Una volta Grazia ed io siamo addirittura andate al cinema insieme.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
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