Everyman è il racconto di una persona che muore; come tutti. Non ha niente di speciale questa persona che muore, ha fatto un po’ di stupidaggini nella vita, qualche errore come tutti; un paio di errori veramente fondamentali, però.
Mi sono chiesta a chi parlasse Roth; a chi consiglierei questa lettura. Penso che i post sessantenni dovrebbero tenersene proprio alla larga perché sprofonderebbero. Penso che i trentenni non lo capirebbero ancora, lo troverebbero solo un po’ funereo, una specie di gioco letterario macabro, esteticamente perfetto.
Così, in preda a una autoreferenzialità anagrafica, mi sembra che i lettori ideali sono quelli che gravitano nel vasto intorno del decennio 40-50 anni, quando gli errori irreversibili che marcano l’esistenza sono stati fatti tutti ma c’è ancora tempo, forse, per capirlo e passare il resto degli anni a crogiolarsi nel perché e i percome, raccontandosene il film e provando a mettere qualche pezza qua e là.
Che il protagonista è morto si sa dalle prime righe ed è inutile che io stia qui a girarci intorno: devo morire anche io e anche io lo so dalle prime righe. E allora perché lo leggo questo libro di cui conosco già da subito il mesto finale? Per la banale speranza che nel mezzo ci sia qualcosa che valga la pena, comunque. Mi immergo con Roth in un esame a posteriori, io che ho più di 40 anni e un bel pezzo di capitoli già scritti definitivamente.
Mi prende, perché è già successo (è Roth, è quello di Pastorale americana, è quello di Il complotto contro l’America, è questa formidabile capacità di racconto di umanità) e dopo un po’ mi accorgo che faccio il tifo: vabbene, muore, ma almeno non muoia SOLO, è questo che desidero fino alla fine, il colpo di scena finale per il quale trepido fino all’ultima riga, non senza piangere a singhiozzi, veri, nella penultima straziante sequenza, sulla tomba dei suoi genitori, e del mio padre morto, e sulla mia tomba e su quella di Roth, e di tutti quelli che oggi ancora vivono vicini a me, che non amo abbastanza e mi toccherà forse vedere cadaveri, infilati in una cassa e in un buco.
Che cosa abbiamo sbagliato? Quella seconda moglie così perfetta, tradita in maniera così stupida? Quella figlia affettuosa? Quei due figli maschi lasciati crescere senza padre per leggerezza, non per cosciente menefreghismo? Quelle amicizie che magari valeva la pena tenere care, che non finissero con l’essere alla fine solo l’angosciante dovere di telefonate di condoglianze? E quella stupida idea di credere che l’età anziana coincidesse con la magnifica libertà creativa, con la possibilità finalmente di dare sfogo all’estro troppo soffocato dai doveri di lavoro e di famiglia nel corso della cosiddetta vita attiva?
Quando ho chiuso il libro ho pensato: ma quanto tempo avrò ancora a disposizione per rimediare qualcuno che ci sia quel giorno a tenermi la mano?
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