E.R. finisce qui. Forse rivedremo le repliche fino allo sfinimento. E comunque possiamo procurarci i DVD. Ma non è la stessa cosa.
Sapete (per coloro che in questi quindici anni non hanno guardato E.R.) non era un telefilm qualunque. Non c’era una sceneggiatura sciatta e approssimativa, i dialoghi non puzzavano di finto, le storie private non erano mai consolatorie e solo qualche volta hanno preso la deriva dell’assurdo (avete presente quella cosa tipica delle serie televisive che non sai più che cosa far succedere sempre allo stesso personaggio pur di far succedere qualcosa?). Le vicende d’amore (sappiamo tutti che sono il vero richiamo...) erano contorno e collante di contenuti grandiosi. Intorno a quei lettini delle sale emergenza abbiamo visto prendere decisioni controverse, commettere errori, assumersi responsabilità. Abbiamo visto contenuti ETICI e senso della vita. Abbiamo pianto per drammi possibili, veritieri, che scavavano dentro ciascuno di noi perché copiavano dall’autenticità delle esistenze e non viceversa come funziona la nostra attuale macchina televisiva. Con gli autori di E.R. abbiamo condiviso a distanza discussioni anche su grandi temi politici e sociali. Sono riusciti ad essere laici e spirituali, democratici e interrazziali: gli episodi sembravano più testimonianze che creazioni di storie.
Avevo anni e figli in meno. Adesso sono qui che conto i capelli bianchi e mi affanno dietro figli adolescenti. Il protagonista più importante di E.R. era la “responsabilità delle proprie decisioni” e E.R. mi ha aiutato ad affrontare il mio lavoro e l’ambiente del mio ufficio. Con E.R. sono riusciti a fare una cosa che alla televisione, qui, da queste nostre dolorose parti, nessuno più si sogna di chiedere: mi hanno trasmesso dei valori.
In Abby Lockhart e in Susan Lewis mi sono identificata. Sono rimasta malissimo per la morte di Lucy Knight. Ho amato Mark Greene. Ho fatto il tifo per Neela Rasgotra... Sono rincretinita, vero?
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