mercoledì 4 marzo 2009

Biblioteca

A curiosare nella biblioteca vicina al nuovo ufficio Elisa è andata senza Michele.
Sarebbe stato scontato, solo poche settimane fa, che in un posto così, la prima volta, si andasse insieme.
Il numero civico coincide con quello del museo, cioè con l’ingresso maestoso e malridotto di un palazzo antico; lo sguardo un po’ incerto di Elisa si incrocia con quello di turisti convinti, alcuni dei quali addirittura si fanno fotografare sotto la statua, al centro del primo scarno cortiletto.
Però lo scalone solenne che, alla fine di un ampio corridoio in penombra, ornato di statue grosse e insensate, conduce alla biblioteca, le strappa un sorriso di soddisfazione: fa scena percorrerne i gradini che procedono verso il pianerottolo, dove si può decidere perfino se proseguire dalla rampa destra o dalla rampa sinistra, per farsi accogliere da porte massicce di legno antico e vetro, verso un mondo profumato di carta vecchia.
Elisa si è fatta questa stupida idea che chi varchi l’ingresso di una biblioteca ammuffita sia una specie di eroe; che gli impiegati sepolti sotto la volta di affreschi ingrigiti debbano solo sorriderle e premiarla, e riversarle libri e sapere e gentilezza.
La donna invece la redarguisce in malo modo: “Prego!” vocetta acuta “signora! Le borse vanno lasciate negli armadietti al piano ammezzato”.
Sì, Elisa ha visto il bugigattolo inquietante sul lato sinistro dello scalone, salendo.
“Per iscriversi al prestito, mi scusi?”
“Carta d’identità, foto tessera, codice fiscale”.
Ributtata sul pianerottolo, Elisa si rammenta di una fotina persa in qualche piega del portafoglio, da qualche anno.
Lotta con la serratura della cassetta: bisogna infilare una moneta da un euro per poter girare la chiavetta, lascia la borsa, trattiene il portafoglio, il foglietto dove ha segnato senza un vero criterio i titoli da cercare, le chiavi dell’armadietto le cadono, che ne faccio del cellulare, perderò qualcosa...


Di Michele in realtà non sa nulla. Eppure si erano ripetuti all’infinito i numeri dei giorni: qui cominciano le tue ferie, poi tu torni ma io sono già partita, però se tu sei in ufficio provo a richiamarti dal cellulare, se posso; poi parti anche tu, il “silenzio-radio” quanto dura? Poco, dai. Rientriamo lo stesso giorno.
Quali libri porti?
Tu che cosa leggi?
Funziona così da lunghi mesi, tu leggi e me lo passi; io scovo un titolo e lo leggo, te ne parlo, te lo porti a casa, me lo porto a casa. Ce lo raccontiamo.
Alcuni che mi proponi sono una pizza. Mi sforzo ad arrivare fino in fondo perché sennò come facciamo a parlarne?
Quanti che ti ho passato io in realtà hai trovati tremendi e non me l’hai detto per non rischiare neanche un po’ di contraddirmi?


La guardiana del paradiso dei libri questa volta è meno bellicosa; forse l’ostinatezza del ripresentarsi in capo a pochi minuti, munita di foto è un primo lasciapassare.
Ma non è lei a concedere il tesserino.
Qui, nel primo antro disordinato, si compila solo una “carta d’ingresso”: dati anagrafici e numero di documento e con questo foglietto anni settanta si può marciare trionfali oltre la seconda porta.


Quando erano nello stesso edificio Elisa e Michele non avevano bisogno di sentirsi per telefono. Qualunque gomito di corridoio poteva servire a scambiarsi libri e articoli.
Si stampavano l’uno con l’altro gli editoriali più interessanti, della stessa idea politica, manco a dirlo.
A casa avevano fatto l’abbonamento alle stesse riviste e se ne segnalavano i pezzi. Nei momenti di maggiore noia si erano anche divertiti a risolvere i quiz e li avevano spediti firmati da una sigla che comprendesse i nomi di entrambi, come i giochini dei bambini delle medie.


Lo stanzone verso il quale l’hanno sospinta per l’emissione dell’agognata tessera a Elisa pare immenso; le vengono in mente le splendide biblioteche delle ville dei ricchi in costumi ottocenteschi: scaffali scuri e un po’ sberciati, fino al soffitto, con una sottile balconata che corre tutto intorno.
Al centro le immancabili file ordinate di cassettini dell’archivio: ognuno di essi contiene un pacco di cartoncini forati e infilati nella sbarretta, così da poterli scorrere con un solo dito.
Lo stesso sistema visto in biblioteche ovunque; perfino la calligrafia che ha vergato i più vecchi sembra la stessa. Elisa si chiede se c’è all’origine una regola comune all’intera penisola per la tenuta degli schedari, per la dimensione delle schedine, per lo spessore dell’inchiostro di titoli e autori e argomenti e codici.
Dietro il grosso bancone delle consegne le facce degli impiegati però non sono molto diverse da quelle dei dipendenti comunali addetti alle dimesse consuete biblioteche rionali: lenti, sospesi in pensieri lontani, uomini sui cinquanta finto-alternativi con i capelli lunghi, donne grasse che bevono thè dai bicchieri di plastica pucciandoci dentro tre rigorosamente tre biscotti, sandaletti, una quarantenne abbronzata post ferie che passerebbe inosservata per strada e qui sembra Miss Muretto.


Con Michele la biblioteca rionale era un posto consueto: una piccola sala luminosa al piano terra, circondata da un accenno di giardino, con pochi, miseri libri disposti su scaffali colorati e accessibili a chiunque semplicemente allungando la mano. Serviva anche a passarci qualche intervallo pranzo invernale. A Elisa la situazione sembrava imbarazzante, aveva sempre paura che qualcuno si lamentasse delle chiacchiere che facevano leggendo a turno, provando a rivedere gli esercizi di matematica di uno dei figli di Michele, o commentando l’ultima lezione di storia di uno dei figli di Elisa. La verità è che Elisa non si preoccupava che qualcuno facesse loro un ssssshhh seccato: era ossessionata dall’idea che alzassero l’indice a domandare ragione di quel loro stare insieme così spesso e nessuno dei due avrebbe saputo come rispondere. Eppure, si diceva, se lei stessa fosse stata osservatrice esterna delle scenette quotidiane che li vedevano protagonisti fra un ascensore e un angolo macchinetta caffè, non avrebbe avuto dubbi.


Alla fine la tesserina di cartone, con quella sua vecchia foto pinzata in un angolo, le viene consegnata ed Elisa chiede le spiegazioni per il ritiro: tutto sembra così austero e inefficiente, ma qualche solerte innovatore ha voluto su un lato del salone una fila di personal computer, con i titoli dell’archivio in rete e un solo clic per inviare l’ordine all’addetto nascosto chissà dove.
Fatto.
Si tratta solo di attendere quei venti, trenta minuti che un bradipo umano porti i due romanzi sul bancone della consegna; il tempo per guardarsi intorno, passeggiare fra gli schedari, chiedersi che cosa possa mai esserci nei libri grossi grossi e ingrigiti che tappezzano le pareti, i cui titoli fanno riferimento a cose pompose come proposte di legge, richieste di brevetto depositate, testimonianze misteriose di una vita civile organizzata in un modo a lei ignoto.


Questa attesa sarebbe trascorsa con Michele, forse, se lo avesse trovato in ufficio al rientro dalle ferie.
Quando il trasferimento di Elisa era stato ufficializzato, avevano ripetuto come sciocchi all’infinito il ritornello:
che problema c’è
qualche fermata di metropolitana
tutti i giorni
continuare a sentirci
i nostri libri
la nostra matematica
ho scoperto che vicino c’è una biblioteca grande
ci andiamo...
Elisa alla sera si sentiva esausta i primi giorni; non riusciva ad allontanarsi dalla scrivania senza l’angoscia di perdersi un possibile trillo, teneva incessantemente sotto controllo la posta interna, si lamentava con tutti, trovava squallido l’ufficio open space, ostile e pretenzioso il quartiere e preferiva essere lei a raggiungere Michele all’ora di pranzo, studiando il percorso più veloce nei sotterranei della metropolitana, contando il numero di carrozza più vicino all’uscita, per non perdere tempo, per starci nell’ora.
Non avevano combinato più nulla: sulle panchine del parchetto era difficile persino tenere in mano carte e libro, mancava la voglia, mancava il senso. Avevano preso il panino o il gelato. Elisa parlava, parlava e si lamentava della nuova sistemazione, del fallito tentativo di opporsi al trasferimento, del capetto di turno che l’aveva dichiarata insostituibile, facendole un danno mentre ufficialmente la lodava.
Un paio di volte era squillato il cellulare e non c’era giustificazione per dire dove fosse a quell’ora e, alla presenza di Michele, la situazione le era apparsa difficile, ambigua: non c’erano parole precise per capire chi erano e che cosa stavano facendo in realtà.
Le ferie quasi un sollievo fisico.
Quelle di Elisa erano le solite.
Michele aveva detto che sarebbe andato a zonzo in moto, lui e sua moglie da soli, i figli ormai grandi. Una cosa romantica, aveva pensato Elisa. Come ai vecchi tempi, era sfuggito inopportunamente a Michele.
Eppure del giorno del rientro che le aveva detto, Elisa era certa.
Come era certo che era ormai trascorsa quasi una settimana e quindi il collega che aveva risposto, invece di Michele, la data del rientro l’aveva detta giusta.
L’abbronzatura di Elisa si lavava via un pezzo per volta e non era già più tanto lucida.
Chissà forse una decisione improvvisa, un problema... speriamo di no; oppure semplicemente delle ferie bellissime che valeva la pena prolungare, semplicemente.



Elisa solleva lo sguardo verso il bancone dove sono stati posati due libri; l’impiegato con la faccia rotonda li rigira fra le mani e recita ad alta voce il suo cognome; “Prendo nota che sono integri, senza segni; controlli anche lei, prego”.
Sono nuovissimi, deve constatare Elisa, nessuno li ha mai letti.
Le piace questa sensazione di carta fresca, questo pacchetto compatto di libro mai aperto. Come se essere la prima a sfogliare un libro che dovrebbe essere là per tutti, a disposizione di centinaia di mani affamate, fosse un privilegio raro, un regalo.
Questa biblioteca è bellissima,
comoda,
importante,
ci verrò spesso,

davvero spesso.

Ormai.

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