Le attenuanti ci sono: era il famigerato giorno di Natale, ero ospite forzato, non avevo di meglio da fare, ho saltato un po’.
Risultato: pippone (condivisibile totalmente nella sostanza) contro i ricchi e i vip affidato a una struttura di romanzo similgiallo, senza catarsi finale, con divagazioni su costume e società, pillole spiritualistiche e curiosità giornalistiche sul mondo della moda e del cinema; deboluccio, davvero deboluccio dal punto di vista letterario. Peccato, perché lo sguardo sulla “Superclasse” è senza pietà e forse sarebbe il caso di farci qualche riflessione. Se ci fossero delle aree di sovrapposizione fra i lettori delle riviste di gossip e i lettori di Coelho, magari questo libro potrebbe fare un ottimo servizio all’umanità.
... questo libro è ancora più grande. E quando lo avrò finito ne comincerò un altro e quello sarà ancora più grande, e poi un altro ancora, e allora la mia casa si allargherà fino a diventare una magione, piena di stanze dove loro non potranno trovarmi... (Nick Hornby, How to be good)
martedì 29 dicembre 2009
mercoledì 23 dicembre 2009
correre a natale
quattro chilometri e cento
trenta minuti
guance arrossatissime
ritrovate ciabatte perdute
... ma vieni!
trenta minuti
guance arrossatissime
ritrovate ciabatte perdute
... ma vieni!
natale 2009
Infastidente aria di straordinarietà ingiustificata,
perché non lavoriamo a rendere il più bello possibile il quotidiano
invece di caricare di significati mitici singoli eventi che eventi non sono?
Non voglio la responsabilità di rendere immemorabili i pasti e i pacchetti al solo scopo di fornire ai miei figli qualcosa da deridere.
I pandori sono velenosi e mi procurano acidità di stomaco dopo un solo pezzettino.
Puntualmente qualcuno pubblica un album con i canti di natale; puntualmente qualcuno lo compra commosso.
Noi che abbiamo deciso di vivere altrove paghiamo piccoli tranci di sensi di colpa per non essere a quella tavola dove ci aspetta invano una madre.
Ci siederemo a tavole straniere, ci ingozzeremo, progettando cambi radicali da domani.
perché non lavoriamo a rendere il più bello possibile il quotidiano
invece di caricare di significati mitici singoli eventi che eventi non sono?
Non voglio la responsabilità di rendere immemorabili i pasti e i pacchetti al solo scopo di fornire ai miei figli qualcosa da deridere.
I pandori sono velenosi e mi procurano acidità di stomaco dopo un solo pezzettino.
Puntualmente qualcuno pubblica un album con i canti di natale; puntualmente qualcuno lo compra commosso.
Noi che abbiamo deciso di vivere altrove paghiamo piccoli tranci di sensi di colpa per non essere a quella tavola dove ci aspetta invano una madre.
Ci siederemo a tavole straniere, ci ingozzeremo, progettando cambi radicali da domani.
martedì 22 dicembre 2009
l'amore e gli stracci del tempo
so che è politically correct apprezzare un racconto di guerra e dolore, una storia di amore interrotto, di morte, di divisioni forzate eccetera; se poi la guerra non è in un libro di storia, ma è di pochi anni fa, dietro una curva di autostrada, ancora maggiore è il rispetto
però... un po' confuso il racconto, piani sparpagliati dove perdevo nomi e posti, altalena fra lirismo spinto e cronaca piccola... con un po' di fatica arrivata a metà, poi mollato
però... un po' confuso il racconto, piani sparpagliati dove perdevo nomi e posti, altalena fra lirismo spinto e cronaca piccola... con un po' di fatica arrivata a metà, poi mollato
lunedì 21 dicembre 2009
l'uomo del treno di Leconte
Idea accattivante (professore pantofolaio e delinquente senza pace che si incontrano e si scambiano pezzi di vita per caso); resa della sceneggiatura troppo prevedibile; simbolismi faciloni e finale eccessivo.
Però una così bella aria da film francese che detta in questo modo non si spiega, è quasi una idiozia e allora adesso mi metto alla ricerca delle parole giuste per capire che cosa sia: una specie di aderenza alla realtà (né macchietta né colossal insomma) e una forma di rispetto per i paesaggi e gli ambienti e le quotidianità che fa sì che, anche nel film più drammatico, ci sia un certo gustarsi le cose più belle della vita. Sarà questo?
Però una così bella aria da film francese che detta in questo modo non si spiega, è quasi una idiozia e allora adesso mi metto alla ricerca delle parole giuste per capire che cosa sia: una specie di aderenza alla realtà (né macchietta né colossal insomma) e una forma di rispetto per i paesaggi e gli ambienti e le quotidianità che fa sì che, anche nel film più drammatico, ci sia un certo gustarsi le cose più belle della vita. Sarà questo?
giovedì 17 dicembre 2009
matematici nel sole di stelzer
Un romanzo che parla di amore coniugale.
E’ strano, perché l’amore nei romanzi deve contenere la difficoltà del tradimento, dell’impossibilità o del nascere incerto. I romanzi finiscono dove incomincia il matrimonio: la vita di tutti i giorni in due, la costruzione faticosa di una motivazione al giorno è noiosa, malinconica, comunque tanto poco affascinante quanto troppo vera.
Così si apprezza questo diario minimo, questo lento procedere di piccole tenerezze e bizzarre complicità in vista di un evento tragico preannunciato che illumina la quotidianità, dandole valore di evento raro in quanto già morente.
Chi non lo vorrebbe un matrimonio così? Chi non invidia la magia che pervade le lentissime giornate dei due protagonisti? E’ tutto così dolce e triste. Forse però un po’ troppo irreale per lasciare il segno.
Molto belle le poesie sparse qua e là.
E’ strano, perché l’amore nei romanzi deve contenere la difficoltà del tradimento, dell’impossibilità o del nascere incerto. I romanzi finiscono dove incomincia il matrimonio: la vita di tutti i giorni in due, la costruzione faticosa di una motivazione al giorno è noiosa, malinconica, comunque tanto poco affascinante quanto troppo vera.
Così si apprezza questo diario minimo, questo lento procedere di piccole tenerezze e bizzarre complicità in vista di un evento tragico preannunciato che illumina la quotidianità, dandole valore di evento raro in quanto già morente.
Chi non lo vorrebbe un matrimonio così? Chi non invidia la magia che pervade le lentissime giornate dei due protagonisti? E’ tutto così dolce e triste. Forse però un po’ troppo irreale per lasciare il segno.
Molto belle le poesie sparse qua e là.
mercoledì 9 dicembre 2009
Il tempo materiale di Giorgio Vasta
Quanta sofferenza e vergogna possono avere prodotto questa perla di libro?
Quanti lo hanno letto, quanti ancora lo leggeranno? Quanto è inutile una letteratura così alta?
Non riesco a pensare al dolore e alla fatica che si sono concentrati in pagine di meraviglia per essere poi letti da pochi addetti ai lavori. Che spreco di umanità!
Prendi la terminologia tipica del fenomeno del terrorismo rosso anni settanta e mettilo in bocca a dei ragazzini di scuola media: l’effetto straniante è forte, fortissimo.
Il surreale che ne deriva produce vergogna, perché condannare a posteriori è facile, riconoscere l’immedesimazione colpevole nelle parole che erano alla sorgente, che divennero linguaggio comune è di pochissimi.
Le parole diventano la realtà terribile e la salvezza una bambina muta.
Se poi l’impianto di stile che regge tutto questo dolore è di rara maestria, se la sinestesia dilania, se la simbologia sembra appartenerti... la lettura può diventare insostenibile.
Quanti lo hanno letto, quanti ancora lo leggeranno? Quanto è inutile una letteratura così alta?
Non riesco a pensare al dolore e alla fatica che si sono concentrati in pagine di meraviglia per essere poi letti da pochi addetti ai lavori. Che spreco di umanità!
Prendi la terminologia tipica del fenomeno del terrorismo rosso anni settanta e mettilo in bocca a dei ragazzini di scuola media: l’effetto straniante è forte, fortissimo.
Il surreale che ne deriva produce vergogna, perché condannare a posteriori è facile, riconoscere l’immedesimazione colpevole nelle parole che erano alla sorgente, che divennero linguaggio comune è di pochissimi.
Le parole diventano la realtà terribile e la salvezza una bambina muta.
Se poi l’impianto di stile che regge tutto questo dolore è di rara maestria, se la sinestesia dilania, se la simbologia sembra appartenerti... la lettura può diventare insostenibile.
giovedì 3 dicembre 2009
foto di classe di mario desiati
La sorpresa con Foto di Classe è che mi aspettavo una lettura di autoconferma, assoluzione e consolazione, a causa della conterraneità e della medesima vicenda di cambio di città dopo i diciotto anni.
Invece ho fatto fatica a riconoscermi nella tristezza che pervade il libro. A parte alcune dolorosissime descrizioni di paesaggio postindustriale tarantino.
Ho provato a cercare di capire perché e ho contato la differenza di età fra me e Desiati.
In quella manciata di anni un cambio di generazione così significativo?
Ecco per esempio io, Desiati, non pensavo di essere una emigrata, né tanto meno una fuorisede.
Io semplicemente pensavo che vivere a Taranto o a Milano fosse una cosa molto contingente, un particolare irrilevante; io vivevo dove era il mio lavoro in quel momento e tutto mi sembrava reversibile, possibile e legittimo. Era più aperta la nostra società sul finire degli anni ottanta? Era meno spiccata la differenza fra nord e sud? Era più semplice trovare lavoro? Io mi sentivo sulla scia di un’onda lunga progressista che non poteva mutare direzione, mi sentivo cittadina europea, non mi sembrava che la mia dolorosa città fosse un cosmo ripiegato sui propri problemi, ma semplicemente e solo un quartiere come tanti di tutto un mondo e il mondo era a disposizione pronto a farsi abitare da me, e bastava girare l’angolo e potersi sedere di pieno diritto in qualunque posto.
Tu invece Desiati sembri ritagliare un contorno preciso al quale appartenere senza scampo, qui c’è Martina/Taranto: o resti o fuggi, e se fuggi risolverai parzialmente un problema di sopravvivenza ma resterai sospeso, monco, con un buco nel cuore.
Come è successo che la terra sotto i nostri piedi si è ridivisa in tanti pezzi slegati, che il dialetto e le abitudini di un piccolo posto sono ridiventate legaccio, identità imprescindibile?
Di sicuro le condizioni dell’occupazione si sono deteriorate e semplicemente hanno tolto opportunità alle persone. E questo mi sono sembrati i protagonisti di questa storia: persone senza opportunità, che raccolgono quello che trovano e se lo fanno bastare. Quindi persone alle quali è stato chiuso l’orizzonte, è stata tolta l’idea del divenire e della speranza: un’idea sciocca forse, della quale io ho fatto ancora in tempo a nutrirmi, per mere questioni di anno di nascita.
Desiati descrive persone tristi, scollegate, né di qua né di là.
Tranne una: l’autore, che non riesce a nascondere fra le righe la sottile soddisfazione di lavorare per la Mondadori e di fare lo scrittore, invece delle vitacce dei suoi ex compagni di scuola.
Perché questo a dire il vero ho pensato con fastidio alla fine del libro: se saltasse fuori un mio ex compagno di liceo e si mettesse in testa di farmi l’intervista per sbattermi in faccia con finta compassione una appartenenza che invece lui è ben contento di aver risolto, beh, io lo manderei fortemente a farsi friggere.
Invece ho fatto fatica a riconoscermi nella tristezza che pervade il libro. A parte alcune dolorosissime descrizioni di paesaggio postindustriale tarantino.
Ho provato a cercare di capire perché e ho contato la differenza di età fra me e Desiati.
In quella manciata di anni un cambio di generazione così significativo?
Ecco per esempio io, Desiati, non pensavo di essere una emigrata, né tanto meno una fuorisede.
Io semplicemente pensavo che vivere a Taranto o a Milano fosse una cosa molto contingente, un particolare irrilevante; io vivevo dove era il mio lavoro in quel momento e tutto mi sembrava reversibile, possibile e legittimo. Era più aperta la nostra società sul finire degli anni ottanta? Era meno spiccata la differenza fra nord e sud? Era più semplice trovare lavoro? Io mi sentivo sulla scia di un’onda lunga progressista che non poteva mutare direzione, mi sentivo cittadina europea, non mi sembrava che la mia dolorosa città fosse un cosmo ripiegato sui propri problemi, ma semplicemente e solo un quartiere come tanti di tutto un mondo e il mondo era a disposizione pronto a farsi abitare da me, e bastava girare l’angolo e potersi sedere di pieno diritto in qualunque posto.
Tu invece Desiati sembri ritagliare un contorno preciso al quale appartenere senza scampo, qui c’è Martina/Taranto: o resti o fuggi, e se fuggi risolverai parzialmente un problema di sopravvivenza ma resterai sospeso, monco, con un buco nel cuore.
Come è successo che la terra sotto i nostri piedi si è ridivisa in tanti pezzi slegati, che il dialetto e le abitudini di un piccolo posto sono ridiventate legaccio, identità imprescindibile?
Di sicuro le condizioni dell’occupazione si sono deteriorate e semplicemente hanno tolto opportunità alle persone. E questo mi sono sembrati i protagonisti di questa storia: persone senza opportunità, che raccolgono quello che trovano e se lo fanno bastare. Quindi persone alle quali è stato chiuso l’orizzonte, è stata tolta l’idea del divenire e della speranza: un’idea sciocca forse, della quale io ho fatto ancora in tempo a nutrirmi, per mere questioni di anno di nascita.
Desiati descrive persone tristi, scollegate, né di qua né di là.
Tranne una: l’autore, che non riesce a nascondere fra le righe la sottile soddisfazione di lavorare per la Mondadori e di fare lo scrittore, invece delle vitacce dei suoi ex compagni di scuola.
Perché questo a dire il vero ho pensato con fastidio alla fine del libro: se saltasse fuori un mio ex compagno di liceo e si mettesse in testa di farmi l’intervista per sbattermi in faccia con finta compassione una appartenenza che invece lui è ben contento di aver risolto, beh, io lo manderei fortemente a farsi friggere.
lunedì 30 novembre 2009
mercoledì 25 novembre 2009
prima che sia troppo tardi
Io penso oggi che le persone abbiano diritto a fare due cose.
Sono due cose che, per quale è la nostra natura, noi POSSIAMO fare.
Sono due cose che, se lasciati liberi, a uno stadio istintivo, faremmo senz’altro, due cose che da bambini facciamo.
Solo che siamo educati a non farlo: perché non c’è spazio, perché non servono, perché sono godimenti semplici e gratuiti. Soprattutto perché imbarazzano. Mi piacerebbe scoprire in quale punto della storia dell’uomo sono diventate due cose socialmente imbarazzanti se fatte in libertà. Mi piacerebbe scoprire quando è successo che sono diventate due cose che si possono fare solo in ambiti specifici e con regole specifiche. Quando sono diventate appannaggio di alcuni ristrettissimi gruppi che riescono a farlo per mestiere. Chi ha deciso che io per strada non posso farlo, se non rischiando di essere presa per pazza.
Ecco io questo vorrei fare, tanto, tantissimo, con uno struggimento proporzionale al procedere dei miei anni, al pensiero che il corpo diventerà sempre di più una prigione goffa e stanca nella quale riuscirò via via a riconoscermi sempre meno.
Questo vorrei: correre e cantare.
Il più possibile.
Prima di invecchiare definitivamente.
Correre di slancio e cantare a squarciagola.
Sono due cose che, per quale è la nostra natura, noi POSSIAMO fare.
Sono due cose che, se lasciati liberi, a uno stadio istintivo, faremmo senz’altro, due cose che da bambini facciamo.
Solo che siamo educati a non farlo: perché non c’è spazio, perché non servono, perché sono godimenti semplici e gratuiti. Soprattutto perché imbarazzano. Mi piacerebbe scoprire in quale punto della storia dell’uomo sono diventate due cose socialmente imbarazzanti se fatte in libertà. Mi piacerebbe scoprire quando è successo che sono diventate due cose che si possono fare solo in ambiti specifici e con regole specifiche. Quando sono diventate appannaggio di alcuni ristrettissimi gruppi che riescono a farlo per mestiere. Chi ha deciso che io per strada non posso farlo, se non rischiando di essere presa per pazza.
Ecco io questo vorrei fare, tanto, tantissimo, con uno struggimento proporzionale al procedere dei miei anni, al pensiero che il corpo diventerà sempre di più una prigione goffa e stanca nella quale riuscirò via via a riconoscermi sempre meno.
Questo vorrei: correre e cantare.
Il più possibile.
Prima di invecchiare definitivamente.
Correre di slancio e cantare a squarciagola.
martedì 24 novembre 2009
mercoledì 18 novembre 2009
al mio giudice di perissinotto
Sono stata attratta inizialmente dal possibile meccanismo di autoreferenzialità letteraria, dato che il titolo e la struttura fanno esplicito riferimento ad altro libro e altro autore: e che autore! A me il gioco delle scatole cinesi con i rimandi, i richiami, le ispirazioni più o meno scoperte e le citazioni piace molto.
Il risultato è però deboluccio; ti resta solo la curiosità, neanche tanto spinta, di chi sia alla fine il vero cattivo.
La prosa è molto piatta; i personaggi raccontati per fatterelli.
Il tono del carteggio fra un giovane uomo ricercato per assassinio e una giovane donna giudice è inverosimile: di botto familiare e confidenziale, come due compagni di oratorio che si raccontano come hanno passato la domenica.
La trovata poi del ricercato che termina i suoi giorni a fare l’attore porno nei teatrini del nordeuropa che cosa diavolo c’entra? Sembra appiccicata con lo sputo, come se l’autore volesse togliersi il gusto di raccontarci un po’ di sue personalissime fantasie.
Il risultato è però deboluccio; ti resta solo la curiosità, neanche tanto spinta, di chi sia alla fine il vero cattivo.
La prosa è molto piatta; i personaggi raccontati per fatterelli.
Il tono del carteggio fra un giovane uomo ricercato per assassinio e una giovane donna giudice è inverosimile: di botto familiare e confidenziale, come due compagni di oratorio che si raccontano come hanno passato la domenica.
La trovata poi del ricercato che termina i suoi giorni a fare l’attore porno nei teatrini del nordeuropa che cosa diavolo c’entra? Sembra appiccicata con lo sputo, come se l’autore volesse togliersi il gusto di raccontarci un po’ di sue personalissime fantasie.
lunedì 16 novembre 2009
sirene di laura pugno
Questo non è un romanzo qualunque.
Breve, visionario come la migliore fantascienza.
Un po’ horror.
Essenziale come un fumetto.
Studiatissimo nella lingua.
Oscilla fluido come le sirene tra la paura e il desiderio, tra lo sdegno e l’attrazione morbosa.
Un incubo di odori, umori, viscidume, carne, pelle morta, sesso desolato.
Quando ti risvegli all’ultima pagina non provi sollievo, perché è un incubo fantascientifico costruito con pezzi di realtà; percepisci con angoscia che quelle atmosfere già esistono, che il sole nero e la società iniqua e violenta sono già.
Se poi ti soffermi sul rapporto uomini/sirene come proiezione esasperata del rapporto uomo/donna la visione ti appare una descrizione nitida: le sirene divoratrici o la sopraffazione insopportabile esercitata dal protagonista sui personaggi femminili, donne o sirene che siano, sembrano il disegno fantasy di un reale che spesso preferiamo negare.
Imperdibile!
Breve, visionario come la migliore fantascienza.
Un po’ horror.
Essenziale come un fumetto.
Studiatissimo nella lingua.
Oscilla fluido come le sirene tra la paura e il desiderio, tra lo sdegno e l’attrazione morbosa.
Un incubo di odori, umori, viscidume, carne, pelle morta, sesso desolato.
Quando ti risvegli all’ultima pagina non provi sollievo, perché è un incubo fantascientifico costruito con pezzi di realtà; percepisci con angoscia che quelle atmosfere già esistono, che il sole nero e la società iniqua e violenta sono già.
Se poi ti soffermi sul rapporto uomini/sirene come proiezione esasperata del rapporto uomo/donna la visione ti appare una descrizione nitida: le sirene divoratrici o la sopraffazione insopportabile esercitata dal protagonista sui personaggi femminili, donne o sirene che siano, sembrano il disegno fantasy di un reale che spesso preferiamo negare.
Imperdibile!
21 grammi di Inarritu
Recuperato 21 Grammi che proprio proprio vale la pena vedere, non so se per la storia, ma sicuramente per la tecnica cinematografica, per la fotografia, per la scelta degli ambienti, per i colori, insomma per tutto un tecnicismo che mi trova ignorantissima e forse proprio per questo pronta ad un godimento estetico ed emotivo.
Mentre cerchi di riordinare i pezzi sparsi della narrazione frammentata e mescolata senza apparente logica temporale, sei costretto a tenere l’attenzione molto vigile (per orientarsi nella confusione fra il prima e il dopo) e in questo sforzo subisci una immersione molto profonda nelle scene, nei dialoghi, negli ambienti e finisci con notare cose che in un film ordinato in una normale sequenza temporale forse non noteresti. Forse è per questo che il film sembra notevole: perché sei costretto a immergerti.
Per esempio: bagni malandati. Sgradevole il bagno del locale in cui Christina va a comprarsi la droga: il primissimo piano del rubinetto, del lavandino. Modesto, angusto il bagno della casa di Paul/Sean Penn, dove si nasconde per fumare. Tremenda, scrostata la cella di Jack, dove l’amico prete mette un pezzo di cartone sul water per farne sedile e, mentre parlano di Dio, l’occhio ti si fissa sul pulsante dello scarico, un pulsante lucido che non c’entra niente con i mattoni a vista.
Più che la caduta accelerata nel dramma, mi è sembrata la storia di tre personaggi che non riescono a fare quello che vorrebbero, che non riescono a sfuggire a un destino già deciso.
Jack vorrebbe fare il buono finalmente, ma l’incidente d’auto lo riporta in galera; esce grazie alla moglie, si rifugia in un lavoro lontano, ma Paul e Christina vanno a ripescarlo e a risbatterlo al centro della tragedia.
Christina voleva fare la “mogliettina dolce bionda madre di angioletti dolci biondi cui fare le torte in magnifica cucina”: la morte dell’intera famiglia la ributta nelle braccia della droga.
Paul doveva morire; il trapianto sembra averlo salvato: l’incontro con Christina rimette tutto in gioco. Non voleva un figlio, il finale lo smentisce (anche se sto’ povero bambino futuro, figlio di due padri mescolati insieme, che dovrà essere all’altezza degli angioletti biondi morti d’incidente, mi fa un po’ pena e mi sembra un finale non all’altezza del resto del film).
Sean Penn da LEGGENDA!!!!!!!
Mentre cerchi di riordinare i pezzi sparsi della narrazione frammentata e mescolata senza apparente logica temporale, sei costretto a tenere l’attenzione molto vigile (per orientarsi nella confusione fra il prima e il dopo) e in questo sforzo subisci una immersione molto profonda nelle scene, nei dialoghi, negli ambienti e finisci con notare cose che in un film ordinato in una normale sequenza temporale forse non noteresti. Forse è per questo che il film sembra notevole: perché sei costretto a immergerti.
Per esempio: bagni malandati. Sgradevole il bagno del locale in cui Christina va a comprarsi la droga: il primissimo piano del rubinetto, del lavandino. Modesto, angusto il bagno della casa di Paul/Sean Penn, dove si nasconde per fumare. Tremenda, scrostata la cella di Jack, dove l’amico prete mette un pezzo di cartone sul water per farne sedile e, mentre parlano di Dio, l’occhio ti si fissa sul pulsante dello scarico, un pulsante lucido che non c’entra niente con i mattoni a vista.
Più che la caduta accelerata nel dramma, mi è sembrata la storia di tre personaggi che non riescono a fare quello che vorrebbero, che non riescono a sfuggire a un destino già deciso.
Jack vorrebbe fare il buono finalmente, ma l’incidente d’auto lo riporta in galera; esce grazie alla moglie, si rifugia in un lavoro lontano, ma Paul e Christina vanno a ripescarlo e a risbatterlo al centro della tragedia.
Christina voleva fare la “mogliettina dolce bionda madre di angioletti dolci biondi cui fare le torte in magnifica cucina”: la morte dell’intera famiglia la ributta nelle braccia della droga.
Paul doveva morire; il trapianto sembra averlo salvato: l’incontro con Christina rimette tutto in gioco. Non voleva un figlio, il finale lo smentisce (anche se sto’ povero bambino futuro, figlio di due padri mescolati insieme, che dovrà essere all’altezza degli angioletti biondi morti d’incidente, mi fa un po’ pena e mi sembra un finale non all’altezza del resto del film).
Sean Penn da LEGGENDA!!!!!!!
mercoledì 11 novembre 2009
Emmaus Baricco, 3
Mia madre ha visto Baricco da Fazio ed è rimasta fulminata.
Il fatto è che adesso lei crede che Emmaus sia soprattutto un libro religioso.
Ho provato a raccontarglielo cercando al contempo di non deluderla.
Ma lei si è convinta sempre più, sottolineando alcuni elementi che le tornavano giusti in questa spiegazione (Andre è il diavolo tentatore, é importante che il romanzo finisca in una chiesa, con una Messa...)
Che dire? E se avesse ragione lei?
Il fatto è che adesso lei crede che Emmaus sia soprattutto un libro religioso.
Ho provato a raccontarglielo cercando al contempo di non deluderla.
Ma lei si è convinta sempre più, sottolineando alcuni elementi che le tornavano giusti in questa spiegazione (Andre è il diavolo tentatore, é importante che il romanzo finisca in una chiesa, con una Messa...)
Che dire? E se avesse ragione lei?
martedì 10 novembre 2009
Emmaus Baricco, 2
Poi questo: le operazioni nostalgia. Ne abbiamo lette tante ed erano fatte tutte più o meno elencando, piazzando qua e là nella narrazione musiche e canzoni, programmi televisivi, capi di abbigliamento, marche del supermercato, tinelli e notizie del telegiornale...
Qui Baricco fa una cosa molto diversa: ricrea un universo precisissimo, quel tipo di famiglie, in quegli anni, con quel bagaglio di cultura e valori: quello. Ma non ci sono oggetti, non ci sono canzoni d’epoca, pantaloni o polacchine: eppure la descrizione è perfetta, profondissima, coglie nel segno, dice esattamente quello che serve.
Poi ancora: forse ha intuito bene il senso della storia Daria Bignardi, forse davvero il protagonista del romanzo è il noi che diventa io, un noi dal quale si staccano mano mano gli io, ognuno va a vivere la sua diversa storia; oppure di più: è che proprio siamo noi, prima, perché siamo un indistinto insieme di possibilità che mano a mano prende forma: e Bobby prima, poi Luca, poi Il santo sono rappresentazioni di quel che poteva essere se avessi preso una strada diversa, di quel che ho superato, di quella esperienza che mi ha indirizzato definitivamente in una direzione o in un’altra.
Poi alla fine: erano anni che aspettavo che qualcuno raccontasse una cosa che esiste veramente per moltitudini di persone: la religione dentro la vita di tutti i giorni, che chissà perché vigliaccamente scompare quasi sempre nelle narrazioni, come se si avesse timore a scandagliare nei gesti e nei perché di preghiere, riti, valori, gesti onnipresenti nel quotidiano di tanti di noi.
Qui Baricco fa una cosa molto diversa: ricrea un universo precisissimo, quel tipo di famiglie, in quegli anni, con quel bagaglio di cultura e valori: quello. Ma non ci sono oggetti, non ci sono canzoni d’epoca, pantaloni o polacchine: eppure la descrizione è perfetta, profondissima, coglie nel segno, dice esattamente quello che serve.
Poi ancora: forse ha intuito bene il senso della storia Daria Bignardi, forse davvero il protagonista del romanzo è il noi che diventa io, un noi dal quale si staccano mano mano gli io, ognuno va a vivere la sua diversa storia; oppure di più: è che proprio siamo noi, prima, perché siamo un indistinto insieme di possibilità che mano a mano prende forma: e Bobby prima, poi Luca, poi Il santo sono rappresentazioni di quel che poteva essere se avessi preso una strada diversa, di quel che ho superato, di quella esperienza che mi ha indirizzato definitivamente in una direzione o in un’altra.
Poi alla fine: erano anni che aspettavo che qualcuno raccontasse una cosa che esiste veramente per moltitudini di persone: la religione dentro la vita di tutti i giorni, che chissà perché vigliaccamente scompare quasi sempre nelle narrazioni, come se si avesse timore a scandagliare nei gesti e nei perché di preghiere, riti, valori, gesti onnipresenti nel quotidiano di tanti di noi.
lunedì 9 novembre 2009
Stabat Mater, Tiziano Scarpa
Pregiudizio verso Scarpa dopo Kamikaze d’Occidente: di quali schifezze, di quali liquidi corporei ci parlerà ancora? Ideuzza arcinota: un talento nascosto, se scovato dal mentore genio, può salvare una esistenza. Nel racconto lungo non accade quasi niente e quello che, accadendo, dovrebbe dare senso al tutto, lo fa in sordina, in una manciata di righe finali. Tutto ciò che precede è un soliloquio un po’ folle. Eppure... se c’è uno steccato fra letteratura e cazzeggio di vanitosi infelici, eccolo: Stabat Mater sta tutto dalla parte della letteratura. Molto molto bello.
Emmaus Baricco, 1
La prima cosa che voglio dire è che mi è piaciuto questo fugace personaggio, che poco appare, che neanche di un nome sembra essere degno, che il protagonista chiama vagamente “quella che allora era la mia ragazza”, la neopatentata che guida tutta rigida senza distogliere gli occhi dalla strada.
Con poco Baricco la disegna.
Sensata e concreta.
Con il volante in mano.
Un tramite tra “noi” e Andre. Che con Andre chiacchiera di saggi di danza e tra loro due, tra le due ragazze, o tra la ragazza e quel qualcosa che Andre rappresenta in questo libro, abissi di linguaggi, cultura, valori e sesso non ci sono.
Una traduttrice, una messaggera, un riferimento, una madre?
L’unica che, quando il gorgo degli eventi tragici si è messo all’improvviso a risucchiare i destini, quando i quattro “noi” hanno goffamente perso l’equilibrio, l’unica che fa una cosa sensata e concreta.
Tiene saldamente il volante in mano. Come fanno le donne insicure alla guida. Rigide, con il volante stretto stretto in mano, non fanno incidenti.
Con poco Baricco la disegna.
Sensata e concreta.
Con il volante in mano.
Un tramite tra “noi” e Andre. Che con Andre chiacchiera di saggi di danza e tra loro due, tra le due ragazze, o tra la ragazza e quel qualcosa che Andre rappresenta in questo libro, abissi di linguaggi, cultura, valori e sesso non ci sono.
Una traduttrice, una messaggera, un riferimento, una madre?
L’unica che, quando il gorgo degli eventi tragici si è messo all’improvviso a risucchiare i destini, quando i quattro “noi” hanno goffamente perso l’equilibrio, l’unica che fa una cosa sensata e concreta.
Tiene saldamente il volante in mano. Come fanno le donne insicure alla guida. Rigide, con il volante stretto stretto in mano, non fanno incidenti.
venerdì 6 novembre 2009
cartapesta
Alle dieci meno qualche minuto Concetta cercò la cornetta del telefono cordless. Prima il divano del soggiorno, sprofondata base di appoggio per telecomandi, joystick e auricolari con i fili ingarbugliati sotto i cuscini e bricioline di biscotti e pizza e cereali tostati scivolati nelle pieghe dei braccioli e intrappolati per settimane.
I letti dei ragazzi, poi, in mezzo ai libri e alle felpe abbandonate sui copriletti con una manica dentro e una fuori; quindi sotto i letti, fra qualche immancabile calzettone acquattato da giorni.
E il letto grande, che in qualunque altra casa era tempio inviolato di copriletto teso e qui invece era ring di cuscini reggicollo, computer di sbieco, libri, penne, appunti, un pettine, un elastico per capelli, un telefonino.
La trovò infine, stranamente ben riposta sulla sua base, e pigiò i numeri, il ritornello di beep che la separavano da Silvana; attese, visualizzando nella mente la cucina ordinatissima a chilometri troppi di distanza, e il silenzio prenotturno, che seguiva a un silenzio di un lungo pomeriggio, interrotto da una suoneria idiota, impostata da qualche nipote di passaggio, e tanto la nonna non avrebbe nemmeno provato a capire come poter riprogrammare una suoneria meno scema.
La conversazione cominciava con come stai, perché le potesse arrivare chiaro da subito il messaggio che anche quella seconda o terza telefonata della giornata non era, come tutto poteva far credere, un dovere, ma un volere: volere sapere le condizioni di salute di una mamma sola.
Concetta aveva scelto con cura questo attacco, preferendolo al più disinvolto come va, al più egocentrico sono io. Silvana sembrava reagire come previsto, perché il tono di voce indugiava un momento, compiaciuto, mentre si prendeva il lusso di cercare una risposta più articolata di un generico bene o non c’è male.
Spesso cominciava con insomma che scivolava su un due punti; si sentivano bene i due punti! Seguiva un sospiroso resoconto di dolori di testa, tossi scuotimembra, piedi gonfi, attacchi di diarrea ben descritti nell’insorgere e nell’esplosione finale, difficoltà alla vista.
A volte Concetta, al solo scopo di riempire la conversazione, faceva l’errore banale di proporre rimedi immediati che potessero arginare i disturbi: per esempio sciroppi sedativi che impedissero alla tosse di autoalimentarsi sfiancando i muscoli e turbando il riposo notturno; oppure brevi momenti di relax nel corso della giornata durante i quali stendere le gambe sulla poltrona; un intervento correttivo sul cuscino o sulla postura notturna, probabile causa dell’insorgere mattutino dei dolori di testa; la presa di coscienza di un intestino irritabile o di un inizio di colite su cui intervenire con una dieta mirata; un semplice paio di occhiali.
Allora Silvana ergeva una immediata difesa del suo diritto a stare male e liquidava con quattro parole la spropositata leggerezza dei rimedi proposti, al confronto della serietà dei malanni; accennava con un allusivo abbassarsi del tono ad altri mali, ancora più seri, come a far credere che per bontà d’animo evitasse di parlarne, per non gravare troppo sui sensi di colpa altrui. Quindi virava, come dozzinale performance recitativa, su un tu che mi racconti, volendo malcelatamente dire: cambiamo discorso che tanto siete tutti uguali e non potete capire la mia solitudine e il mio disagio di vecchia, ma tanto prima o poi ci arrivate anche voi e vedrete che significherà non aver dato esempio ai vostri figli di come non si lasciano soli i genitori anziani e pagherete tutto.
Nella seconda parte della telefonata toccava a Concetta, dunque, raccontare. L’esperienza aveva via via suggerito una buona specializzazione nella scelta delle cose da dire, al fine di ottenere il dosaggio migliore fra, da un lato, il filiale resoconto degli eventi fondamentali, e, dall’altro, la difesa dai giudizi ingombranti che Silvana buttava giù, alternandoli a espressioni del tipo forse sono io che sbaglio, sarà che sono diventata vecchia e mia madre nella sua ignoranza diceva che.
A volte, come questa volta, era il caso fortunato che fosse Silvana ad avere qualche episodio che impegnasse almeno cinque minuti, durata di minima decenza per una telefonata fra una madre e una figlia lontana anni e chilometri.
“Ma mamma” Concetta riprese in mano la cornetta, poiché la postura che la teneva in bilico fra collo e spalla e le consentiva di svuotare la lavastoviglie, cominciava a farle dolere i muscoli “io me la ricordo ingombrante sta’ statua, poi chissà quanto pesa”
“Pesa? Ma no... e che vuoi che pesa la cartapesta?”
La statua della madonna che la nonna materna teneva acconciata in un altarino adorno di fiori, nell’angolo d’onore delle due stanze in affitto al piano terra, era solo di cartapesta! Anche gesso le sarebbe sembrato più dignitoso!
Il pavimento della casetta di nonna era un mattonato freddo e scabro e i piedi si scaldavano sulla pedana di legno malandato del braciere; Concetta bambina nei pomeriggi di visita evitava di guardare più di tanto la madonnina troneggiante: se uno ci si fissava, quella faccia liscia con le gote dipinte un po’ di rosso, quelle manine appuntite al fondo di una apertura di braccia arrendevole, la finta postura e l’occhio pittato da bamboletta di scarso valore bastavano a rendere sinistramente fuori posto la statuina, fra il divanetto e la cassapanca.
La vita dei nonni, alla fine, era tutta in quella sala povera: dominavano la scena immagini di santi e madonne, cuori trafitti e volti di cristo, spade, gocce di sangue, raggi dorati, gesti severi, occhi sul vassoio e crocifissi a iosa.
Il quadretto ingiallito dei santi Cosimo e Damiano aveva un posto d’onore, perché la nonna diceva di averli incontrati personalmente, quella volta che aveva portato uno dei bambini in fin di vita al Pronto Soccorso e nessuno le dava retta, tranne quei due medici che erano apparsi all’improvviso in fondo al corridoio.
Poi la faccia del Cristo morente stampata scura scura: Concetta da piccola fissava a lungo l’occhio destro, cioè quello che si era chiuso e riaperto una volta che la nonna chiedeva una grazia, che Cristo ci pensasse un po’ lui e chissà se era per una malattia, un lavoro, un viaggio. Però con Concetta l’occhio se ne era stato immobile stampato.
“Ma dove la metti?” immaginava la madonnina farsi posto fra le pareti dell’appartamento di Silvana, adorne delle foto ufficiali dei figli in abito da sposi e una mescolanza di immagini piccole e grandi di nipoti bambini, in adorabili pose congelate di momenti fugaci di feste familiari.
“Non lo so; da qualche parte la metto. Tuo padre buonanima la voleva; l’aveva detto alla nonna: – quando muori fra centanni non voglio niente ma quella statua della madonna – poi quando è stato il momento se l’è presa zia Carla” e abbassava la voce in un sussurro sofferente a dire e non dire dello strazio di quando avevano buttato all’aria cassapanche e ricordi, nella casetta della nonna da svuotare per disdire l’ormai inutile affitto.
“E che le dici? Lei li aveva accuditi bene i nonni, come gliela porti via? Tua padre disse vabbene, ma la voleva lui la statua”.
“Ma non ho capito perché la zia non la vuole più.”
“Mah, dice che deve pittare che s’è fatto l’umido sulla parete dietro.”
“E che l’umido lo fa la statua della madonna?”
“Quella statua è particolare, che ne sappiamo, là è... che devo dire, là non è il posto suo. Che se la tenevamo in questa casa forse a tuo padre non succedeva... Perché quella statua... sai...”
Spesso si finiva così, con la malattia di suo padre, e la telefonata diventava insostenibile, e il non detto premeva sul dicibile troppo perché si potesse andare avanti. Concetta scostò la cornetta della bocca e simulò una risposta a un inesistente richiamo: “Eh, vengo, sto arrivando...”
“Vai, vai, buona notte. Ci sentiamo domani. Salutami tutti, eh. Buonanotte. Ciao... ciao”
Le serate finiscono sempre che Concetta resta mezza storta in pigiama sulla poltroncina davanti alla televisione accesa, con gli occhi chiusi e un sonno troppo dolce a penetrarla, il migliore, perché è quello più suadente, anche se a quell’ora ci sono i programmi meno stupidi e chissà per chi li fanno.
Ai nonni non sarebbe mai successo di addormentarsi così, perché il loro televisore era sistemato in alto, su un carrello di vetro a rotelle, stava quasi sempre coperto da una tovaglietta a punto erba e non restava mai acceso a tempo indeterminato.
I nonni andavano a letto ancora svegli e si addormentavano alla luce tremolante dei lumini per i morti di casa e le lucette fioche davanti ai santini.
Forse mormoravano le preghiere come ultimo dovere della giornata, forse era il Rosario a chiudere loro gli occhi.
Era in quel silenzio sacro che il nonno l’aveva vista la madonnina: se ne scendeva dal suo piedistallo e se ne usciva dal portoncino, nelle strade pulite del paesino; poi all’alba tornava quatta quatta.
Papà rideva, mamma non sapeva per chi prendere le parti, la nonna lo redarguiva di tacere e di non far sentire ai bambini.
Concetta bambina ascoltava affascinata e mescolava magia, catechismo e infallibilità parentale in un pastrocchio dove tutto può essere e mai niente succede.
Perché se ne andava fuori di casa a fare i miracoli notturni quella madonnina di cartapesta, e la nonna, la nonna che le aveva pure fatto l’altarino, quei miracoli non se li meritava? Non avrebbe potuto restarsene nel suo angolino la statua di cartapesta a impedire che la nonna morisse troppo presto, demente e povera?
E il nonno uguale.
Concetta si andava addormentando in un risucchio irreversibile di membra scomposte e l’ultima cosa che le sembrò di vedere, con la testa abbandonata sul bracciolo, fu la ragazzotta a tette seminude che se ne usciva quatta quatta dallo schermo del televisore e se ne andava dalla porta di casa a zonzo per la città.
I letti dei ragazzi, poi, in mezzo ai libri e alle felpe abbandonate sui copriletti con una manica dentro e una fuori; quindi sotto i letti, fra qualche immancabile calzettone acquattato da giorni.
E il letto grande, che in qualunque altra casa era tempio inviolato di copriletto teso e qui invece era ring di cuscini reggicollo, computer di sbieco, libri, penne, appunti, un pettine, un elastico per capelli, un telefonino.
La trovò infine, stranamente ben riposta sulla sua base, e pigiò i numeri, il ritornello di beep che la separavano da Silvana; attese, visualizzando nella mente la cucina ordinatissima a chilometri troppi di distanza, e il silenzio prenotturno, che seguiva a un silenzio di un lungo pomeriggio, interrotto da una suoneria idiota, impostata da qualche nipote di passaggio, e tanto la nonna non avrebbe nemmeno provato a capire come poter riprogrammare una suoneria meno scema.
La conversazione cominciava con come stai, perché le potesse arrivare chiaro da subito il messaggio che anche quella seconda o terza telefonata della giornata non era, come tutto poteva far credere, un dovere, ma un volere: volere sapere le condizioni di salute di una mamma sola.
Concetta aveva scelto con cura questo attacco, preferendolo al più disinvolto come va, al più egocentrico sono io. Silvana sembrava reagire come previsto, perché il tono di voce indugiava un momento, compiaciuto, mentre si prendeva il lusso di cercare una risposta più articolata di un generico bene o non c’è male.
Spesso cominciava con insomma che scivolava su un due punti; si sentivano bene i due punti! Seguiva un sospiroso resoconto di dolori di testa, tossi scuotimembra, piedi gonfi, attacchi di diarrea ben descritti nell’insorgere e nell’esplosione finale, difficoltà alla vista.
A volte Concetta, al solo scopo di riempire la conversazione, faceva l’errore banale di proporre rimedi immediati che potessero arginare i disturbi: per esempio sciroppi sedativi che impedissero alla tosse di autoalimentarsi sfiancando i muscoli e turbando il riposo notturno; oppure brevi momenti di relax nel corso della giornata durante i quali stendere le gambe sulla poltrona; un intervento correttivo sul cuscino o sulla postura notturna, probabile causa dell’insorgere mattutino dei dolori di testa; la presa di coscienza di un intestino irritabile o di un inizio di colite su cui intervenire con una dieta mirata; un semplice paio di occhiali.
Allora Silvana ergeva una immediata difesa del suo diritto a stare male e liquidava con quattro parole la spropositata leggerezza dei rimedi proposti, al confronto della serietà dei malanni; accennava con un allusivo abbassarsi del tono ad altri mali, ancora più seri, come a far credere che per bontà d’animo evitasse di parlarne, per non gravare troppo sui sensi di colpa altrui. Quindi virava, come dozzinale performance recitativa, su un tu che mi racconti, volendo malcelatamente dire: cambiamo discorso che tanto siete tutti uguali e non potete capire la mia solitudine e il mio disagio di vecchia, ma tanto prima o poi ci arrivate anche voi e vedrete che significherà non aver dato esempio ai vostri figli di come non si lasciano soli i genitori anziani e pagherete tutto.
Nella seconda parte della telefonata toccava a Concetta, dunque, raccontare. L’esperienza aveva via via suggerito una buona specializzazione nella scelta delle cose da dire, al fine di ottenere il dosaggio migliore fra, da un lato, il filiale resoconto degli eventi fondamentali, e, dall’altro, la difesa dai giudizi ingombranti che Silvana buttava giù, alternandoli a espressioni del tipo forse sono io che sbaglio, sarà che sono diventata vecchia e mia madre nella sua ignoranza diceva che.
A volte, come questa volta, era il caso fortunato che fosse Silvana ad avere qualche episodio che impegnasse almeno cinque minuti, durata di minima decenza per una telefonata fra una madre e una figlia lontana anni e chilometri.
“Ma mamma” Concetta riprese in mano la cornetta, poiché la postura che la teneva in bilico fra collo e spalla e le consentiva di svuotare la lavastoviglie, cominciava a farle dolere i muscoli “io me la ricordo ingombrante sta’ statua, poi chissà quanto pesa”
“Pesa? Ma no... e che vuoi che pesa la cartapesta?”
La statua della madonna che la nonna materna teneva acconciata in un altarino adorno di fiori, nell’angolo d’onore delle due stanze in affitto al piano terra, era solo di cartapesta! Anche gesso le sarebbe sembrato più dignitoso!
Il pavimento della casetta di nonna era un mattonato freddo e scabro e i piedi si scaldavano sulla pedana di legno malandato del braciere; Concetta bambina nei pomeriggi di visita evitava di guardare più di tanto la madonnina troneggiante: se uno ci si fissava, quella faccia liscia con le gote dipinte un po’ di rosso, quelle manine appuntite al fondo di una apertura di braccia arrendevole, la finta postura e l’occhio pittato da bamboletta di scarso valore bastavano a rendere sinistramente fuori posto la statuina, fra il divanetto e la cassapanca.
La vita dei nonni, alla fine, era tutta in quella sala povera: dominavano la scena immagini di santi e madonne, cuori trafitti e volti di cristo, spade, gocce di sangue, raggi dorati, gesti severi, occhi sul vassoio e crocifissi a iosa.
Il quadretto ingiallito dei santi Cosimo e Damiano aveva un posto d’onore, perché la nonna diceva di averli incontrati personalmente, quella volta che aveva portato uno dei bambini in fin di vita al Pronto Soccorso e nessuno le dava retta, tranne quei due medici che erano apparsi all’improvviso in fondo al corridoio.
Poi la faccia del Cristo morente stampata scura scura: Concetta da piccola fissava a lungo l’occhio destro, cioè quello che si era chiuso e riaperto una volta che la nonna chiedeva una grazia, che Cristo ci pensasse un po’ lui e chissà se era per una malattia, un lavoro, un viaggio. Però con Concetta l’occhio se ne era stato immobile stampato.
“Ma dove la metti?” immaginava la madonnina farsi posto fra le pareti dell’appartamento di Silvana, adorne delle foto ufficiali dei figli in abito da sposi e una mescolanza di immagini piccole e grandi di nipoti bambini, in adorabili pose congelate di momenti fugaci di feste familiari.
“Non lo so; da qualche parte la metto. Tuo padre buonanima la voleva; l’aveva detto alla nonna: – quando muori fra centanni non voglio niente ma quella statua della madonna – poi quando è stato il momento se l’è presa zia Carla” e abbassava la voce in un sussurro sofferente a dire e non dire dello strazio di quando avevano buttato all’aria cassapanche e ricordi, nella casetta della nonna da svuotare per disdire l’ormai inutile affitto.
“E che le dici? Lei li aveva accuditi bene i nonni, come gliela porti via? Tua padre disse vabbene, ma la voleva lui la statua”.
“Ma non ho capito perché la zia non la vuole più.”
“Mah, dice che deve pittare che s’è fatto l’umido sulla parete dietro.”
“E che l’umido lo fa la statua della madonna?”
“Quella statua è particolare, che ne sappiamo, là è... che devo dire, là non è il posto suo. Che se la tenevamo in questa casa forse a tuo padre non succedeva... Perché quella statua... sai...”
Spesso si finiva così, con la malattia di suo padre, e la telefonata diventava insostenibile, e il non detto premeva sul dicibile troppo perché si potesse andare avanti. Concetta scostò la cornetta della bocca e simulò una risposta a un inesistente richiamo: “Eh, vengo, sto arrivando...”
“Vai, vai, buona notte. Ci sentiamo domani. Salutami tutti, eh. Buonanotte. Ciao... ciao”
Le serate finiscono sempre che Concetta resta mezza storta in pigiama sulla poltroncina davanti alla televisione accesa, con gli occhi chiusi e un sonno troppo dolce a penetrarla, il migliore, perché è quello più suadente, anche se a quell’ora ci sono i programmi meno stupidi e chissà per chi li fanno.
Ai nonni non sarebbe mai successo di addormentarsi così, perché il loro televisore era sistemato in alto, su un carrello di vetro a rotelle, stava quasi sempre coperto da una tovaglietta a punto erba e non restava mai acceso a tempo indeterminato.
I nonni andavano a letto ancora svegli e si addormentavano alla luce tremolante dei lumini per i morti di casa e le lucette fioche davanti ai santini.
Forse mormoravano le preghiere come ultimo dovere della giornata, forse era il Rosario a chiudere loro gli occhi.
Era in quel silenzio sacro che il nonno l’aveva vista la madonnina: se ne scendeva dal suo piedistallo e se ne usciva dal portoncino, nelle strade pulite del paesino; poi all’alba tornava quatta quatta.
Papà rideva, mamma non sapeva per chi prendere le parti, la nonna lo redarguiva di tacere e di non far sentire ai bambini.
Concetta bambina ascoltava affascinata e mescolava magia, catechismo e infallibilità parentale in un pastrocchio dove tutto può essere e mai niente succede.
Perché se ne andava fuori di casa a fare i miracoli notturni quella madonnina di cartapesta, e la nonna, la nonna che le aveva pure fatto l’altarino, quei miracoli non se li meritava? Non avrebbe potuto restarsene nel suo angolino la statua di cartapesta a impedire che la nonna morisse troppo presto, demente e povera?
E il nonno uguale.
Concetta si andava addormentando in un risucchio irreversibile di membra scomposte e l’ultima cosa che le sembrò di vedere, con la testa abbandonata sul bracciolo, fu la ragazzotta a tette seminude che se ne usciva quatta quatta dallo schermo del televisore e se ne andava dalla porta di casa a zonzo per la città.
mercoledì 28 ottobre 2009
chi ha ucciso sarah? di andrej longo
Ingredienti da giallo classico, e pure in ordine canonico: c’è un morto; c’è un luogo del delitto sul quale tornare e ritornare; c’è la sfilata dei possibili imputati da mettere a turno sotto il riflettore e poi scartare, alibi dopo alibi; c’è la coppia solita di investigatori: il vecchio e il giovane, ossia il saggio e l’ingenuo, ovvero l’uomo dal passato ferito e il pivello che ci mette ancora il cuore.
E c’è la città, questa volta è Napoli, ma ognuna c’ha la sua; nei successi gialloseriali dell’ultimo decennio ormai il dialetto e i vizi del luogo fanno a gara con il “commissario” per chi è il vero protagonista.
Ma forse è questo il punto: che qua non c’è macchietta, non c’è vezzo, non c’è campanilismo. Lo sfondo è una città malinconica e stracciona, i rubinetti gocciolano a fatica e il caldo dissecca qualunque sentimento.
E l’io narrante non sa nulla, fotografa, ci riporta gli eventi piccoli piccoli, così come accadono, dei gesti e delle parole fa una cronaca scarna come se raccontasse a un amico ragazzo; la lingua incespica negli errori di un parlato popolano semidialettale, ma non fa fatica a farsi capire.
Così la lettura diventa agile, spontanea e gli occhi perduti di Sarah ti restano impressi come se nel cortile del palazzo bene l’avessi trovata tu stesso.
Delicato.
E c’è la città, questa volta è Napoli, ma ognuna c’ha la sua; nei successi gialloseriali dell’ultimo decennio ormai il dialetto e i vizi del luogo fanno a gara con il “commissario” per chi è il vero protagonista.
Ma forse è questo il punto: che qua non c’è macchietta, non c’è vezzo, non c’è campanilismo. Lo sfondo è una città malinconica e stracciona, i rubinetti gocciolano a fatica e il caldo dissecca qualunque sentimento.
E l’io narrante non sa nulla, fotografa, ci riporta gli eventi piccoli piccoli, così come accadono, dei gesti e delle parole fa una cronaca scarna come se raccontasse a un amico ragazzo; la lingua incespica negli errori di un parlato popolano semidialettale, ma non fa fatica a farsi capire.
Così la lettura diventa agile, spontanea e gli occhi perduti di Sarah ti restano impressi come se nel cortile del palazzo bene l’avessi trovata tu stesso.
Delicato.
giovedì 22 ottobre 2009
Pausa caffè di Giorgio Falco
Giorgio Falco è un discepolo di Aldo Nove? Si può dire discepolo? Non ho idea di che rapporto intercorra fra i due, però penso che chi, come me, ha amato Woobinda e Amore mio infinito per esempio, continui a sentirne gli echi per tutta la lettura di Pausa caffè.
Pausa caffé è un puzzle disordinato e coloratissimo di pezzi di vita grama, di miserie, di lavori squallidi, di contemporaneità becera e autoreferenziale, di ottusità postcapitalistica, di deriva consumistica che diventa una filosofia di vita anche per chi non ha i soldi per consumare ma ingloba comunque i precetti del brand.
Forse un po’ lungo: capito il messaggio, alcune parti potevano essere sfrondate, ripulite senza danno; cioè il libro sembra il materiale grezzo sul quale costruire più che il punto di arrivo letterario che su quella materia riesce a ottenere passaggi di sublime lirismo (vedi Aldo Nove, appunto). Però merita un giudizio molto positivo, dove si pensi che il romanzo debba descrivere un’epoca: Pausa caffè ci riesce bene, riesce a farti sentire a disagio, in colpa per aver lasciato che tutto questo succedesse.
Pausa caffé è un puzzle disordinato e coloratissimo di pezzi di vita grama, di miserie, di lavori squallidi, di contemporaneità becera e autoreferenziale, di ottusità postcapitalistica, di deriva consumistica che diventa una filosofia di vita anche per chi non ha i soldi per consumare ma ingloba comunque i precetti del brand.
Forse un po’ lungo: capito il messaggio, alcune parti potevano essere sfrondate, ripulite senza danno; cioè il libro sembra il materiale grezzo sul quale costruire più che il punto di arrivo letterario che su quella materia riesce a ottenere passaggi di sublime lirismo (vedi Aldo Nove, appunto). Però merita un giudizio molto positivo, dove si pensi che il romanzo debba descrivere un’epoca: Pausa caffè ci riesce bene, riesce a farti sentire a disagio, in colpa per aver lasciato che tutto questo succedesse.
martedì 20 ottobre 2009
Con grazia
Una volta Grazia ed io siamo addirittura andate al cinema insieme.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
lunedì 19 ottobre 2009
L'età barbarica
L’età barbarica non è un film imperdibile.
Una volta entrati nel messaggio, diventa piuttosto prevedibile e si tratta solo di aspettare qualche piccola invenzione stilistica che renda meglio o peggio l’idea, o le numerose citazioni, volute o inconsapevoli, da film di fantapolitica già visti.
Più che di una narrazione si tratta di un elenco ordinato di elementi di vita contemporanea, al passaggio dei quali ti resta solo da annuire, riconoscendoli.
Ecco allora:
- una attività lavorativa inutile, al limite dell’idiozia, chiusa dentro riti che servono a darle credibilità
- una famiglia ridotta a microcosmo economico, fornitrice di status e di beni materiali
- una organizzazione sociale desolante (il pendolarismo, l’ospizio asettico e freddo)
- una connotazione kafkiana delle istituzioni (gli uffici governativi dentro lo stadio immenso, con le persone ridotte a formichine impotenti, schiacciate da una realtà divenuta troppo complessa)
- un ordine sociale paradossale con i processi all’uso delle parole negro e nano e le ronde antifumatori con in cani, le vittime degli incidenti stradali che devono pagare per i danni all’arredo urbano o gli immigrati musulmani che stanno in galera senza motivo
- la fuga dalla realtà dentro mondi patetici: i sogni fantozziani del protagonista che sogna avventure erotiche e successi nei media oppure il finto mondo medioevale dove vanno a giocare la domenica un po’ di disperati
- infine la soluzione bucolica che soluzione non è: un po’ scontata, un po’ codarda, soprattutto senza speranza: per uno che si rifugia a fare la marmellata di mele (un cliché ormai dai tempi di Baby Boom) ce ne sono milioni che restano a resistere in questo schifo di mondo alla Brasil.
Una volta entrati nel messaggio, diventa piuttosto prevedibile e si tratta solo di aspettare qualche piccola invenzione stilistica che renda meglio o peggio l’idea, o le numerose citazioni, volute o inconsapevoli, da film di fantapolitica già visti.
Più che di una narrazione si tratta di un elenco ordinato di elementi di vita contemporanea, al passaggio dei quali ti resta solo da annuire, riconoscendoli.
Ecco allora:
- una attività lavorativa inutile, al limite dell’idiozia, chiusa dentro riti che servono a darle credibilità
- una famiglia ridotta a microcosmo economico, fornitrice di status e di beni materiali
- una organizzazione sociale desolante (il pendolarismo, l’ospizio asettico e freddo)
- una connotazione kafkiana delle istituzioni (gli uffici governativi dentro lo stadio immenso, con le persone ridotte a formichine impotenti, schiacciate da una realtà divenuta troppo complessa)
- un ordine sociale paradossale con i processi all’uso delle parole negro e nano e le ronde antifumatori con in cani, le vittime degli incidenti stradali che devono pagare per i danni all’arredo urbano o gli immigrati musulmani che stanno in galera senza motivo
- la fuga dalla realtà dentro mondi patetici: i sogni fantozziani del protagonista che sogna avventure erotiche e successi nei media oppure il finto mondo medioevale dove vanno a giocare la domenica un po’ di disperati
- infine la soluzione bucolica che soluzione non è: un po’ scontata, un po’ codarda, soprattutto senza speranza: per uno che si rifugia a fare la marmellata di mele (un cliché ormai dai tempi di Baby Boom) ce ne sono milioni che restano a resistere in questo schifo di mondo alla Brasil.
Il dubbio di Shanley
Grande prova teatrale per Meryl Streep e Philip Seymour Hoffman, che mettono in scena un duello fra poteri, profondo nei contenuti e aperto nel finale, senza vinti e vincitori. Resa cinematografica un po' incerta, a tratti noiosa.
lunedì 12 ottobre 2009
martedì 8 settembre 2009
trasfigurazione al mussotto
Mi trovo in un paese del cuneese ed è domenica.
Da un frammento di conversazione altrui colto al volo vengo a sapere che un paio di mesi fa è stata inaugurata una nuova chiesa, chiesa nel senso di muri, spazio, altare e sedie.
Non è una chiesa qualunque. Intanto pare che sia una costruzione molto moderna e innovativa nella distribuzione degli spazi, nella forma, nel dialogo scenico fra altare e assemblea.
Poi so che la persona che presiede alla celebrazione non è un uomo qualsiasi.
Anni fa era parroco qui vicino e io tradivo apposta la parrocchia dei parenti per andare ad ascoltarlo.
Mi ricordo molto bene che mi sarei trasferita a vivere qui solo per poter essere una sua parrocchiana e poterlo aiutare in quella sobria, ordinata, ma radicale sequenza di iniziative e di scelte simboliche che aveva fatto e che lo rendevano una persona carismatica, di fronte al quale riesci a capire che cosa possa voler dire l’irresistibilità del richiamo evangelico: seguimi!
Ci vado.
La chiesa si chiama Trasfigurazione e richiama la forma di una tenda. E’ bianca e luminosa, ha il soffitto a spicchi scomposti che lasciano penetrare larghe pugnalate di sole.
Non ci sono inginocchiatoi ma sedie stilizzate disposte a file di semiellisse intorno a uno spazio centrale allungato come un pesce, dove il posto per leggere e il posto per sedersi e l’altare per l’Elevazione, occupano posti che si fronteggiano e non si può più dire quale sia il dietro e il davanti e il centro.
Chitarre elettriche post conciliari.
Parole scarne ma radicatissime nel quotidiano.
Clima di festa.
Piantiamo tre tende... e non andiamo più via.
Penso alle mie chiese milanesi polverose, buie, con preti antichi sempre più minacciosi e parrocchiani pensionati che raccolgono firme all’esterno per la messa in latino: ho capito! E’ semplicemente un’altra religione!
Da un frammento di conversazione altrui colto al volo vengo a sapere che un paio di mesi fa è stata inaugurata una nuova chiesa, chiesa nel senso di muri, spazio, altare e sedie.
Non è una chiesa qualunque. Intanto pare che sia una costruzione molto moderna e innovativa nella distribuzione degli spazi, nella forma, nel dialogo scenico fra altare e assemblea.
Poi so che la persona che presiede alla celebrazione non è un uomo qualsiasi.
Anni fa era parroco qui vicino e io tradivo apposta la parrocchia dei parenti per andare ad ascoltarlo.
Mi ricordo molto bene che mi sarei trasferita a vivere qui solo per poter essere una sua parrocchiana e poterlo aiutare in quella sobria, ordinata, ma radicale sequenza di iniziative e di scelte simboliche che aveva fatto e che lo rendevano una persona carismatica, di fronte al quale riesci a capire che cosa possa voler dire l’irresistibilità del richiamo evangelico: seguimi!
Ci vado.
La chiesa si chiama Trasfigurazione e richiama la forma di una tenda. E’ bianca e luminosa, ha il soffitto a spicchi scomposti che lasciano penetrare larghe pugnalate di sole.
Non ci sono inginocchiatoi ma sedie stilizzate disposte a file di semiellisse intorno a uno spazio centrale allungato come un pesce, dove il posto per leggere e il posto per sedersi e l’altare per l’Elevazione, occupano posti che si fronteggiano e non si può più dire quale sia il dietro e il davanti e il centro.
Chitarre elettriche post conciliari.
Parole scarne ma radicatissime nel quotidiano.
Clima di festa.
Piantiamo tre tende... e non andiamo più via.
Penso alle mie chiese milanesi polverose, buie, con preti antichi sempre più minacciosi e parrocchiani pensionati che raccolgono firme all’esterno per la messa in latino: ho capito! E’ semplicemente un’altra religione!
venerdì 4 settembre 2009
banalità
Ogni tanto succede che qualcuno dica una cosa banale, eppure quella cosa banale ti arriva allo stomaco e proprio quella sua banalità ti lascia senza fiato, per il solo fatto che ti sei dimenticato di una banalità; così questa battuta di Benigni a proposito degli ignavia, che la vita è una sola e che orrendo spreco sia lasciarsela passare addosso senza viversela e viversela anche e soprattutto partecipando e cioè SCEGLIENDO.
mercoledì 1 luglio 2009
la separazione del maschio di francesco piccolo
Mi è piaciuto (che strano!) anche se aveva tutte le caratteristiche nominalmente per non piacermi.
Intanto è un libro dichiaratamente e sostanzialmente maschio; un punto di vista maschile sulla vita, sull’amore, sul sesso, sul matrimonio. Perché mai dovrebbe interessarmi? Poi è un libro intimista, facilmente catalogabile nella ormai famosa compagnia dei romanzi “mi guardo l’ombelico”.
Inoltre è un monologo interiore di durata assai breve, che si esaurisce in poche decine di pagine scritte larghe, per una cifra comunque superiore ai diciassette euro: quindi mi trova istituzionalmente avversa.
Quindi ha un paio di capitoletti porno, esattamente porno; non ci sono giustificazioni che tengano: sono scene hard core con minuziose descrizioni di orifizi e minutaggio, odori sgradevoli e varianti logistiche; scene nelle quali probabilmente l’autore si è divertito a mettersi alla prova.
Eppure... è scritto da dio!
Eppure... riesce così mirabilmente a lasciarti in bilico fra il fastidio verso un personaggio di un egoismo sconcertante e ottuso, tremendamente ottuso e l’identificazione totale; certo, l’identificazione, prescindendo dal mezzo (nella fattispecie del personaggio è il sesso, ma potrebbe essere qualunque altra cosa), con questo bisogno incontrollabile di non accontentarsi, di provare a vivere una doppia vita, anzi tre, dieci, mille vite diverse, ingenuamente e sinceramente credendo di farla franca, di tenere insieme tutto, di avere un diritto puro e innocente a prendere tutto.
Alcuni colpi di genio sulla noia e l’insofferenza per la convivenza coniugale. Belle e condivisibili osservazioni sulla genitorialità, anche se per tutto il libro, condizionata dall’addiction del personaggio per le avventure “‘ndo cojo cojo” , mi aspettavo con preoccupazione materna, che prima o poi mettesse le mani addosso anche alla figlia.
Intanto è un libro dichiaratamente e sostanzialmente maschio; un punto di vista maschile sulla vita, sull’amore, sul sesso, sul matrimonio. Perché mai dovrebbe interessarmi? Poi è un libro intimista, facilmente catalogabile nella ormai famosa compagnia dei romanzi “mi guardo l’ombelico”.
Inoltre è un monologo interiore di durata assai breve, che si esaurisce in poche decine di pagine scritte larghe, per una cifra comunque superiore ai diciassette euro: quindi mi trova istituzionalmente avversa.
Quindi ha un paio di capitoletti porno, esattamente porno; non ci sono giustificazioni che tengano: sono scene hard core con minuziose descrizioni di orifizi e minutaggio, odori sgradevoli e varianti logistiche; scene nelle quali probabilmente l’autore si è divertito a mettersi alla prova.
Eppure... è scritto da dio!
Eppure... riesce così mirabilmente a lasciarti in bilico fra il fastidio verso un personaggio di un egoismo sconcertante e ottuso, tremendamente ottuso e l’identificazione totale; certo, l’identificazione, prescindendo dal mezzo (nella fattispecie del personaggio è il sesso, ma potrebbe essere qualunque altra cosa), con questo bisogno incontrollabile di non accontentarsi, di provare a vivere una doppia vita, anzi tre, dieci, mille vite diverse, ingenuamente e sinceramente credendo di farla franca, di tenere insieme tutto, di avere un diritto puro e innocente a prendere tutto.
Alcuni colpi di genio sulla noia e l’insofferenza per la convivenza coniugale. Belle e condivisibili osservazioni sulla genitorialità, anche se per tutto il libro, condizionata dall’addiction del personaggio per le avventure “‘ndo cojo cojo” , mi aspettavo con preoccupazione materna, che prima o poi mettesse le mani addosso anche alla figlia.
lunedì 29 giugno 2009
Giulia non esce la sera
Un film come Giulia non esce la sera è improponibile al resto della famiglia.
Non conta che ci sia tanta piscina e un abbozzo di lezioni di nuoto. Non riuscirò ad agganciare nessuno con questo.
Ma poi del resto perché desiderare di condividerlo?
E’ una storia così tutta chiusa in se stessa, così poco accattivante, così malinconica che me la godo io, da sola.
Valerio Mastandrea è irresistibile, Valeria Golino bravissima.
Per il resto personaggi un po’ macchietta: la moglie rigida e inutile, le due figlie una quasi grassa una magrissima, il fidanzatino secchione, la spiaggia come luogo di libertà (che originalità), l’ambiente dei primi letterari (ma è davvero così? Che tristezza), l’ispirazione ridicola e stucchevole delle storie dello scrittore
Ecco, questo è il mio difetto, che mi piace starmene al chiuso irrespirabile di una storia drammatica e dolce, avendo previsto, più o meno verso la metà, l’intero finale.
Non conta che ci sia tanta piscina e un abbozzo di lezioni di nuoto. Non riuscirò ad agganciare nessuno con questo.
Ma poi del resto perché desiderare di condividerlo?
E’ una storia così tutta chiusa in se stessa, così poco accattivante, così malinconica che me la godo io, da sola.
Valerio Mastandrea è irresistibile, Valeria Golino bravissima.
Per il resto personaggi un po’ macchietta: la moglie rigida e inutile, le due figlie una quasi grassa una magrissima, il fidanzatino secchione, la spiaggia come luogo di libertà (che originalità), l’ambiente dei primi letterari (ma è davvero così? Che tristezza), l’ispirazione ridicola e stucchevole delle storie dello scrittore
Ecco, questo è il mio difetto, che mi piace starmene al chiuso irrespirabile di una storia drammatica e dolce, avendo previsto, più o meno verso la metà, l’intero finale.
giovedì 18 giugno 2009
orfana di E.R.
E.R. finisce qui. Forse rivedremo le repliche fino allo sfinimento. E comunque possiamo procurarci i DVD. Ma non è la stessa cosa.
Sapete (per coloro che in questi quindici anni non hanno guardato E.R.) non era un telefilm qualunque. Non c’era una sceneggiatura sciatta e approssimativa, i dialoghi non puzzavano di finto, le storie private non erano mai consolatorie e solo qualche volta hanno preso la deriva dell’assurdo (avete presente quella cosa tipica delle serie televisive che non sai più che cosa far succedere sempre allo stesso personaggio pur di far succedere qualcosa?). Le vicende d’amore (sappiamo tutti che sono il vero richiamo...) erano contorno e collante di contenuti grandiosi. Intorno a quei lettini delle sale emergenza abbiamo visto prendere decisioni controverse, commettere errori, assumersi responsabilità. Abbiamo visto contenuti ETICI e senso della vita. Abbiamo pianto per drammi possibili, veritieri, che scavavano dentro ciascuno di noi perché copiavano dall’autenticità delle esistenze e non viceversa come funziona la nostra attuale macchina televisiva. Con gli autori di E.R. abbiamo condiviso a distanza discussioni anche su grandi temi politici e sociali. Sono riusciti ad essere laici e spirituali, democratici e interrazziali: gli episodi sembravano più testimonianze che creazioni di storie.
Avevo anni e figli in meno. Adesso sono qui che conto i capelli bianchi e mi affanno dietro figli adolescenti. Il protagonista più importante di E.R. era la “responsabilità delle proprie decisioni” e E.R. mi ha aiutato ad affrontare il mio lavoro e l’ambiente del mio ufficio. Con E.R. sono riusciti a fare una cosa che alla televisione, qui, da queste nostre dolorose parti, nessuno più si sogna di chiedere: mi hanno trasmesso dei valori.
In Abby Lockhart e in Susan Lewis mi sono identificata. Sono rimasta malissimo per la morte di Lucy Knight. Ho amato Mark Greene. Ho fatto il tifo per Neela Rasgotra... Sono rincretinita, vero?
Sapete (per coloro che in questi quindici anni non hanno guardato E.R.) non era un telefilm qualunque. Non c’era una sceneggiatura sciatta e approssimativa, i dialoghi non puzzavano di finto, le storie private non erano mai consolatorie e solo qualche volta hanno preso la deriva dell’assurdo (avete presente quella cosa tipica delle serie televisive che non sai più che cosa far succedere sempre allo stesso personaggio pur di far succedere qualcosa?). Le vicende d’amore (sappiamo tutti che sono il vero richiamo...) erano contorno e collante di contenuti grandiosi. Intorno a quei lettini delle sale emergenza abbiamo visto prendere decisioni controverse, commettere errori, assumersi responsabilità. Abbiamo visto contenuti ETICI e senso della vita. Abbiamo pianto per drammi possibili, veritieri, che scavavano dentro ciascuno di noi perché copiavano dall’autenticità delle esistenze e non viceversa come funziona la nostra attuale macchina televisiva. Con gli autori di E.R. abbiamo condiviso a distanza discussioni anche su grandi temi politici e sociali. Sono riusciti ad essere laici e spirituali, democratici e interrazziali: gli episodi sembravano più testimonianze che creazioni di storie.
Avevo anni e figli in meno. Adesso sono qui che conto i capelli bianchi e mi affanno dietro figli adolescenti. Il protagonista più importante di E.R. era la “responsabilità delle proprie decisioni” e E.R. mi ha aiutato ad affrontare il mio lavoro e l’ambiente del mio ufficio. Con E.R. sono riusciti a fare una cosa che alla televisione, qui, da queste nostre dolorose parti, nessuno più si sogna di chiedere: mi hanno trasmesso dei valori.
In Abby Lockhart e in Susan Lewis mi sono identificata. Sono rimasta malissimo per la morte di Lucy Knight. Ho amato Mark Greene. Ho fatto il tifo per Neela Rasgotra... Sono rincretinita, vero?
mercoledì 3 giugno 2009
Il papà di Giovanna
Lo so che non è aria per le storie piccole e che abbiamo tutti bisogno che si ricominci a pensare in grande, abbiamo bisogno che i nostri sogni riguardino tutto il mondo, l’umanità intera... ma questa atmosfera d’interno anni trenta mi ha deliziato.
Questo meccanismo che prende una lente d’ingrandimento e si china amorevolmente su un particolare piccolo piccolo di un quadro enorme e vi scopre la stessa complessità e lo stesso brulichio di tragedia; questa povertà dignitosa; questa compostezza; questi Rohrwacher e Orlando così delicati e degni di ComPassione: toccante.
Questo meccanismo che prende una lente d’ingrandimento e si china amorevolmente su un particolare piccolo piccolo di un quadro enorme e vi scopre la stessa complessità e lo stesso brulichio di tragedia; questa povertà dignitosa; questa compostezza; questi Rohrwacher e Orlando così delicati e degni di ComPassione: toccante.
lunedì 1 giugno 2009
The Millionaire
Naturalmente The Millionaire è una favola e come tale non ci mettiamo neanche a elencare le assurdità che contiene.
Non ha proprio senso indagare sulla trama.
E’ pervaso però da una atmosfera scoppiettante e la struttura narrativa è interessante. L’intreccio tra la trasmissione televisiva e la vicenda è un’idea molto carina. Il film esplode di colori e vitalità.
In fondo il cinema è anche magia fine a se stessa, no?
Non ha proprio senso indagare sulla trama.
E’ pervaso però da una atmosfera scoppiettante e la struttura narrativa è interessante. L’intreccio tra la trasmissione televisiva e la vicenda è un’idea molto carina. Il film esplode di colori e vitalità.
In fondo il cinema è anche magia fine a se stessa, no?
Il cosmo sul comò
Per la grossa simpatia nei confronti del genio di Aldo, Giovanni e Giacomo, provo a dirla così: questo film non è venuto tanto bene...
mercoledì 27 maggio 2009
cesaroni
Ho fatto questa cosa inconfessabile e la confesso per svergognarmi definitivamente.
Ho guardato l’ultima puntata dei cesaroni... ebbene, era una sera milanese di caldo leggendario, stremata sul divano caldo caldo, talmente caldo da non riuscire più a reagire e sfuggire all’abbraccio dello stoffone che lo ricopre.
Non vale neanche la pena di esprimere giudizi sui cesaroni; si tratta di una “cosa” che ha raccolto il testimone dal medico in famiglia, prima che quest’ultima fiction (perso Giulio Scarpati) se ne partisse per una deriva assurda. Entrambe appartengono alla categoria dell’intrattenimento semplice alla portata di bambini piccoli e ultra anziani, mondi ideali dove gli adulti sono un po’ tontoloni ma buoni e onesti, gli adolescenti sono di una saggezza infinitamente superiore a quella dei loro genitori, i bambini sono praticamente dei disegni, gli anziani sono fondamentali e rispettatissimi, intere e numerose famiglie campano alla grande in villette magnifiche con un solo stipendio, i comportamenti sessuali e la struttura sociale sono di un progressismo zapateriano in forte contrasto con l’etica spacciata per buona dai tg: insomma un mondo che non esiste si propone come modello zuccheroso dove “è l’amore che vince” e, manco a dirlo, raccoglie audience senza problemi, dato che anche io sono stata lì fino a quasi mezzanotte a chiedermi come avrebbero fatto gli sceneggiatori a rimettere insieme Eva e Marco, tenuto conto che la situazione a pochi minuti dalla fine appariva veramente senza uscita. Ma ci sono i vecchi appigli da tipico feuilleton: il padre presunto non è il padre vero, le doglie che arrivano a salvare dal fatidico e non desiderato si, insomma, l’uso della genitalità femminile come strumento narrativo delle nostre esistenze con questa terribile ambivalenza: costruire ma soffrire, amare ma ingannare, donare ma tradire.
Difenderei a spada tratta il primo medico in famiglia per un motivo biografico: io e i miei figli piccoli seduti insieme a guardarlo e c’era un protagonista di riferimento per tutti. Adesso loro sono nella loro stanza davanti a you tube a guardarsi i vecchi filmati della Gialappa’s dei tempi d’oro.
A me restano i cesaroni e Elena Sofia Ricci cui assegno la palma di migliore attrice in tutto il cast. Completamente fuori ruolo il di solito ottimo Max Tortora, costretto a fare l’idiota. Inutile Amendola che recita tutto il tempo con l’aria sotto tono di chi potrebbe fare Shakespeare e sta lì solo per simpatia.
Atroce il personaggio della ragazza Eva, novella zia Alice: scelte e atteggiamenti sentimentalsessuali paranoici e autodistruttivi, perenne smorfietta a metà tra il saggio e il sofferente, movimenti-linguaggio-tono di voce esangui.
Una domanda: ma perché è così vincente il motivo dell’amore similimpossibile per quasi parentela?
Là c’era il tira e molla fra due cognati con di mezzo una moglie/sorella defunta, qua il problemino dell’essere fratelli acquisiti. Una applicazione fino alle estreme conseguenze del “moglie e buoi dei paesi tuoi”?
Ho guardato l’ultima puntata dei cesaroni... ebbene, era una sera milanese di caldo leggendario, stremata sul divano caldo caldo, talmente caldo da non riuscire più a reagire e sfuggire all’abbraccio dello stoffone che lo ricopre.
Non vale neanche la pena di esprimere giudizi sui cesaroni; si tratta di una “cosa” che ha raccolto il testimone dal medico in famiglia, prima che quest’ultima fiction (perso Giulio Scarpati) se ne partisse per una deriva assurda. Entrambe appartengono alla categoria dell’intrattenimento semplice alla portata di bambini piccoli e ultra anziani, mondi ideali dove gli adulti sono un po’ tontoloni ma buoni e onesti, gli adolescenti sono di una saggezza infinitamente superiore a quella dei loro genitori, i bambini sono praticamente dei disegni, gli anziani sono fondamentali e rispettatissimi, intere e numerose famiglie campano alla grande in villette magnifiche con un solo stipendio, i comportamenti sessuali e la struttura sociale sono di un progressismo zapateriano in forte contrasto con l’etica spacciata per buona dai tg: insomma un mondo che non esiste si propone come modello zuccheroso dove “è l’amore che vince” e, manco a dirlo, raccoglie audience senza problemi, dato che anche io sono stata lì fino a quasi mezzanotte a chiedermi come avrebbero fatto gli sceneggiatori a rimettere insieme Eva e Marco, tenuto conto che la situazione a pochi minuti dalla fine appariva veramente senza uscita. Ma ci sono i vecchi appigli da tipico feuilleton: il padre presunto non è il padre vero, le doglie che arrivano a salvare dal fatidico e non desiderato si, insomma, l’uso della genitalità femminile come strumento narrativo delle nostre esistenze con questa terribile ambivalenza: costruire ma soffrire, amare ma ingannare, donare ma tradire.
Difenderei a spada tratta il primo medico in famiglia per un motivo biografico: io e i miei figli piccoli seduti insieme a guardarlo e c’era un protagonista di riferimento per tutti. Adesso loro sono nella loro stanza davanti a you tube a guardarsi i vecchi filmati della Gialappa’s dei tempi d’oro.
A me restano i cesaroni e Elena Sofia Ricci cui assegno la palma di migliore attrice in tutto il cast. Completamente fuori ruolo il di solito ottimo Max Tortora, costretto a fare l’idiota. Inutile Amendola che recita tutto il tempo con l’aria sotto tono di chi potrebbe fare Shakespeare e sta lì solo per simpatia.
Atroce il personaggio della ragazza Eva, novella zia Alice: scelte e atteggiamenti sentimentalsessuali paranoici e autodistruttivi, perenne smorfietta a metà tra il saggio e il sofferente, movimenti-linguaggio-tono di voce esangui.
Una domanda: ma perché è così vincente il motivo dell’amore similimpossibile per quasi parentela?
Là c’era il tira e molla fra due cognati con di mezzo una moglie/sorella defunta, qua il problemino dell’essere fratelli acquisiti. Una applicazione fino alle estreme conseguenze del “moglie e buoi dei paesi tuoi”?
lunedì 25 maggio 2009
Angeli e demoni
Dan Brown è come il Mac Donald’s; non si dice ma si fa. E si gode da matti, come in una vera trasgressione.
Se qualcuno te lo vede in mano, nascondilo.
Oppure affrettati a dire che sei una estimatrice di Buzzati e che devi solo riempire qualche ora buca e... Angeli e demoni è un passatempo senza impegno.
Dan Brown è come Topolino: thriller prevedibile negli sviluppi e nei colpi di scena ma paradossalmente proprio per questo vergognosamente godibilissimo, invece di fare lo spettatore che aspetta il colpo di genio, ti ritrovi pagina dopo pagina a riscriverlo insieme all’autore; thriller talmente scontato da essere rassicurante, talmente spinto nella non credibilità degli eventi da risultare un’alternativa alla camomilla, talmente facilone negli elementi pseudoscientifici da farti sentire Einstein al confronto.
Più un diario di viaggio, un resoconto appassionato di visite turistiche colte, nella domenica più calda, tra un riordino di armadi e un bucato invernale, tra una pulizia di balconi e una annaffiatura di basilico, Angeli e demoni, un thriller per casalinghe mature.
Se qualcuno te lo vede in mano, nascondilo.
Oppure affrettati a dire che sei una estimatrice di Buzzati e che devi solo riempire qualche ora buca e... Angeli e demoni è un passatempo senza impegno.
Dan Brown è come Topolino: thriller prevedibile negli sviluppi e nei colpi di scena ma paradossalmente proprio per questo vergognosamente godibilissimo, invece di fare lo spettatore che aspetta il colpo di genio, ti ritrovi pagina dopo pagina a riscriverlo insieme all’autore; thriller talmente scontato da essere rassicurante, talmente spinto nella non credibilità degli eventi da risultare un’alternativa alla camomilla, talmente facilone negli elementi pseudoscientifici da farti sentire Einstein al confronto.
Più un diario di viaggio, un resoconto appassionato di visite turistiche colte, nella domenica più calda, tra un riordino di armadi e un bucato invernale, tra una pulizia di balconi e una annaffiatura di basilico, Angeli e demoni, un thriller per casalinghe mature.
mercoledì 20 maggio 2009
Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo
Il bambino che sognava la fine del mondo mi arriva fra le mani da una persona che me lo presta in cambio del fatto che io gli avevo prestato a suo tempo Una storia romantica.
Sono i fili sottili, i piccoli rapporti evanescenti eppure importanti o che i libri riescono a creare fra le persone.
E leggo questo libro dopo aver seguito una polemica accesa su Nazione Indiana da un articolo piuttosto critico, anzi quasi malevolo nei confronti di Scurati.
Mi sembra soprattutto gli si rimproverasse l’autofiction, il troppo raccontare di sé facendo finta di fare una cronaca dei “tempi moderni” , la pretesa di asserire l’esistenza del Male moraleggiando pur essendo lui stesso tutto impastoiato e corrotto dallo stesso mondo che decide di fustigare.
Io rimango sempre un po’ perplessa quando si contesta a uno scrittore l’autobiografismo, che invece a me sembra normale; o quando gli si contesta l’egocentrismo che invece a me sembra presupposto indispensabile al fatto stesso di scrivere.
Se una cosa mi ha deluso del libro è semmai il troppo poco, avrei preferito una trama un po’ più articolata. Scurati mette in campo un po’ di tutto, dalla orrenda cronaca all’orrenda televisione, passando per gli orrendi costumi sociali, ma lascia che tutto si affretti verso un finale edificante. Così è vero che invece dei tanti personaggi che avrebbe potuto delineare con maggiore accuratezza, resta a dominare il campo solo il percorso interiore del professore narrante. Però non è detto che sia una scelta sbagliata. I fatti cui si fa riferimento sono talmente angoscianti e insieme malvagiamente attraenti, che la scelta di visionarli per come scavano nella psicologia di chi vi assiste piuttosto che come cronaca poliziesca rappresenta una lettura significativa.
Il resto è lui: un miscuglio elegante, a tratti ampolloso, di riferimenti concreti e di citazioni, attraverso la lente di un se stesso sincero.
A me questa sincerità piace molto.
Sono i fili sottili, i piccoli rapporti evanescenti eppure importanti o che i libri riescono a creare fra le persone.
E leggo questo libro dopo aver seguito una polemica accesa su Nazione Indiana da un articolo piuttosto critico, anzi quasi malevolo nei confronti di Scurati.
Mi sembra soprattutto gli si rimproverasse l’autofiction, il troppo raccontare di sé facendo finta di fare una cronaca dei “tempi moderni” , la pretesa di asserire l’esistenza del Male moraleggiando pur essendo lui stesso tutto impastoiato e corrotto dallo stesso mondo che decide di fustigare.
Io rimango sempre un po’ perplessa quando si contesta a uno scrittore l’autobiografismo, che invece a me sembra normale; o quando gli si contesta l’egocentrismo che invece a me sembra presupposto indispensabile al fatto stesso di scrivere.
Se una cosa mi ha deluso del libro è semmai il troppo poco, avrei preferito una trama un po’ più articolata. Scurati mette in campo un po’ di tutto, dalla orrenda cronaca all’orrenda televisione, passando per gli orrendi costumi sociali, ma lascia che tutto si affretti verso un finale edificante. Così è vero che invece dei tanti personaggi che avrebbe potuto delineare con maggiore accuratezza, resta a dominare il campo solo il percorso interiore del professore narrante. Però non è detto che sia una scelta sbagliata. I fatti cui si fa riferimento sono talmente angoscianti e insieme malvagiamente attraenti, che la scelta di visionarli per come scavano nella psicologia di chi vi assiste piuttosto che come cronaca poliziesca rappresenta una lettura significativa.
Il resto è lui: un miscuglio elegante, a tratti ampolloso, di riferimenti concreti e di citazioni, attraverso la lente di un se stesso sincero.
A me questa sincerità piace molto.
martedì 5 maggio 2009
Il contagio di Walter Siti
Se un libro racconta una realtà sociale non si può che dirne bene.
Se in un libro c’è la descrizione di un mondo, schifoso o edificante che sia è un libro giusto.
Comunque.
Il Contagio è in stile Gomorra: romanzo, saggio, dossier, personaggi da fiction, personaggi veri.
Molto interessante.
Un po’ chiuso in se stesso, nel senso che c’è una chiave di lettura molto autobiografica che lascia qualche lettore dietro lo spioncino, a volte, come un voyer di reality televisivo. Così può succedere che chi la vocazione da voyer non ce l’ha, si possa sentire più allontanato che sedotto dalla lettura.
La mia sensazione personalissima è che l’autore stia parlando per tutto il tempo a qualcuno ben preciso, piuttosto che all’universo indistinto dei lettori.
Se in un libro c’è la descrizione di un mondo, schifoso o edificante che sia è un libro giusto.
Comunque.
Il Contagio è in stile Gomorra: romanzo, saggio, dossier, personaggi da fiction, personaggi veri.
Molto interessante.
Un po’ chiuso in se stesso, nel senso che c’è una chiave di lettura molto autobiografica che lascia qualche lettore dietro lo spioncino, a volte, come un voyer di reality televisivo. Così può succedere che chi la vocazione da voyer non ce l’ha, si possa sentire più allontanato che sedotto dalla lettura.
La mia sensazione personalissima è che l’autore stia parlando per tutto il tempo a qualcuno ben preciso, piuttosto che all’universo indistinto dei lettori.
mercoledì 15 aprile 2009
PopCo
C’è una qualità che mi rende estremamente simpatici i romanzi di Scarlett Thomas e cioè la tipologia di protagonista femminile lontana mille miglia dagli stereotipi attuali: che bello una donna che fuma, si malveste, si occupa di matematica e crittografia e si concede amori occasionali!
Poi c’è questa gran bella quantità di informazioni culturali, questo amore per il sapere in quanto tale che scorre fra le pagine e che le rende accattivanti, anzi eccitanti.
Ho letto PopCo veramente di gusto; come di gusto avevo letto Che fine ha fatto MrY. Il gusto dell’avventura; il gusto del mistero; il gusto della scienza e della filosofia.
Si intravede la tecnica indubbiamente: nel dosaggio di descrizioni dialoghi e introspezione, nell’alternarsi di presente e flashback, nella costruzione di misteri.
Detto questo, PopCo è un po’ deboluccio nella storia. Nella fretta di affastellare nozioni e introdurre elementi di thriller un po’ fini a se stessi, qualche colpo di scena promesso non viene mantenuto e qualche elemento intrigante si perde per strada. Le pagine migliori sono i flash back della protagonista adolescente, quelle peggiori riguardano la tirata moralistica un po’ sempliciotta che chiude la vicenda “professionale”.
Fantastici però gli spunti culturali e fantastico ritrovare tra la bibliografia Hofstadter.
Poi c’è questa gran bella quantità di informazioni culturali, questo amore per il sapere in quanto tale che scorre fra le pagine e che le rende accattivanti, anzi eccitanti.
Ho letto PopCo veramente di gusto; come di gusto avevo letto Che fine ha fatto MrY. Il gusto dell’avventura; il gusto del mistero; il gusto della scienza e della filosofia.
Si intravede la tecnica indubbiamente: nel dosaggio di descrizioni dialoghi e introspezione, nell’alternarsi di presente e flashback, nella costruzione di misteri.
Detto questo, PopCo è un po’ deboluccio nella storia. Nella fretta di affastellare nozioni e introdurre elementi di thriller un po’ fini a se stessi, qualche colpo di scena promesso non viene mantenuto e qualche elemento intrigante si perde per strada. Le pagine migliori sono i flash back della protagonista adolescente, quelle peggiori riguardano la tirata moralistica un po’ sempliciotta che chiude la vicenda “professionale”.
Fantastici però gli spunti culturali e fantastico ritrovare tra la bibliografia Hofstadter.
mercoledì 1 aprile 2009
La promessa di Friedrich Dürrenmatt
Colpiscono la brevità e la linearità della storia che fanno apparire ancora più tremenda la verità esposta e cioè il dominio della casualità beffarda nella nostra esistenza a dispetto di intelligenza e lucidità razionale.
Una verità che tutti facciamo immensamente fatica ad accettare. Nelle piccole cose di ogni giorno ci aspettiamo sempre testardi il finale: bello o brutto che sia, ma un finale, uno Scrittore al di sopra delle parti che abbia rispettato il canone della narrazione.
Scoprire, ormai vecchi, che non c'era nessuna trama è una delle esperienze peggiori dell'esistere.
Veramente un libro bellissimo!
Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota
Una verità che tutti facciamo immensamente fatica ad accettare. Nelle piccole cose di ogni giorno ci aspettiamo sempre testardi il finale: bello o brutto che sia, ma un finale, uno Scrittore al di sopra delle parti che abbia rispettato il canone della narrazione.
Scoprire, ormai vecchi, che non c'era nessuna trama è una delle esperienze peggiori dell'esistere.
Veramente un libro bellissimo!
Niente è più crudele di un genio che inciampa in qualcosa di idiota
lunedì 30 marzo 2009
La buona e brava gente della nazione di Romolo Bugaro
Abbandonato!
Troppi Jack Daniel's per un lettore astemio come me!
A parte gli scherzi: un universo emotivo a me del tutto sconosciuto, un mondo di adulti maschi tra la caccia all’ultima segretaria carina, l’ultima festa di scapoli che finisce in orgia, l’ultima corsa in macchina, l’ultima violenza fisica a una donna indifesa e fiumi, fiumi, cateratte di alcol.
Il confine fra la sacrosanta esplorazione di una deriva emozionale e la compiaciuta condivisione di certe categorie mentali da stereotipo maschile è sottile. Così la lettura diventa fastidiosa, senza togliere nulla all’ottimo stile.
Troppi Jack Daniel's per un lettore astemio come me!
A parte gli scherzi: un universo emotivo a me del tutto sconosciuto, un mondo di adulti maschi tra la caccia all’ultima segretaria carina, l’ultima festa di scapoli che finisce in orgia, l’ultima corsa in macchina, l’ultima violenza fisica a una donna indifesa e fiumi, fiumi, cateratte di alcol.
Il confine fra la sacrosanta esplorazione di una deriva emozionale e la compiaciuta condivisione di certe categorie mentali da stereotipo maschile è sottile. Così la lettura diventa fastidiosa, senza togliere nulla all’ottimo stile.
venerdì 27 marzo 2009
il dipendente
Monologo fatto di frasi brevi, piccoli fatti, pensieri che mentono a se stessi.
Feroce resoconto di alcune giornate di un agente di commercio di una multinazionale fra una Audi e una stanza d’albergo.
Immerso nella spirale alienante (capo - aumento di stipendio – benefit – obiettivi da raggiungere – colleghi che ti fanno le scarpe – lucidi per la presentazione – tenore di vita per salvare le apparenze – orari di lavoro che si confondono con gli orari di vita) il protagonista perde progressivamente il controllo della sua catastrofica vita privata fino poi a smarrire la lucidità emotiva anche nei rapporti di lavoro, suo ultimo contatto con la realtà.
Insomma il racconto senza scampo su una povera persona sul bordo della follia, il paradosso della mia vita lavorativa, o forse la mia realtà qualche volta, in qualche momento.
Feroce resoconto di alcune giornate di un agente di commercio di una multinazionale fra una Audi e una stanza d’albergo.
Immerso nella spirale alienante (capo - aumento di stipendio – benefit – obiettivi da raggiungere – colleghi che ti fanno le scarpe – lucidi per la presentazione – tenore di vita per salvare le apparenze – orari di lavoro che si confondono con gli orari di vita) il protagonista perde progressivamente il controllo della sua catastrofica vita privata fino poi a smarrire la lucidità emotiva anche nei rapporti di lavoro, suo ultimo contatto con la realtà.
Insomma il racconto senza scampo su una povera persona sul bordo della follia, il paradosso della mia vita lavorativa, o forse la mia realtà qualche volta, in qualche momento.
lunedì 23 marzo 2009
Sotto gli occhi dell'Occidente
Come un Delitto e castigo minore, più a galla, più didascalico.
Alcune tesi precise nella mente di Conrad: l’anima del popolo russo e l’incapacità dell’occidente di coglierne appieno la tragica grandezza, ma soprattutto gli aspetti contraddittori di ogni movimento rivoluzionario.
Col senno di poi, di chi sa come poi nel corso del novecento sia andata a finire, questo romanzo e il suo carico di contenuti storici e sociali diventano una occasione interessantissima.
Se si prescinde dallo stile inevitabilmente datato, la vicenda è anche intrigante; incredibile vero? Mai avrei immaginato che un polveroso romanzo del 1911 mi avrebbe tenuta sulle spine a chiedermi che ne sarà del protagonista, il povero Razumov, uno di noi.
Alcune tesi precise nella mente di Conrad: l’anima del popolo russo e l’incapacità dell’occidente di coglierne appieno la tragica grandezza, ma soprattutto gli aspetti contraddittori di ogni movimento rivoluzionario.
Col senno di poi, di chi sa come poi nel corso del novecento sia andata a finire, questo romanzo e il suo carico di contenuti storici e sociali diventano una occasione interessantissima.
Se si prescinde dallo stile inevitabilmente datato, la vicenda è anche intrigante; incredibile vero? Mai avrei immaginato che un polveroso romanzo del 1911 mi avrebbe tenuta sulle spine a chiedermi che ne sarà del protagonista, il povero Razumov, uno di noi.
lunedì 9 marzo 2009
Le Correzioni di Jonathan Franzen
Un grande affresco contemporaneo, ottima lettura per i quarantenni alle prese con la contemplazione desolata e incredula del fallimento di quello che si voleva/poteva/doveva essere e che, nello stesso tempo, cominciano ad essere consapevoli di quanto poco manchi ormai a diventare Alfred e Enid, vecchi, testardi, incarogniti ed egoisti.
A 40 anni, infatti, si è proprio sul limite che ci consente di identificarci da un lato con i tre figli: i patetici giovanilismi di Chip, l’incapacità di Denise di tenere fede alle proprie brillanti premesse, i teatrini matrimoniali di Gary; e dall’altro con il malinconico procedere dei giorni dei loro genitori: Alfred che da padre tiranno si trasforma via via in un demente alle prese con allucinazioni coprofobiche e Enid con i suoi cliché benpensanti, ammuffiti ormai, insieme a tutte le vecchie cose accatastate in cantina.
Brillante stile ormai tipico dei migliori romanzi americani contemporanei: un po' Pastorale americana, un po' Wallace, un po' Altman, un po’ Falò delle vanità e un po’, perché no, Desperate Housewife.
Intelligente, psicologicamente tagliente, socialmente profondo.
Sbilanciato nelle parti narrative: il capitolo su Denise sembra a tratti scritto in preda a un momento di follia; l’avventura lituana di Chip è decontestualizzata e troppo bizzarra. Però la discesa di Alfred all’inferi della demenza senile è ritratta con grande sapienza.
A 40 anni, infatti, si è proprio sul limite che ci consente di identificarci da un lato con i tre figli: i patetici giovanilismi di Chip, l’incapacità di Denise di tenere fede alle proprie brillanti premesse, i teatrini matrimoniali di Gary; e dall’altro con il malinconico procedere dei giorni dei loro genitori: Alfred che da padre tiranno si trasforma via via in un demente alle prese con allucinazioni coprofobiche e Enid con i suoi cliché benpensanti, ammuffiti ormai, insieme a tutte le vecchie cose accatastate in cantina.
Brillante stile ormai tipico dei migliori romanzi americani contemporanei: un po' Pastorale americana, un po' Wallace, un po' Altman, un po’ Falò delle vanità e un po’, perché no, Desperate Housewife.
Intelligente, psicologicamente tagliente, socialmente profondo.
Sbilanciato nelle parti narrative: il capitolo su Denise sembra a tratti scritto in preda a un momento di follia; l’avventura lituana di Chip è decontestualizzata e troppo bizzarra. Però la discesa di Alfred all’inferi della demenza senile è ritratta con grande sapienza.
giovedì 5 marzo 2009
franzen 2
... quel senso di futilità sarebbe stato il chiodo fisso della sua vita. Un’attesa monotona e poi una promessa infranta, la sgomenta comprensione di quanto fosse ormai tardi.
Jonathan Franzen, Le correzioni
Jonathan Franzen, Le correzioni
mercoledì 4 marzo 2009
regina
Di solito si sta radunati vicino alla porta finestra. Il resto della casa è in penombra sin dalle prime ore del pomeriggio. Un paio di finestroni si aprono molto in alto, quasi sul soffitto, ma la nonna Regina vuole che siano ben serrati per la maggior parte del tempo, per paura che vi passino topi, lucertole e altre bestie che circolano sui terrazzini. Cecilia sul terrazzino della casa della nonna non è mai salita, nonostante siano state molte e lunghe le ore del sabato pomeriggio trascorse negli anni sotto l’altissimo soffitto ad arcate: erano le visite obbligate e nessuno dei bambini aveva niente da dire né alla zia ciarliera né tanto meno alla zia silenziosa, le due vestali del tempo immobile.
Vicino alla porta finestra Cecilia aspetta che tornino a prenderla e cerca di tenere caldi almeno i piedi, appoggiati alla pedana circolare di legno grezzo che sostiene e circonda il braciere.
La zia ciarliera ogni tanto le appoggia affettuosa una mano sulla coscia:
“Cecì, che mi dici? Qualche bella novità?”
Gli occhietti sepolti fra le pieghe delle guanciotte dardeggiano promesse di fidanzati facoltosi, richieste affamate di racconti di un qualche possibile particolare piccantello alle quali Cecilia non può rispondere perché non c’è niente da raccontare, né fidanzati, né pretendenti, nemmeno brutti, e questa sua incapacità di regalare qualche piccolo e non innocente brivido di pettegolezzo la fa quasi sentire in colpa.
Da incerto il tempo è diventato pioggia fine e insistente e Cecilia avrebbe avuto bisogno di questo pomeriggio per un ultimo giro sul lungomare, per un respiro di orizzonte prima di chiudere la valigia.
Invece il padre ha organizzato l’ennesimo rito di saluto ai parenti del paese.
Anche queste vacanze non hanno avuto nessuna novità: il treno puzzolente ha cullato sogni di ristoro emotivo all’andata, le tavole imbandite di minestroni e spezzatini si sono alternate a merende a base di focacce unte fatte in casa e, subito, gli ultimi due giorni, si fa la conta delle ore e si saluta tutti, un saluto sorridente e inutile e uno scambio di baci sulle guance, poi di nuovo la stazione e il finestrino lercio e il distacco dai genitori è uno strazio al quale il dondolio del treno cerca di dare un senso per le dodici, tredici ore a seguire.
Non è stata una idea buona restare a far compagnia alla nonna Regina e alle zie, mentre i suoi genitori comprano il vino nero alla cantina sociale. La nonna ci sente solo urlandole nell’orecchio, e poi, da qualche mese, non ci vede più: solo ombre, dice. Il dottore ha scosso la testa perché l’età non giustifica interventi e poi la paziente ha quasi novanta anni e vuole restare vicino al braciere per giornate e giornate, seduta ferma ferma, solo la testa si volta di qua e di là a cercare rumori, sottili movimenti di aria, verso i quali lanciare rimbrotti e ordini.
La zia silenziosa fa un cruciverba facilitato, sotto una luce fioca e quasi appoggia il libretto sul seno prosperosissimo: le braccia sembrano ancora più tozze, a volte le resta la punta della lingua fra le labbra sottili in cerca della parola giusta.
“Stai qua, stai, facci nu’ picca di compagnia. Non lo diciamo neanche alla nonna, ché tanto non ci vede e non ci sente” avevano detto “cussi non si preoccupa”.
Non bisogna preoccupare la nonna. Nella testa di Regina c’è una geometria difensiva che descrive il mondo in poche mosse e rigorosi equilibri; i bambini avevano negli anni imparato a stare seduti per ore sulle sedie impagliate e a trovare giusto che, al minimo cenno di vivacità, mamma e papà riportassero l’universo all’immobilità con un sospiro: “Fermo... per la nonna” e quel cenno del capo come dire che si dovevano a nonna Regina obbedienze assolute e silenziose, sacrifici di esistenze, assurdi riti quotidiani, paura coltivata al riparo di una porta finestra e resa categoria del vivere.
“Che dici Cecì?” la zia ciarliera cerca di animare la penombra che continua a ispessirsi e si diverte all’idea che nonna Regina non sappia che intorno al braciere sia rimasta anche una nipote, malsopportato cavallo di troia di un esercito di elettrodomestici e automobili e donne in pantaloni e televisori a colori che preme, sempre vigorosamente respinto, al di là di quella porta.
Nonna Regina ha le mani ben distese sui braccioli della poltroncina preferita: “E quedda tutte le vote...” nessuno può fermare nonna Regina che parla per sancire, per urticare, per umiliare, per ricondurre a un ricordo millenario e ricostruito a misura “...tutte le vote si vene a pigghia, prima cu parte, la decimila lire, tutte le vote” sbuffa.
“Cé sta dì? Cé sta dì? Cecilia sta qua, sta ‘spetta qua” tenta di rimediare la zia.
“Qua? Dove? Piccé nun me l’a dittu?”
Questo stupido rito dei saluti che non piace a nessuno, pensa Cecilia, ogni volta, ogni volta si sostanzia in questa diecimila lire spiegazzata, che passa da una mano rugosa alla sua con un mezzo sorriso dovuto.
Diecimila lire è il prezzo di mercato di un legame familiare che ogni momento si snoda per natura e si riannoda per convenzione.
“La nonna non ci sta con la capo, Cecì” dice la zia, pasticciando con le parole e i gesti e gli sguardi, immaginando che chiamare in causa la follia senile renda il disastro diplomatico più lieve.
La cattiveria si può coltivare negli anni, per starsene all’ombra, tranquille: “teniamo la mamma che è anziana” o “la mamma no’ vole” può far comodo contro la minaccia di una lusinga della vita; la vita, poi, spesso, ti ripaga per averle saputo resistere, concedendo un regalo finale, qualche mese durante il quale il tuo carnefice, la tua scusa esistenziale, si riduce progressivamente a un malato inascoltato di cui prendersi gioco. “Non lo diciamo alla mamma, cussì sta tranquilla”; gli occhi sono opachi e non vedono le zitelle bambine che si prendono piccole inutili libertà tardive.
Cecilia mette la mano in tasca e sente, liscio, il foglietto delle diecimila lire scivolato sul fondo.
“Stasera non riesco a capire neanche una parola di quello che dice la nonna, zia” e si chiede se risulta credibile la sua smorfietta da bambinona affettuosa.
Il sollievo si contrae in un “menumale” sussurrato che ristagna un momento sul braciere.
E’ arrivato papà. Baci affrettati.
“Piccé nun me l’a dittu ca stava quedda qua? Piccé nun me l’a dittu?” sente Cecilia dietro la porta finestra che si chiude alle sue spalle, intanto ripara i capelli dalla pioggia con le mani e corre verso la macchina.
Vicino alla porta finestra Cecilia aspetta che tornino a prenderla e cerca di tenere caldi almeno i piedi, appoggiati alla pedana circolare di legno grezzo che sostiene e circonda il braciere.
La zia ciarliera ogni tanto le appoggia affettuosa una mano sulla coscia:
“Cecì, che mi dici? Qualche bella novità?”
Gli occhietti sepolti fra le pieghe delle guanciotte dardeggiano promesse di fidanzati facoltosi, richieste affamate di racconti di un qualche possibile particolare piccantello alle quali Cecilia non può rispondere perché non c’è niente da raccontare, né fidanzati, né pretendenti, nemmeno brutti, e questa sua incapacità di regalare qualche piccolo e non innocente brivido di pettegolezzo la fa quasi sentire in colpa.
Da incerto il tempo è diventato pioggia fine e insistente e Cecilia avrebbe avuto bisogno di questo pomeriggio per un ultimo giro sul lungomare, per un respiro di orizzonte prima di chiudere la valigia.
Invece il padre ha organizzato l’ennesimo rito di saluto ai parenti del paese.
Anche queste vacanze non hanno avuto nessuna novità: il treno puzzolente ha cullato sogni di ristoro emotivo all’andata, le tavole imbandite di minestroni e spezzatini si sono alternate a merende a base di focacce unte fatte in casa e, subito, gli ultimi due giorni, si fa la conta delle ore e si saluta tutti, un saluto sorridente e inutile e uno scambio di baci sulle guance, poi di nuovo la stazione e il finestrino lercio e il distacco dai genitori è uno strazio al quale il dondolio del treno cerca di dare un senso per le dodici, tredici ore a seguire.
Non è stata una idea buona restare a far compagnia alla nonna Regina e alle zie, mentre i suoi genitori comprano il vino nero alla cantina sociale. La nonna ci sente solo urlandole nell’orecchio, e poi, da qualche mese, non ci vede più: solo ombre, dice. Il dottore ha scosso la testa perché l’età non giustifica interventi e poi la paziente ha quasi novanta anni e vuole restare vicino al braciere per giornate e giornate, seduta ferma ferma, solo la testa si volta di qua e di là a cercare rumori, sottili movimenti di aria, verso i quali lanciare rimbrotti e ordini.
La zia silenziosa fa un cruciverba facilitato, sotto una luce fioca e quasi appoggia il libretto sul seno prosperosissimo: le braccia sembrano ancora più tozze, a volte le resta la punta della lingua fra le labbra sottili in cerca della parola giusta.
“Stai qua, stai, facci nu’ picca di compagnia. Non lo diciamo neanche alla nonna, ché tanto non ci vede e non ci sente” avevano detto “cussi non si preoccupa”.
Non bisogna preoccupare la nonna. Nella testa di Regina c’è una geometria difensiva che descrive il mondo in poche mosse e rigorosi equilibri; i bambini avevano negli anni imparato a stare seduti per ore sulle sedie impagliate e a trovare giusto che, al minimo cenno di vivacità, mamma e papà riportassero l’universo all’immobilità con un sospiro: “Fermo... per la nonna” e quel cenno del capo come dire che si dovevano a nonna Regina obbedienze assolute e silenziose, sacrifici di esistenze, assurdi riti quotidiani, paura coltivata al riparo di una porta finestra e resa categoria del vivere.
“Che dici Cecì?” la zia ciarliera cerca di animare la penombra che continua a ispessirsi e si diverte all’idea che nonna Regina non sappia che intorno al braciere sia rimasta anche una nipote, malsopportato cavallo di troia di un esercito di elettrodomestici e automobili e donne in pantaloni e televisori a colori che preme, sempre vigorosamente respinto, al di là di quella porta.
Nonna Regina ha le mani ben distese sui braccioli della poltroncina preferita: “E quedda tutte le vote...” nessuno può fermare nonna Regina che parla per sancire, per urticare, per umiliare, per ricondurre a un ricordo millenario e ricostruito a misura “...tutte le vote si vene a pigghia, prima cu parte, la decimila lire, tutte le vote” sbuffa.
“Cé sta dì? Cé sta dì? Cecilia sta qua, sta ‘spetta qua” tenta di rimediare la zia.
“Qua? Dove? Piccé nun me l’a dittu?”
Questo stupido rito dei saluti che non piace a nessuno, pensa Cecilia, ogni volta, ogni volta si sostanzia in questa diecimila lire spiegazzata, che passa da una mano rugosa alla sua con un mezzo sorriso dovuto.
Diecimila lire è il prezzo di mercato di un legame familiare che ogni momento si snoda per natura e si riannoda per convenzione.
“La nonna non ci sta con la capo, Cecì” dice la zia, pasticciando con le parole e i gesti e gli sguardi, immaginando che chiamare in causa la follia senile renda il disastro diplomatico più lieve.
La cattiveria si può coltivare negli anni, per starsene all’ombra, tranquille: “teniamo la mamma che è anziana” o “la mamma no’ vole” può far comodo contro la minaccia di una lusinga della vita; la vita, poi, spesso, ti ripaga per averle saputo resistere, concedendo un regalo finale, qualche mese durante il quale il tuo carnefice, la tua scusa esistenziale, si riduce progressivamente a un malato inascoltato di cui prendersi gioco. “Non lo diciamo alla mamma, cussì sta tranquilla”; gli occhi sono opachi e non vedono le zitelle bambine che si prendono piccole inutili libertà tardive.
Cecilia mette la mano in tasca e sente, liscio, il foglietto delle diecimila lire scivolato sul fondo.
“Stasera non riesco a capire neanche una parola di quello che dice la nonna, zia” e si chiede se risulta credibile la sua smorfietta da bambinona affettuosa.
Il sollievo si contrae in un “menumale” sussurrato che ristagna un momento sul braciere.
E’ arrivato papà. Baci affrettati.
“Piccé nun me l’a dittu ca stava quedda qua? Piccé nun me l’a dittu?” sente Cecilia dietro la porta finestra che si chiude alle sue spalle, intanto ripara i capelli dalla pioggia con le mani e corre verso la macchina.
Biblioteca
A curiosare nella biblioteca vicina al nuovo ufficio Elisa è andata senza Michele.
Sarebbe stato scontato, solo poche settimane fa, che in un posto così, la prima volta, si andasse insieme.
Il numero civico coincide con quello del museo, cioè con l’ingresso maestoso e malridotto di un palazzo antico; lo sguardo un po’ incerto di Elisa si incrocia con quello di turisti convinti, alcuni dei quali addirittura si fanno fotografare sotto la statua, al centro del primo scarno cortiletto.
Però lo scalone solenne che, alla fine di un ampio corridoio in penombra, ornato di statue grosse e insensate, conduce alla biblioteca, le strappa un sorriso di soddisfazione: fa scena percorrerne i gradini che procedono verso il pianerottolo, dove si può decidere perfino se proseguire dalla rampa destra o dalla rampa sinistra, per farsi accogliere da porte massicce di legno antico e vetro, verso un mondo profumato di carta vecchia.
Elisa si è fatta questa stupida idea che chi varchi l’ingresso di una biblioteca ammuffita sia una specie di eroe; che gli impiegati sepolti sotto la volta di affreschi ingrigiti debbano solo sorriderle e premiarla, e riversarle libri e sapere e gentilezza.
La donna invece la redarguisce in malo modo: “Prego!” vocetta acuta “signora! Le borse vanno lasciate negli armadietti al piano ammezzato”.
Sì, Elisa ha visto il bugigattolo inquietante sul lato sinistro dello scalone, salendo.
“Per iscriversi al prestito, mi scusi?”
“Carta d’identità, foto tessera, codice fiscale”.
Ributtata sul pianerottolo, Elisa si rammenta di una fotina persa in qualche piega del portafoglio, da qualche anno.
Lotta con la serratura della cassetta: bisogna infilare una moneta da un euro per poter girare la chiavetta, lascia la borsa, trattiene il portafoglio, il foglietto dove ha segnato senza un vero criterio i titoli da cercare, le chiavi dell’armadietto le cadono, che ne faccio del cellulare, perderò qualcosa...
Di Michele in realtà non sa nulla. Eppure si erano ripetuti all’infinito i numeri dei giorni: qui cominciano le tue ferie, poi tu torni ma io sono già partita, però se tu sei in ufficio provo a richiamarti dal cellulare, se posso; poi parti anche tu, il “silenzio-radio” quanto dura? Poco, dai. Rientriamo lo stesso giorno.
Quali libri porti?
Tu che cosa leggi?
Funziona così da lunghi mesi, tu leggi e me lo passi; io scovo un titolo e lo leggo, te ne parlo, te lo porti a casa, me lo porto a casa. Ce lo raccontiamo.
Alcuni che mi proponi sono una pizza. Mi sforzo ad arrivare fino in fondo perché sennò come facciamo a parlarne?
Quanti che ti ho passato io in realtà hai trovati tremendi e non me l’hai detto per non rischiare neanche un po’ di contraddirmi?
La guardiana del paradiso dei libri questa volta è meno bellicosa; forse l’ostinatezza del ripresentarsi in capo a pochi minuti, munita di foto è un primo lasciapassare.
Ma non è lei a concedere il tesserino.
Qui, nel primo antro disordinato, si compila solo una “carta d’ingresso”: dati anagrafici e numero di documento e con questo foglietto anni settanta si può marciare trionfali oltre la seconda porta.
Quando erano nello stesso edificio Elisa e Michele non avevano bisogno di sentirsi per telefono. Qualunque gomito di corridoio poteva servire a scambiarsi libri e articoli.
Si stampavano l’uno con l’altro gli editoriali più interessanti, della stessa idea politica, manco a dirlo.
A casa avevano fatto l’abbonamento alle stesse riviste e se ne segnalavano i pezzi. Nei momenti di maggiore noia si erano anche divertiti a risolvere i quiz e li avevano spediti firmati da una sigla che comprendesse i nomi di entrambi, come i giochini dei bambini delle medie.
Lo stanzone verso il quale l’hanno sospinta per l’emissione dell’agognata tessera a Elisa pare immenso; le vengono in mente le splendide biblioteche delle ville dei ricchi in costumi ottocenteschi: scaffali scuri e un po’ sberciati, fino al soffitto, con una sottile balconata che corre tutto intorno.
Al centro le immancabili file ordinate di cassettini dell’archivio: ognuno di essi contiene un pacco di cartoncini forati e infilati nella sbarretta, così da poterli scorrere con un solo dito.
Lo stesso sistema visto in biblioteche ovunque; perfino la calligrafia che ha vergato i più vecchi sembra la stessa. Elisa si chiede se c’è all’origine una regola comune all’intera penisola per la tenuta degli schedari, per la dimensione delle schedine, per lo spessore dell’inchiostro di titoli e autori e argomenti e codici.
Dietro il grosso bancone delle consegne le facce degli impiegati però non sono molto diverse da quelle dei dipendenti comunali addetti alle dimesse consuete biblioteche rionali: lenti, sospesi in pensieri lontani, uomini sui cinquanta finto-alternativi con i capelli lunghi, donne grasse che bevono thè dai bicchieri di plastica pucciandoci dentro tre rigorosamente tre biscotti, sandaletti, una quarantenne abbronzata post ferie che passerebbe inosservata per strada e qui sembra Miss Muretto.
Con Michele la biblioteca rionale era un posto consueto: una piccola sala luminosa al piano terra, circondata da un accenno di giardino, con pochi, miseri libri disposti su scaffali colorati e accessibili a chiunque semplicemente allungando la mano. Serviva anche a passarci qualche intervallo pranzo invernale. A Elisa la situazione sembrava imbarazzante, aveva sempre paura che qualcuno si lamentasse delle chiacchiere che facevano leggendo a turno, provando a rivedere gli esercizi di matematica di uno dei figli di Michele, o commentando l’ultima lezione di storia di uno dei figli di Elisa. La verità è che Elisa non si preoccupava che qualcuno facesse loro un ssssshhh seccato: era ossessionata dall’idea che alzassero l’indice a domandare ragione di quel loro stare insieme così spesso e nessuno dei due avrebbe saputo come rispondere. Eppure, si diceva, se lei stessa fosse stata osservatrice esterna delle scenette quotidiane che li vedevano protagonisti fra un ascensore e un angolo macchinetta caffè, non avrebbe avuto dubbi.
Alla fine la tesserina di cartone, con quella sua vecchia foto pinzata in un angolo, le viene consegnata ed Elisa chiede le spiegazioni per il ritiro: tutto sembra così austero e inefficiente, ma qualche solerte innovatore ha voluto su un lato del salone una fila di personal computer, con i titoli dell’archivio in rete e un solo clic per inviare l’ordine all’addetto nascosto chissà dove.
Fatto.
Si tratta solo di attendere quei venti, trenta minuti che un bradipo umano porti i due romanzi sul bancone della consegna; il tempo per guardarsi intorno, passeggiare fra gli schedari, chiedersi che cosa possa mai esserci nei libri grossi grossi e ingrigiti che tappezzano le pareti, i cui titoli fanno riferimento a cose pompose come proposte di legge, richieste di brevetto depositate, testimonianze misteriose di una vita civile organizzata in un modo a lei ignoto.
Questa attesa sarebbe trascorsa con Michele, forse, se lo avesse trovato in ufficio al rientro dalle ferie.
Quando il trasferimento di Elisa era stato ufficializzato, avevano ripetuto come sciocchi all’infinito il ritornello:
che problema c’è
qualche fermata di metropolitana
tutti i giorni
continuare a sentirci
i nostri libri
la nostra matematica
ho scoperto che vicino c’è una biblioteca grande
ci andiamo...
Elisa alla sera si sentiva esausta i primi giorni; non riusciva ad allontanarsi dalla scrivania senza l’angoscia di perdersi un possibile trillo, teneva incessantemente sotto controllo la posta interna, si lamentava con tutti, trovava squallido l’ufficio open space, ostile e pretenzioso il quartiere e preferiva essere lei a raggiungere Michele all’ora di pranzo, studiando il percorso più veloce nei sotterranei della metropolitana, contando il numero di carrozza più vicino all’uscita, per non perdere tempo, per starci nell’ora.
Non avevano combinato più nulla: sulle panchine del parchetto era difficile persino tenere in mano carte e libro, mancava la voglia, mancava il senso. Avevano preso il panino o il gelato. Elisa parlava, parlava e si lamentava della nuova sistemazione, del fallito tentativo di opporsi al trasferimento, del capetto di turno che l’aveva dichiarata insostituibile, facendole un danno mentre ufficialmente la lodava.
Un paio di volte era squillato il cellulare e non c’era giustificazione per dire dove fosse a quell’ora e, alla presenza di Michele, la situazione le era apparsa difficile, ambigua: non c’erano parole precise per capire chi erano e che cosa stavano facendo in realtà.
Le ferie quasi un sollievo fisico.
Quelle di Elisa erano le solite.
Michele aveva detto che sarebbe andato a zonzo in moto, lui e sua moglie da soli, i figli ormai grandi. Una cosa romantica, aveva pensato Elisa. Come ai vecchi tempi, era sfuggito inopportunamente a Michele.
Eppure del giorno del rientro che le aveva detto, Elisa era certa.
Come era certo che era ormai trascorsa quasi una settimana e quindi il collega che aveva risposto, invece di Michele, la data del rientro l’aveva detta giusta.
L’abbronzatura di Elisa si lavava via un pezzo per volta e non era già più tanto lucida.
Chissà forse una decisione improvvisa, un problema... speriamo di no; oppure semplicemente delle ferie bellissime che valeva la pena prolungare, semplicemente.
Elisa solleva lo sguardo verso il bancone dove sono stati posati due libri; l’impiegato con la faccia rotonda li rigira fra le mani e recita ad alta voce il suo cognome; “Prendo nota che sono integri, senza segni; controlli anche lei, prego”.
Sono nuovissimi, deve constatare Elisa, nessuno li ha mai letti.
Le piace questa sensazione di carta fresca, questo pacchetto compatto di libro mai aperto. Come se essere la prima a sfogliare un libro che dovrebbe essere là per tutti, a disposizione di centinaia di mani affamate, fosse un privilegio raro, un regalo.
Questa biblioteca è bellissima,
comoda,
importante,
ci verrò spesso,
davvero spesso.
Ormai.
Sarebbe stato scontato, solo poche settimane fa, che in un posto così, la prima volta, si andasse insieme.
Il numero civico coincide con quello del museo, cioè con l’ingresso maestoso e malridotto di un palazzo antico; lo sguardo un po’ incerto di Elisa si incrocia con quello di turisti convinti, alcuni dei quali addirittura si fanno fotografare sotto la statua, al centro del primo scarno cortiletto.
Però lo scalone solenne che, alla fine di un ampio corridoio in penombra, ornato di statue grosse e insensate, conduce alla biblioteca, le strappa un sorriso di soddisfazione: fa scena percorrerne i gradini che procedono verso il pianerottolo, dove si può decidere perfino se proseguire dalla rampa destra o dalla rampa sinistra, per farsi accogliere da porte massicce di legno antico e vetro, verso un mondo profumato di carta vecchia.
Elisa si è fatta questa stupida idea che chi varchi l’ingresso di una biblioteca ammuffita sia una specie di eroe; che gli impiegati sepolti sotto la volta di affreschi ingrigiti debbano solo sorriderle e premiarla, e riversarle libri e sapere e gentilezza.
La donna invece la redarguisce in malo modo: “Prego!” vocetta acuta “signora! Le borse vanno lasciate negli armadietti al piano ammezzato”.
Sì, Elisa ha visto il bugigattolo inquietante sul lato sinistro dello scalone, salendo.
“Per iscriversi al prestito, mi scusi?”
“Carta d’identità, foto tessera, codice fiscale”.
Ributtata sul pianerottolo, Elisa si rammenta di una fotina persa in qualche piega del portafoglio, da qualche anno.
Lotta con la serratura della cassetta: bisogna infilare una moneta da un euro per poter girare la chiavetta, lascia la borsa, trattiene il portafoglio, il foglietto dove ha segnato senza un vero criterio i titoli da cercare, le chiavi dell’armadietto le cadono, che ne faccio del cellulare, perderò qualcosa...
Di Michele in realtà non sa nulla. Eppure si erano ripetuti all’infinito i numeri dei giorni: qui cominciano le tue ferie, poi tu torni ma io sono già partita, però se tu sei in ufficio provo a richiamarti dal cellulare, se posso; poi parti anche tu, il “silenzio-radio” quanto dura? Poco, dai. Rientriamo lo stesso giorno.
Quali libri porti?
Tu che cosa leggi?
Funziona così da lunghi mesi, tu leggi e me lo passi; io scovo un titolo e lo leggo, te ne parlo, te lo porti a casa, me lo porto a casa. Ce lo raccontiamo.
Alcuni che mi proponi sono una pizza. Mi sforzo ad arrivare fino in fondo perché sennò come facciamo a parlarne?
Quanti che ti ho passato io in realtà hai trovati tremendi e non me l’hai detto per non rischiare neanche un po’ di contraddirmi?
La guardiana del paradiso dei libri questa volta è meno bellicosa; forse l’ostinatezza del ripresentarsi in capo a pochi minuti, munita di foto è un primo lasciapassare.
Ma non è lei a concedere il tesserino.
Qui, nel primo antro disordinato, si compila solo una “carta d’ingresso”: dati anagrafici e numero di documento e con questo foglietto anni settanta si può marciare trionfali oltre la seconda porta.
Quando erano nello stesso edificio Elisa e Michele non avevano bisogno di sentirsi per telefono. Qualunque gomito di corridoio poteva servire a scambiarsi libri e articoli.
Si stampavano l’uno con l’altro gli editoriali più interessanti, della stessa idea politica, manco a dirlo.
A casa avevano fatto l’abbonamento alle stesse riviste e se ne segnalavano i pezzi. Nei momenti di maggiore noia si erano anche divertiti a risolvere i quiz e li avevano spediti firmati da una sigla che comprendesse i nomi di entrambi, come i giochini dei bambini delle medie.
Lo stanzone verso il quale l’hanno sospinta per l’emissione dell’agognata tessera a Elisa pare immenso; le vengono in mente le splendide biblioteche delle ville dei ricchi in costumi ottocenteschi: scaffali scuri e un po’ sberciati, fino al soffitto, con una sottile balconata che corre tutto intorno.
Al centro le immancabili file ordinate di cassettini dell’archivio: ognuno di essi contiene un pacco di cartoncini forati e infilati nella sbarretta, così da poterli scorrere con un solo dito.
Lo stesso sistema visto in biblioteche ovunque; perfino la calligrafia che ha vergato i più vecchi sembra la stessa. Elisa si chiede se c’è all’origine una regola comune all’intera penisola per la tenuta degli schedari, per la dimensione delle schedine, per lo spessore dell’inchiostro di titoli e autori e argomenti e codici.
Dietro il grosso bancone delle consegne le facce degli impiegati però non sono molto diverse da quelle dei dipendenti comunali addetti alle dimesse consuete biblioteche rionali: lenti, sospesi in pensieri lontani, uomini sui cinquanta finto-alternativi con i capelli lunghi, donne grasse che bevono thè dai bicchieri di plastica pucciandoci dentro tre rigorosamente tre biscotti, sandaletti, una quarantenne abbronzata post ferie che passerebbe inosservata per strada e qui sembra Miss Muretto.
Con Michele la biblioteca rionale era un posto consueto: una piccola sala luminosa al piano terra, circondata da un accenno di giardino, con pochi, miseri libri disposti su scaffali colorati e accessibili a chiunque semplicemente allungando la mano. Serviva anche a passarci qualche intervallo pranzo invernale. A Elisa la situazione sembrava imbarazzante, aveva sempre paura che qualcuno si lamentasse delle chiacchiere che facevano leggendo a turno, provando a rivedere gli esercizi di matematica di uno dei figli di Michele, o commentando l’ultima lezione di storia di uno dei figli di Elisa. La verità è che Elisa non si preoccupava che qualcuno facesse loro un ssssshhh seccato: era ossessionata dall’idea che alzassero l’indice a domandare ragione di quel loro stare insieme così spesso e nessuno dei due avrebbe saputo come rispondere. Eppure, si diceva, se lei stessa fosse stata osservatrice esterna delle scenette quotidiane che li vedevano protagonisti fra un ascensore e un angolo macchinetta caffè, non avrebbe avuto dubbi.
Alla fine la tesserina di cartone, con quella sua vecchia foto pinzata in un angolo, le viene consegnata ed Elisa chiede le spiegazioni per il ritiro: tutto sembra così austero e inefficiente, ma qualche solerte innovatore ha voluto su un lato del salone una fila di personal computer, con i titoli dell’archivio in rete e un solo clic per inviare l’ordine all’addetto nascosto chissà dove.
Fatto.
Si tratta solo di attendere quei venti, trenta minuti che un bradipo umano porti i due romanzi sul bancone della consegna; il tempo per guardarsi intorno, passeggiare fra gli schedari, chiedersi che cosa possa mai esserci nei libri grossi grossi e ingrigiti che tappezzano le pareti, i cui titoli fanno riferimento a cose pompose come proposte di legge, richieste di brevetto depositate, testimonianze misteriose di una vita civile organizzata in un modo a lei ignoto.
Questa attesa sarebbe trascorsa con Michele, forse, se lo avesse trovato in ufficio al rientro dalle ferie.
Quando il trasferimento di Elisa era stato ufficializzato, avevano ripetuto come sciocchi all’infinito il ritornello:
che problema c’è
qualche fermata di metropolitana
tutti i giorni
continuare a sentirci
i nostri libri
la nostra matematica
ho scoperto che vicino c’è una biblioteca grande
ci andiamo...
Elisa alla sera si sentiva esausta i primi giorni; non riusciva ad allontanarsi dalla scrivania senza l’angoscia di perdersi un possibile trillo, teneva incessantemente sotto controllo la posta interna, si lamentava con tutti, trovava squallido l’ufficio open space, ostile e pretenzioso il quartiere e preferiva essere lei a raggiungere Michele all’ora di pranzo, studiando il percorso più veloce nei sotterranei della metropolitana, contando il numero di carrozza più vicino all’uscita, per non perdere tempo, per starci nell’ora.
Non avevano combinato più nulla: sulle panchine del parchetto era difficile persino tenere in mano carte e libro, mancava la voglia, mancava il senso. Avevano preso il panino o il gelato. Elisa parlava, parlava e si lamentava della nuova sistemazione, del fallito tentativo di opporsi al trasferimento, del capetto di turno che l’aveva dichiarata insostituibile, facendole un danno mentre ufficialmente la lodava.
Un paio di volte era squillato il cellulare e non c’era giustificazione per dire dove fosse a quell’ora e, alla presenza di Michele, la situazione le era apparsa difficile, ambigua: non c’erano parole precise per capire chi erano e che cosa stavano facendo in realtà.
Le ferie quasi un sollievo fisico.
Quelle di Elisa erano le solite.
Michele aveva detto che sarebbe andato a zonzo in moto, lui e sua moglie da soli, i figli ormai grandi. Una cosa romantica, aveva pensato Elisa. Come ai vecchi tempi, era sfuggito inopportunamente a Michele.
Eppure del giorno del rientro che le aveva detto, Elisa era certa.
Come era certo che era ormai trascorsa quasi una settimana e quindi il collega che aveva risposto, invece di Michele, la data del rientro l’aveva detta giusta.
L’abbronzatura di Elisa si lavava via un pezzo per volta e non era già più tanto lucida.
Chissà forse una decisione improvvisa, un problema... speriamo di no; oppure semplicemente delle ferie bellissime che valeva la pena prolungare, semplicemente.
Elisa solleva lo sguardo verso il bancone dove sono stati posati due libri; l’impiegato con la faccia rotonda li rigira fra le mani e recita ad alta voce il suo cognome; “Prendo nota che sono integri, senza segni; controlli anche lei, prego”.
Sono nuovissimi, deve constatare Elisa, nessuno li ha mai letti.
Le piace questa sensazione di carta fresca, questo pacchetto compatto di libro mai aperto. Come se essere la prima a sfogliare un libro che dovrebbe essere là per tutti, a disposizione di centinaia di mani affamate, fosse un privilegio raro, un regalo.
Questa biblioteca è bellissima,
comoda,
importante,
ci verrò spesso,
davvero spesso.
Ormai.
Con grazia
Una volta Grazia ed io siamo addirittura andate al cinema insieme.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
lunedì 2 marzo 2009
Non vi lascerò orfani
Perché non leggere Non vi lascerò orfani? Mi sembra di aver capito che in esso una donna più o meno della mia età, cresciuta nella mia stessa epoca, racconta se stessa in rapporto ai propri genitori e racconta il lutto della perdita della propria madre. Non dovrebbe essere una lettura attraente, dato che l’autrice è una donna intelligente le cui creature televisive di solito seguo con una certa attrazione e dato che ho conosciuto l’andarsene da casa, il contatto telefonico quotidiano, l’ambiguità di un mondo e di una autorità parentale lasciata senza rimpianti e rimpianta per tutta la vita nello stesso momento? Ci sono tutte le premesse perché questo libro MI interessi.
Invece è scattato il rifiuto.
Credo di aver bisogno dello schermo della finzione romanzesca. So che l’autore sta facendo inevitabilmente dell’autobiografia anche nel romanzo più fantascientifico, ma preferisco il tacito accordo reciproco per cui tu mi inganni raccontando il tuo vissuto come se fosse una storia inventata e io leggendoti posso immedesimarmi nella storia di un personaggio che mi modello anche un po’ a modo mio; insomma non mi va che l’immagine della star televisiva si sovrapponga fastidiosamente, come se stessi leggendo una rivista di gossip, con tutto il bagaglio altalenante di curiosità idiota e presa di distanza orgogliosa che ne consegue.
Invece è scattato il rifiuto.
Credo di aver bisogno dello schermo della finzione romanzesca. So che l’autore sta facendo inevitabilmente dell’autobiografia anche nel romanzo più fantascientifico, ma preferisco il tacito accordo reciproco per cui tu mi inganni raccontando il tuo vissuto come se fosse una storia inventata e io leggendoti posso immedesimarmi nella storia di un personaggio che mi modello anche un po’ a modo mio; insomma non mi va che l’immagine della star televisiva si sovrapponga fastidiosamente, come se stessi leggendo una rivista di gossip, con tutto il bagaglio altalenante di curiosità idiota e presa di distanza orgogliosa che ne consegue.
lunedì 23 febbraio 2009
franzen
"Per me, oggi, non c'è niente di più sexy di una donna che legge"
Jonathan Franzen
Ahimé, temo sia una opinione tutta sua...
Jonathan Franzen
Ahimé, temo sia una opinione tutta sua...
venerdì 6 febbraio 2009
che ne dici di una pizza piuttosto che un panino piuttosto che un piatto di pasta piuttosto che un'insalata...
Dice Luigi che nessuno usa il semplice “o” piuttosto che il semplice “oppure”; anzi, esagera Luigi e dice che il nostro parlare è tutto una serie di “piuttosto che”, uno in fila all’altro con qualche altra parolina in secondo piano. E insiste a dire che il significato vero di “piuttosto che” è un altro, che non è un vero sostituto di “oppure”.
Chissà come fanno queste espressioni a diventare prima comuni, poi troppo diffuse e infine insopportabili senza che noi ci accorgiamo del loro strisciare segreto nelle nostre conversazioni.
Chissà come fanno queste espressioni a diventare prima comuni, poi troppo diffuse e infine insopportabili senza che noi ci accorgiamo del loro strisciare segreto nelle nostre conversazioni.
giovedì 29 gennaio 2009
Uomini che odiano le donne di Stieg Larsson
Va bene, va bene, dal punto di vista letterario è inesistente: non esiste una metafora, ha la stessa poesia di un verbale di una riunione di condominio, il procedere degli eventi è lentissimo, i personaggi vengono descritti mentre si lavano, si muovono per casa, accendono le luci, infilano le scarpe... però l’effetto è che il narratore scompare completamente dietro i fatti e il lettore lentamente si abitua a cenare e a svegliarsi con i protagonisti e si immerge sempre di più nei fatti della storia thriller; insomma un sano giallo, di quelli che ti dimentichi di quello che ti circonda, non sai più che ora è, sei spaccata in due dal desiderio contemporaneo di affrettarsi a sapere che succede da un lato e rallentare per gustarsi il momento della curiosità e della scoperta dall’altro.
Mi manca 100 pagine su 600, ho dovuto chiudere il libro in ascensore perchè ero arrivata in ufficio, cavolo, ho lasciato il protagonista in mezzo ai campi con qualcuno che gli spara contro: anche questo è il gusto della vita!
Mi manca 100 pagine su 600, ho dovuto chiudere il libro in ascensore perchè ero arrivata in ufficio, cavolo, ho lasciato il protagonista in mezzo ai campi con qualcuno che gli spara contro: anche questo è il gusto della vita!
giovedì 22 gennaio 2009
La storia di un matrimonio di Andrew Sean Greer
Il fatto che la storia narrata sia non scontata sarebbe già da solo un valido motivo per promuovere questo romanzo.
Diversi piani di racconto: una storia d’amore un po’ sofferta; un notevole approfondimento psicologico dei personaggi e delle relazioni matrimoniali; un racconto di guerra da una angolatura strana: quella dei disertori; uno spaccato della società americana degli anni cinquanta, maccartista e razzista.
Alla fine anche un insegnamento: bisognerebbe evitare gli equivoci, bisognerebbe parlare sempre, bisognerebbe essere disponibili a ascoltare anche mille parole inutili perché in mezzo ci possono essere quelle due o tre parole che danno senso a tutto, bisognerebbe verificare sempre con l’altro se il castello di interpretazioni che abbiamo nella testa corrisponda davvero ai suoi pensieri, bisognerebbe...
Diversi piani di racconto: una storia d’amore un po’ sofferta; un notevole approfondimento psicologico dei personaggi e delle relazioni matrimoniali; un racconto di guerra da una angolatura strana: quella dei disertori; uno spaccato della società americana degli anni cinquanta, maccartista e razzista.
Alla fine anche un insegnamento: bisognerebbe evitare gli equivoci, bisognerebbe parlare sempre, bisognerebbe essere disponibili a ascoltare anche mille parole inutili perché in mezzo ci possono essere quelle due o tre parole che danno senso a tutto, bisognerebbe verificare sempre con l’altro se il castello di interpretazioni che abbiamo nella testa corrisponda davvero ai suoi pensieri, bisognerebbe...
mercoledì 14 gennaio 2009
Momenti che danno senso a tutto...
... per esempio al mattino tuo figlio ti propone l’esercizio di fisica che non ha risolto la sera prima; ti ci scapi un po’ sopra con la tazza da tè in mano e abbozzi un sentiero risolutivo ma non arrivi al risultato del testo; ci ripensi in metropolitana; ti viene in mente dove hai sbagliato; gli mandi un SMS con l’idea giusta appena arrivata in ufficio; ti risponde con un calcolo che però non viene; non ti ricordi i numeri, ma gli rimandi un sms spiegandoti meglio; ti risponde OK, è giusto!
Era questo, solo una piccola cosa così che chiedevo alla vita: avere qualcuno con cui scambiarsi sms di amore e fisica... grazie!
Era questo, solo una piccola cosa così che chiedevo alla vita: avere qualcuno con cui scambiarsi sms di amore e fisica... grazie!
lunedì 5 gennaio 2009
patrimonio
Non mi ricordo un inverno così cupo. Io sono nata in un posto in cui a Natale si può passeggiare con il maglioncino. Ma anche qui a Milano, in tutti questi brevi anni, non ricordo un susseguirsi così monotono di giornate livide, di termometro sempre intorno allo zero, di buio presto, di nevicate brevi e intense.
Dire la malinconia che ne deriva è una banalità. Aspetti che migliori e intanto ringrazi il cielo per la casa calda e non ti importa più che non sia poi così bella. La sera hai voglia di rannicchiarti. Al mattino a uscire di casa ti sembra di fare un gran gesto. L’ufficio è vuoto per le vacanze di natale, ti chiedi in che razza di posto sei capitata dove non gliene frega niente a nessuno che tutto si fermi per giorni e non provi nessuna nostalgia però per quel modo di fare da invasati che prende i responsabili degli uffici contabilità sul finire dell’anno, come se davvero il bilancio fosse scritto con il sangue, come se importasse davvero a qualcuno.
Però il silenzio cupo e scuro di questi corridoi antichi mette anche un po’ d’angoscia.
Poi mi dico che sarà colpa del libro di Roth, della morte del padre, del giro di boa ormai già dato.
Mi sembrava di aver letto qualcosa contro il Roth di Patrimonio, qualcosa tipo pornografia, tipo sfruttamento di una tragica intimità corporea del padre morente per farne un ennesimo romanzo di successo.
Io non ho provato schifo o sdegno; mi è sembrato dolce e rispettoso il racconto. Mi è sembrato realistico e universale, umano e rassegnato, amorevole e dignitoso.
Scrittura bellissima, come sempre: è la sua bellezza che ti frega e non riesco più a scollarmi dal cuore il senso della malattia, della morte, della solitudine in questo buio delle cinque da sola in ufficio.
E le previsioni sono pessime...
Dire la malinconia che ne deriva è una banalità. Aspetti che migliori e intanto ringrazi il cielo per la casa calda e non ti importa più che non sia poi così bella. La sera hai voglia di rannicchiarti. Al mattino a uscire di casa ti sembra di fare un gran gesto. L’ufficio è vuoto per le vacanze di natale, ti chiedi in che razza di posto sei capitata dove non gliene frega niente a nessuno che tutto si fermi per giorni e non provi nessuna nostalgia però per quel modo di fare da invasati che prende i responsabili degli uffici contabilità sul finire dell’anno, come se davvero il bilancio fosse scritto con il sangue, come se importasse davvero a qualcuno.
Però il silenzio cupo e scuro di questi corridoi antichi mette anche un po’ d’angoscia.
Poi mi dico che sarà colpa del libro di Roth, della morte del padre, del giro di boa ormai già dato.
Mi sembrava di aver letto qualcosa contro il Roth di Patrimonio, qualcosa tipo pornografia, tipo sfruttamento di una tragica intimità corporea del padre morente per farne un ennesimo romanzo di successo.
Io non ho provato schifo o sdegno; mi è sembrato dolce e rispettoso il racconto. Mi è sembrato realistico e universale, umano e rassegnato, amorevole e dignitoso.
Scrittura bellissima, come sempre: è la sua bellezza che ti frega e non riesco più a scollarmi dal cuore il senso della malattia, della morte, della solitudine in questo buio delle cinque da sola in ufficio.
E le previsioni sono pessime...
venerdì 2 gennaio 2009
gomorra, film
Alla fine la cosa migliore di questi giorni di finta festa frustra è aver trovato il tempo di guardarmi Gomorra; la bellezza che ti prende a pugni e ti ricorda che cosa dovrebbe significare potersi definire dignitosamente una persona, in questa melassa soffocante di nulla che sono le esistenze di noi bravi e ricchi cittadini perbene.
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