La chiamo per telefono due o anche tre volte al giorno e mi sembra poco. Smisuratamente poco in relazione al numero incalcolabile di giorni che ho frapposto tra lei e me, andando a vivere lontano. Tento di arginare il senso di colpa raccontandomi che queste conversazioni telefoniche hanno una loro importanza, forniscono a lei una dimensione di sfogo senza la faccia dell’interlocutore, un luogo di produzione di parole che le consentono articolazioni di nuovi pensieri: questo non le è consentito nelle conversazioni con i figli che vede tutti i giorni e, paradossalmente, non le riesce neanche con la me stessa che va a trovarla per le vacanze estive.
Il patto silente è che sia sempre io a chiamarla; la scusa è che la mia tariffa conviene di più o che semplicemente io sono più ricca di lei, però la verità è che aleggia fra noi l’ingiusta presunzione che il mio tempo sia più prezioso e che tocchi a me decidere i momenti e che il suo di tempo invece sia una distesa paludosa nella quale pescare alla bisogna.
Finisce così che, se mi chiama inaspettatamente alla sera, mi procura un lieve moto di dispetto perchè turba l’incastonamento imperfetto che tento di comporre fra le piccole e insopportabili “cose da fare” in quelle ore che separano il rientro dal lavoro dal sonno notturno, ore nelle quali si stipa stretta stretta tutta la vita che vorrei e che alla fine si comprime in una illusione di rinvii, umiliati dal ferro da stiro, dal sacchetto sempre pieno della spazzatura, dal lavandino della cucina, perenne orizzonte bianco e piccolo piccolo del mio sguardo opaco.
Presumo che lei si accorga che mentre ci parliamo io mi muovo, sposto oggetti, produco suoni di stoviglie e acqua che scorre, strozzo la voce nell’ennesimo piegamento che raccoglie un calzino o una ciabatta; non la contraddico mai, sottolineo appresso a lei tutti i difetti di tutti i familiari e i vicini e i conoscenti, chiedo particolari di ricette di cui non mi importa nulla, commento e mi accaloro per l’ultimo programma televisivo che lei ha guardato seduta in cucina ed io ho sbirciato un momento e del quale ho letto su qualche inutile pagina di internet per tenermi aggiornata e darle qualche risposta all’altezza.
E’ successo che mio fratello l’ha fatta sedere davanti al suo computer e ci ha messo in comunicazione visiva.
Lei era ingessata ed io non avevo argomenti.
Ogni tanto fra le nostre due immagini sgranate calava un silenzio doloroso.
Le due figure accostate sullo schermo, la mia e la sua, tagliate sullo stesso livello del tronco, ugualmente dimesse da domenica pomeriggio, mi hanno obbligato a vedere me stessa in movimento lungo la scia dei suoi movimenti, a riconoscere i lineamenti comuni, le stesse spalle, il taglio dei capelli e la piega della bocca imbarazzata nello stesso ghigno di inadeguatezza e superbia inutile. Abbiamo riconosciuto l’una la voglia di chiudere dell’altra.
Esiste il territorio dell’incontro fisico con la sua ritualità e i suoi codici di ipocrisia e difesa. Esiste il territorio libero della telefonata senza volto.
Per questa videotelefonata invece mi sento senza strumenti.
Finalmente lei ha trovato la forza di chiudere.
E mi ha richiamato per telefono mezz’ora dopo, sollevata.
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