fosse una cosa molto contingente, un particolare irrilevante; io vivevo dove era il mio lavoro in quel momento e tutto mi sembrava reversibile, possibile e legittimo. Era più aperta la nostra società sul finire degli anni ottanta? Era meno spiccata la differenza fra nord e sud? Era più semplice trovare lavoro? Io mi sentivo sulla scia di un’onda lunga progressista che non poteva mutare direzione, mi sentivo cittadina europea, non mi sembrava che la mia dolorosa città fosse un cosmo ripiegato sui propri problemi, ma semplicemente e solo un quartiere come tanti di tutto un mondo e il mondo era a disposizione pronto a farsi abitare da me, e bastava girare l’angolo e potersi sedere di pieno diritto in qualunque posto.
Tu invece Desiati sembri ritagliare un contorno preciso al quale appartenere senza scampo, qui c’è Martina/Taranto: o resti o fuggi, e se fuggi risolverai parzialmente un problema di sopravvivenza ma resterai sospeso, monco, con un buco nel cuore.
Come è successo che la terra sotto i nostri piedi si è ridivisa in tanti pezzi slegati, che il dialetto e le abitudini di un piccolo posto sono ridiventate legaccio, identità imprescindibile?
Di sicuro le condizioni dell’occupazione si sono deteriorate e semplicemente hanno tolto opportunità alle persone. E questo mi sono sembrati i protagonisti di questa storia: persone senza opportunità, che raccolgono quello che trovano e se lo fanno bastare. Quindi persone alle quali è stato chiuso l’orizzonte, è stata tolta l’idea del divenire e della speranza: un’idea sciocca forse, della quale io ho fatto ancora in tempo a nutrirmi, per mere questioni di anno di nascita.
Desiati descrive persone tristi, scollegate, né di qua né di là.
Tranne una: l’autore, che non riesce a nascondere fra le righe la sottile soddisfazione di lavorare per la Mondadori e di fare lo scrittore, invece delle vitacce dei suoi ex compagni di scuola.
Perché questo a dire il vero ho pensato con fastidio alla fine del libro: se saltasse fuori un mio ex compagno di liceo e si mettesse in testa di farmi l’intervista per sbattermi in faccia con finta compassione una appartenenza che invece lui è ben contento di aver risolto, beh, io lo manderei fortemente a farsi friggere.

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