giovedì 17 maggio 2007

A casa nostra di Francesca Comencini: un film intensamente femminista.

Celeste, Bianca, Lucilla... Rita, ma non si capisce bene, mi sembra che forse il suo ragazzo Matteo la chiami Vita da lontano, ma è solo un mio lapsus d’udito. Nomi luminosi.
Ma la metropoli non è affatto luminosa. Domina il grigio.
Non l’ho riconosciuta Milano, perché io a Milano ci vivo e nel film non ci sono rumori, non ci sono file scomposte e impazzite di macchine, non c’è il cemento che vive di vita propria e ci si arrampica addosso strisciando dai mille cantieri di parcheggi sotterranei e appartamenti sventrati ad ogni nuovo inquilino.
Ci sono invece dei silenziosissimi panorami in penombra, delle torri illuminate a metà, delle balconate di case di periferia sotto tramonti disperati.
Ma non credo che fosse necessaria Milano; serviva una metropoli dove il denaro circola, determina, corrompe, compra consensi e corpi.
Forse è vero quello che ho letto qua e là nelle recensioni: troppa carne al fuoco lasciata cadere un po’ di corsa e quando finisce il film resti sospesa, ti aspettavi un finale più spesso, qualcosa di più compiuto. Ma forse invece questa è una scelta precisa di stile che ha peraltro illustri riferimenti, per esempio Altman.
Se un difetto si vuole proprio sottolineare (ma non è neanche così necessario farlo) è il facile manicheismo: buoni troppo dolci e malinconici, cattivi veramente bastardi anche se ugualmente infelici. Tendenzialmente dalla parte dei cattivi gli uomini che bevono e mangiano parlando di calcio e si scambiano complimenti per chi è più bravo con i soldi e si offrono prostitute in regalo, tendenzialmente dalla parte dei buoni le donne che resistono, desiderano la maternità, che non si rassegnano all’infertilità.
La mia visione tutta di parte del film ha apprezzato, ma velocemente, gli aspetti legati alla disonestà e alla corruzione, allo squallore del mondo delle modelle, al disastro della televisione-verità, al disagio del commesso di supermercato che spera in una vita migliore (mentre la moglie/infermiera si fa il mazzo in ospedale e non ne condivide le aspirazioni materialiste), alle parole macchiettistiche (ma praticamente ormai linguaggio di tutti i giorni) del politico che inaugura i giardinetti e altri cento risvolti sociali attualissimi.
La mia visione tutta di parte si è lasciata molto suggestionare da questa centralità della figura femminile capace di coltivare ancora una speranza, dallo scambio di testimone fra la prostituta in coma e il suo neonato, dalla decisione della protagonista di troncare alla fine il rapporto sterile con Matteo, incapace di responsabilità, incapace di slancio.
Ci sono diverse scene di rapporti sessuali; diverse scene e scene molto diverse fra loro. Quella in cui il banchiere Zingaretti lascia la fragile modella Chiatti, dopo essersela maneggiata a distanza come un pupazzetto, su un carrellino al fondo di un grigio corridoio in un interno chic e soffocante; quelle immaginate appena subite nel degrado e nella totale mancanza di umanità dalla prostituta dallo sguardo meraviglioso; quelle tra la modella e il commesso rimorchiato una sera nella ricerca reciproca di una rivalsa alle proprie aspettative deluse; quelle della protagonista Golino aggrappata a un amore al quale crede solo lei, mentre lui letteralmente si sottrae all’abbraccio che cerca la vita.
Questo ho visto soprattutto e per una volta, anche la scena del parto vero, non mi è sembrata fuori posto.

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