giovedì 7 giugno 2007

Alice Munro e me

Quando ti invaghisci di una scrittura e del suo autore dovresti affrettarti a consigliarlo in giro. Perché questo non mi accade con Alice Munro? Il sentimento più forte quando la leggo invece è il senso di privilegio tutto mio per avere fra le mani quel libro in quel momento, quello e non l’ultimo giallo ammiccante; e poi il piacere di una conversazione privata fra donne. Non una conversazione fra donne che si lamentano delle solite cose, invocando una sorellanza. La voluttà che mi regala Alice Munro ha a che fare con l’idea di nascondersi sotto le coperte con mia sorella e raccontarsi delle cose nostre, quelle vere, quelle che noi stesse non avevamo capito troppo bene se non nel momento in cui abbiamo provato a nominarle o che avevamo capito troppo bene e avevamo paura a dirlo forte. Poi ci stiamo raccontando fatti e casi di altre e stiamo dando un’altra versione, spiazzante, un po’ perversa, stiamo mischiando le carte, stiamo riallacciando segreti del passato e normalità finta del presente. E mentre facciamo tutto questo contano il colore di un vestito, un episodio buffo ma quotidiano, una nuova pettinatura, un lavoro di casa. E le persone di cui parliamo non hanno nulla di speciale, hanno tratti del viso banali, corporature naturalmente brutte, esistenze vicine e scialbe. Ma mentre parliamo le arricchiamo di sensi oscuri, e arricchiamo di senso il nostro appartamento spoglio di ragazzine qualunque, abbiamo negli occhi il lampo di un gesto ribelle che sparigli la partita, abbiamo il coraggio di provare a guardare nel pozzo dei sentimenti cattivi, degli altri e nostri.
Ecco, forse, è talmente grande la capacità di questa lettura di passarmi sotto la pelle che ho quasi paura a consigliarla in giro, quasi per il pudore di non voler pubblicizzare un pezzo della mia verità personale, invece che un libro.

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