martedì 22 novembre 2011

Rosso Floyd, Michele Mari

Alla fine mi sono decisa a procurarmi un libro il cui titolo mi era apparso diverse volte come consiglio di lettura fra un sito e l’altro (quei siti internet che frequento nelle mezzore buche, con l’idea patetica e stanca di trovarci un’ancora di salvezza alla noia di queste giornate di lavoro insensate).
Non so perché abbia tardato tanto, poco attratta dal titolo: ma come è possibile? Dico davvero, come è possibile che non abbia capito dal titolo di che cosa parlasse? E’ che non avevo mai letto una riga di più nelle segnalazioni. “Rosso Floyd” mi evocava invece, per inconsapevoli e fallaci associazioni mentali stratificatesi in anni di frequentazioni di narrativa italiana contemporanea, un contenuto più o meno così: un odioso e maschilissimo io narrante che racconta di se stesso alle prese con improbabili donne belle e stronze (al presente) e una mitica e fallocentrica adolescenza con la colonna sonora dei Pink Floyd (al passato).
Invece questo libro è un tentativo irrisolto di raccontare i Pink Floyd come in un processo, chiamando a testimoniare protagonisti, musicisti, amici, familiari, personaggi delle loro canzoni.
Testimonianze frammentarie, sfoghi, lamenti, sogni, invettive, bugie, desideri, rimorsi, illusioni.
Una rappresentazione pirandelliana affascinante, misteriosa, spesso inquietante, a servizio di una leggenda.
Così mi sono lasciata invadere e ho trascorso ore a riascoltare i brani citati che già conoscevo superficialmente come hit celebrate dalle moltitudini, e poi andare a scovare su You tube quelli che non conoscevo, tirarsi giù i testi, cercare il dettaglio: una specie di viaggio; sono stata imbambolata per giorni con quella musica in testa complessa, evocativa e tristissima.
Mi chiedo quanto sia stato l’effetto della superiorità artistica dei Pink Floyd e quanto la capacità narrativa di Michele Mari che con questo libro originale e appassionato ha confezionato una piccola trappola emotiva.

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