giovedì 17 gennaio 2008

La strada

Parlare meno che benissimo di Cormac McCarthy mi fa un po’ impressione. E’ veramente un genio, ma questo era evidente in tutti gli altri suoi romanzi.
Però...
Una volta assuefatti allo stile essenziale e potente proprio perché scarno, al male, all’orrore assurto a livello di mito, questo La strada che cosa è? La vicenda è inesistente, il cammino sempre uguale. Metafora della vita? Piuttosto banale però.
Quel che resterebbe dopo una catastrofe nucleare? Hanno già provato a descriverlo in moltissimi, anche con un pochino più di inventiva.
Ho letto in giro sui giornali un po’ di autorevoli recensioni: il mito di Prometeo, l’idea di affidare a un bambino la tenue, inutile speranza... e quindi? Simboli fritti e rifritti.
Anche il neonato sul fuoco, o qualcosa del genere, mi sembra se lo fosse già giocato in qualche altro romanzo.
Mi chiedo se McCarthy non si sia solo tolto lo sfizio di andarsi a riprendere un po’ di archetipi raccontandoceli con la sua prosa perfetta, davanti alla quale mi inchino.
Eppure... dopo personaggi aspri e selvaggi, scorribande e cavalcate, omicidi e efferatezze, questa volta la situazione narrata si è insinuata nel mio inconscio; forse il trucco del romanzo è proprio un lavoro di sottrazione totale; resta la sopravvivenza nuda, quella dell'animale che cerca da mangiare e protegge la prole; insomma ho riconosciuto un mio sogno ricorrente di qualche anno fa, quando il sonno era leggero, pronto a riconoscere vagiti e richiami e le immagini si confondevano fra pericoli di ogni genere e costrizioni di viaggi avventurosi e malconci su sentieri selvaggi con l’unica preoccupazione di infilarsi in tasca qualche pezzo di pane secco per i bambini portati in braccio: questo sogna una giovane madre sbattuta di fronte alla realtà animalesca della vita, sogna La strada.
E’ per questo che pur riconoscendone l’indubbio valore nello stile, penso che questo libro aggiunge troppo poco per poter essere un capolavoro?

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