Di solito si sta radunati vicino alla porta finestra. Il resto della casa è in penombra sin dalle prime ore del pomeriggio. Un paio di finestroni si aprono molto in alto, quasi sul soffitto, ma la nonna Regina vuole che siano ben serrati per la maggior parte del tempo, per paura che vi passino topi, lucertole e altre bestie che circolano sui terrazzini. Cecilia sul terrazzino della casa della nonna non è mai salita, nonostante siano state molte e lunghe le ore del sabato pomeriggio trascorse negli anni sotto l’altissimo soffitto ad arcate: erano le visite obbligate e nessuno dei bambini aveva niente da dire né alla zia ciarliera né tanto meno alla zia silenziosa, le due vestali del tempo immobile.
Vicino alla porta finestra Cecilia aspetta che tornino a prenderla e cerca di tenere caldi almeno i piedi, appoggiati alla pedana circolare di legno grezzo che sostiene e circonda il braciere.
La zia ciarliera ogni tanto le appoggia affettuosa una mano sulla coscia:
“Cecì, che mi dici? Qualche bella novità?”
Gli occhietti sepolti fra le pieghe delle guanciotte dardeggiano promesse di fidanzati facoltosi, richieste affamate di racconti di un qualche possibile particolare piccantello alle quali Cecilia non può rispondere perché non c’è niente da raccontare, né fidanzati, né pretendenti, nemmeno brutti, e questa sua incapacità di regalare qualche piccolo e non innocente brivido di pettegolezzo la fa quasi sentire in colpa.
Da incerto il tempo è diventato pioggia fine e insistente e Cecilia avrebbe avuto bisogno di questo pomeriggio per un ultimo giro sul lungomare, per un respiro di orizzonte prima di chiudere la valigia.
Invece il padre ha organizzato l’ennesimo rito di saluto ai parenti del paese.
Anche queste vacanze non hanno avuto nessuna novità: il treno puzzolente ha cullato sogni di ristoro emotivo all’andata, le tavole imbandite di minestroni e spezzatini si sono alternate a merende a base di focacce unte fatte in casa e, subito, gli ultimi due giorni, si fa la conta delle ore e si saluta tutti, un saluto sorridente e inutile e uno scambio di baci sulle guance, poi di nuovo la stazione e il finestrino lercio e il distacco dai genitori è uno strazio al quale il dondolio del treno cerca di dare un senso per le dodici, tredici ore a seguire.
Non è stata una idea buona restare a far compagnia alla nonna Regina e alle zie, mentre i suoi genitori comprano il vino nero alla cantina sociale. La nonna ci sente solo urlandole nell’orecchio, e poi, da qualche mese, non ci vede più: solo ombre, dice. Il dottore ha scosso la testa perché l’età non giustifica interventi e poi la paziente ha quasi novanta anni e vuole restare vicino al braciere per giornate e giornate, seduta ferma ferma, solo la testa si volta di qua e di là a cercare rumori, sottili movimenti di aria, verso i quali lanciare rimbrotti e ordini.
La zia silenziosa fa un cruciverba facilitato, sotto una luce fioca e quasi appoggia il libretto sul seno prosperosissimo: le braccia sembrano ancora più tozze, a volte le resta la punta della lingua fra le labbra sottili in cerca della parola giusta.
“Stai qua, stai, facci nu’ picca di compagnia. Non lo diciamo neanche alla nonna, ché tanto non ci vede e non ci sente” avevano detto “cussi non si preoccupa”.
Non bisogna preoccupare la nonna. Nella testa di Regina c’è una geometria difensiva che descrive il mondo in poche mosse e rigorosi equilibri; i bambini avevano negli anni imparato a stare seduti per ore sulle sedie impagliate e a trovare giusto che, al minimo cenno di vivacità, mamma e papà riportassero l’universo all’immobilità con un sospiro: “Fermo... per la nonna” e quel cenno del capo come dire che si dovevano a nonna Regina obbedienze assolute e silenziose, sacrifici di esistenze, assurdi riti quotidiani, paura coltivata al riparo di una porta finestra e resa categoria del vivere.
“Che dici Cecì?” la zia ciarliera cerca di animare la penombra che continua a ispessirsi e si diverte all’idea che nonna Regina non sappia che intorno al braciere sia rimasta anche una nipote, malsopportato cavallo di troia di un esercito di elettrodomestici e automobili e donne in pantaloni e televisori a colori che preme, sempre vigorosamente respinto, al di là di quella porta.
Nonna Regina ha le mani ben distese sui braccioli della poltroncina preferita: “E quedda tutte le vote...” nessuno può fermare nonna Regina che parla per sancire, per urticare, per umiliare, per ricondurre a un ricordo millenario e ricostruito a misura “...tutte le vote si vene a pigghia, prima cu parte, la decimila lire, tutte le vote” sbuffa.
“Cé sta dì? Cé sta dì? Cecilia sta qua, sta ‘spetta qua” tenta di rimediare la zia.
“Qua? Dove? Piccé nun me l’a dittu?”
Questo stupido rito dei saluti che non piace a nessuno, pensa Cecilia, ogni volta, ogni volta si sostanzia in questa diecimila lire spiegazzata, che passa da una mano rugosa alla sua con un mezzo sorriso dovuto.
Diecimila lire è il prezzo di mercato di un legame familiare che ogni momento si snoda per natura e si riannoda per convenzione.
“La nonna non ci sta con la capo, Cecì” dice la zia, pasticciando con le parole e i gesti e gli sguardi, immaginando che chiamare in causa la follia senile renda il disastro diplomatico più lieve.
La cattiveria si può coltivare negli anni, per starsene all’ombra, tranquille: “teniamo la mamma che è anziana” o “la mamma no’ vole” può far comodo contro la minaccia di una lusinga della vita; la vita, poi, spesso, ti ripaga per averle saputo resistere, concedendo un regalo finale, qualche mese durante il quale il tuo carnefice, la tua scusa esistenziale, si riduce progressivamente a un malato inascoltato di cui prendersi gioco. “Non lo diciamo alla mamma, cussì sta tranquilla”; gli occhi sono opachi e non vedono le zitelle bambine che si prendono piccole inutili libertà tardive.
Cecilia mette la mano in tasca e sente, liscio, il foglietto delle diecimila lire scivolato sul fondo.
“Stasera non riesco a capire neanche una parola di quello che dice la nonna, zia” e si chiede se risulta credibile la sua smorfietta da bambinona affettuosa.
Il sollievo si contrae in un “menumale” sussurrato che ristagna un momento sul braciere.
E’ arrivato papà. Baci affrettati.
“Piccé nun me l’a dittu ca stava quedda qua? Piccé nun me l’a dittu?” sente Cecilia dietro la porta finestra che si chiude alle sue spalle, intanto ripara i capelli dalla pioggia con le mani e corre verso la macchina.
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