mercoledì 17 ottobre 2007

Il rumore sordo della battaglia, prima versione

Non bisognerebbe mai leggere un libro avendo presente il volto dell’autore; il suo modo di parlare; la luce che ha negli occhi; le sue idee politiche.
Arrivare a leggere Scurati perché mi sono incuriosita a causa di alcune sue apparizioni in televisione, delle sue dichiarazioni al Campiello, delle sue affermazioni di manifesto, delle sue prese di posizione sulle pagine dei quotidiani mi rende più complicata la riflessione. E’ come se ogni pagina mi rimandasse a un rapporto personale, a una dichiarazione di esistenza dell’autore come individuo in carne ed ossa. E mi sento condizionata.
Doveva avermi colpito proprio tanto visto che mi sono decisa ad affrontare un libro piuttosto spesso, visivamente poco invitante (pagine solide, con pochi dialoghi, pochi punto e a capo), con sulla copertina una immagine tozza e marrone che da lontano sembra uno scarafaggio schiacciato e si rivela poi essere un guerriero in armatura steso al suolo. E come ho fatto a non farmi scoraggiare dal titolo che, sia pure così musicale, dolce e poetico, suggerisce lettura di guerra, lettura di noiose formazioni in campo, lettura di strategie ed eventi piccoli ma sanguinosi.
Ma si sa che questo è il trucco, la molla che fa scattare la curiosità: una esplorazione di quanto a prima vista appare lontanissimo dal mio immaginario femminile e materno, con la garanzia comunque di poter chiudere il libro e seppellirlo nello scaffale, quando capissi che abbiamo poco da spartire.
E infatti è guerra, non come sfondo cruento a più lievi vicende, ma come protagonista assoluto. Peggio: religione della guerra. Fino a un manipolo di pazzi scatenati che crede che le armi da fuoco abbiano tradito le virtù eroiche, allontanando la storia dal suo senso più alto e si abbandona a una violenza demoniaca.
C’è un livello di lettura che mi sfugge ed è la appassionata erudizione che si intuisce su argomenti che non conosco; eppure questa erudizione mi blandisce, con il suo linguaggio raffinato ed elegante, una eleganza formale che non viene meno anche quando modella una materia che sguazza dal sangue agli intestini spappolati e ai liquidi corporei più volgari.
C’è un altro livello di lettura che mi diverte: il personaggio del professore contemporaneo con la sua mediocre follia; l’ingenuità del cavaliere dei primi capitoli perso dietro le sue altisonanti costruzioni mentali che sfiorano l’idiozia; le scene di sesso medioevali e contemporanee, distribuite qua e là, delle quali a volte non capisci bene la coerenza con il filo narrativo e che spesso hanno un sapore un po’ grottesco e fastidiosamente fallocentrico.
Ma mi sento su tutto affascinata da una fremente sincerità di rappresentazione globale, di ricerca di rapporto profondo fra la pagina scritta e il destino umano. Credo che ulteriori critiche, anche negative, che ho letto in rete e che possono essere parzialmente condivisibili, non possano prescindere da questa linea di demarcazione fra ciò che è scrittura fine a se stessa e ciò che tenta di farsi vita e credo che questo romanzo si collochi decisamente da questa seconda parte del guado.
Ho letto e riletto gli ultimi due capitoli e ho pensato che purtroppo, a tendere bene l’orecchio, c’è davvero ed è facilmente riconoscibile ovunque, anche in questo angolo kafkiano d’ufficio, quel sottofondo, il rumore sordo della battaglia.

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