venerdì 12 ottobre 2007

commessi di tutto il mondo...

Il negozio è più che un negozio; sono grata a mio figlio solo perché ho avuto il privilegio di esserne cliente. Non importa che ci lasci quasi cinquanta euro per tre fascicoletti di una dozzina di pagine l’uno, stampati su carta ingiallita. Non importa che gli autori di ciò che vi è scritto sono morti da secoli e quindi ciò che vi è scritto dovrebbe essere patrimonio dell’umanità. Vuoi mettere il legno antico, scuro e lucido che riveste l’intera bottega? Vuoi mettere l’angolo di Milano che accoglie quest’universo d’altri tempi? Vuoi mettere l’allineamento elegante di pianoforti d’ogni tipo che copre mezzo salone? E le vetrine gigantesche sulle pareti stipate di trombe, violini, clarinetti? Vuoi mettere entrare con in mano un appunto autografo di un maestro con l’elenco di incomprensibili mirabilia pentagrammate?
E, soprattutto, vuoi mettere la magia di questo commesso che prenderà in mano il tuo dotto elenco e spalancherà scaffali malmessi, tirandone fuori raccoglitori anni cinquanta dai cordini consunti, contrassegnati da scritte malferme e nomi di compositori, di musicisti antichi, di manuali anni quaranta così fondamentali da essere ancora e per sempre i Manuali? A meno che, fra te e il commesso esperto, non si frapponga lei, corvina, magra e acida: “Faccio io, lei vada a smontarmi quella roba, che non posso neanche entrare nel mio ufficio...” Gli strappa di mano il mio biglietto, la padrona. Chi altri può essere? La padrona di un negozio antico. L’avrà ereditato, l’avrà comprato, ne avrà sposato l’erede? Di sicuro è una questione di soldi se il mio omino gentile ed esperto scompare a capo chino dietro un lugubre scaffale e per me hanno inizio venti, dico venti, lunghissimi minuti di attesa davanti al bancone; la “signora” tira su con il naso, risistema ogni momento la chioma e si perde, lenta, incerta, nell’esame di quei raccoglitori alla ricerca di ciò che mi serve. Ho perfino il dubbio che abbia qualche difficoltà con l’alfabeto, o con la vista, o definitivamente con il cervello: tira giù raccoglitori, allenta i nodini, lentamente esamina i fascicoli che ricadono sull’enorme banco; scuote la testa, rimette insieme la pila, riallaccia i cordini, riposiziona a fatica il raccoglitore, cerca, guarda, tira giù, ricomincia. Venti minuti in cui mi sembra che generazioni di lavoratori dipendenti, ombre da “quarto stato” mi si accostino invocando vendetta... Adesso vado, penso, adesso le strappo dalle mani il mio elenco, le dico secca che non ho tempo da perdere, che tornerò quando sia disponibilie il commesso che lei ha appena trattato da servo della gleba. Venti minuti di urgenza di lotta di classe che mi borbotta nello stomaco, ma ho paura di far peggio per quell’uomo che ormai è il mio eroe del popolo.
Venti minuti.
Poi lui ricompare, silenzioso. Lo chiama. Sbaglio o la vocetta si è fatta meno imperiosa? “Guarda un po’ tu” gli ha detto. Il suo modo di chiedere aiuto?
Il mio commesso ci ha messo due minuti.
Due minuti e tanta cortesia.
Commessi di tutto il mondo... unitevi.

Nessun commento: