Michael Clayton ha una trama già vista: un po’ Erin Brockovich, un po’ Il socio. Lo senti, nonostante lo sforzo del regista che mescola ad arte la sequenza temporale, presentando nei primi minuti del film gli avvenimenti finali e obbligandoti quindi a una certa concentrazione per mettere a posto i tasselli; alla fine i fatti sono ancora più lineari di quello che una spettatrice media può attendersi: insomma io avrei detto che era il suo stesso capo a volersi liberare di Clayton e invece il mandante era quello più scontato, e poi il colloquio finale fra Clooney e Swinton puzzava di trappola lontano un miglio.
Ma forse, a parte l’innegabile principio etico e civile, la trama contava di meno e doveva esserci in primo piano l’ambiguità del personaggio principale, la posizione borderline dell’avvocato “spazzino”, il bisogno di soldi a tacitare la coscienza.
Clooney giganteggia e, mi sembra, non sorride mai per tutto il film.
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