martedì 31 agosto 2010

Che la festa cominci, Ammaniti

A che serve cercare di fare letteratura alta, sembra dire Ammaniti fra le righe, quando l’editoria è infestata da odiosi Ciba, patetici Saporelli e qualche inutile trombone? Non ci resta che ridere. Ed è molto peggio che piangere. Dopo l’ultima risata forse la catastrofe definitiva.
Ogni mattina apro le pagine web dei maggiori quotidiani e cerco il “titolone”, la “notizia” finalmente: quella che metterà in moto il processo virtuoso e inarrestabile, fermerà la follia, il degrado, il pantano; le cose ricominceranno a girare per il verso giusto. Tornerà il senso civico, l’etica, il rispetto della cosa pubblica e di se stessi; torneranno, per dirla con Ammaniti, le “figure di merda”, oggi diventate al contrario un momento di visibilità cialtrona e simpatica, quindi di gloria.
Non la trovo mai questa notizia. Ma se arrivasse un avvenire migliore, e, fra qualche tempo, storici e letterati volessero cercare cronache significative dei nostri poveri vergognosi giorni, non mi stupirei se questo romanzo apparentemente assai distante dall’autore di Io non ho paura, svaccato, divertito, surreale, eccessivo, autoreferenziale fino all’antipatia diventasse perfino documento storico.
Le cose che va raccontando (cercando di suggerire probabilmente che cosa ti può venire in mente sotto l’effetto di qualche sostanza stupefacente) sono sospese fra l’irreale e l’ahimé, purtroppo, iperreale, fra la satira di costume e la confessione autoironica, la favola moralistica e la sguaitezza quotidiana, il ritratto sociale e il divertimento del “bestiario” contemporaneo.
Che la festa cominci è una specie di Satyricon postmodernista, imbevuto di echi di Dagospia e rifiuti televisivi, splatter troppo comico per fare schifo e similhorror malinconico.
Ammaniti ha divorato Douglas Adams? Fatta la differenza, dove là avevamo fantascienza comica e qui gossip da tardo impero, il ritmo, l’inventiva, il dialogo, l’affastellarsi di scenette vivaci ce lo ricordano molto, con nostro grande godimento.
Il tutto alla fine è abbastanza perdibile, anche se molto molto divertente, ma questo non deve far passare inosservata la maestria narrativa: il tono è senza cedimenti, anche quando l’irrealtà diventa spudorato divertimento fine a se stesso o finalizzato a togliersi qualche sassolino dalle scarpe.

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