Prendi un mucchio di fotografie e gioca a stenderle dal verso sbagliato e in ordine casuale su un tavolo; poi rigirale e osservale nella sequenza, ti racconteranno una storia? Non è detto. Voglio dire, non è detto che si tratti di una storia che ha un capo e una coda, ordinata, sequenziale e consolatoria.
Potrebbe invece scaturirne una pianta dodecagonale come una fortezza, o un labirinto senza punti di riferimento, o un gioco di scatole cinesi in cui chi racconta riporta un racconto di qualcuno che a sua volta racconta e riporta da altri che riportano storie che sono in realtà solo puzzle sfocati di immagini sbiadite che si scompongono e ricompongono. Oppure è un cerchio che si richiude su se stesso per cui vedi Napoleone ad Austerlitz e vedi il dipanarsi del novecento europeo con le sue fortezze, nate come celebrazione di superiorità difensiva del tutto illusoria e finite come luoghi di deportazione e sterminio nazista. L’architettura e gli oggetti: stazioni ferroviarie e monumenti, palazzi e cupole, e oggetti, chincaglierie, e poi aerei, e libri, e registri.
Vedi i simboli di grandezza architettonica opprimenti e senza umanità e vedi questi stessi simboli disseccarsi, ricoprirsi di guano e diventare tombe sepolcrali, cataste di documenti assurdamente minuziosi a incasellare la realtà con la presunzione di codificarla e renderla perfetta; rovine in bianco e nero di una grandezza civile basata sull’orrore; e vedi tutto decomporsi nelle storie piccole, puntini di dolore, tombe senza nome di quelli che hanno dovuto offrire le proprie esistenze alla follia della deportazione e dello sterminio; un labirinto senza via d’uscita, perché foto e parole continuano a girare a vuoto come il protagonista dal cognome che dà il titolo, ex bambino ebreo affidato a un treno della salvezza da Praga a Londra negli anni della persecuzione nazista, condannato a una solitudine interiore quasi folle e a un girovagare in età matura fra Parigi e Praga e Londra, inseguendo vanamente per il cuore dell’Europa la propria identità.
Questo libro è un viaggio nel cimitero della illusione della civiltà.
E’ un monolite di scrittura spessa e colta, eppure fluida. Non c’è un solo capoverso. La prosa procede per continue aperture di nuovi fronti di cose filosofiche e suggestioni artistiche, di perle di conoscenza e stupori naturalistici, di cronache di piccoli oggetti e bozzetti della memoria, mai un discorso aperto si chiude, ogni tombino che si dischiude ti trascina in un gorgo ad aprirne un altro, come in un malinconico e crepuscolare gioco di continue associazioni mentali. Buchi neri di malinconia incurvano di tanto in tanto lo spazio di angosciante apnea nel quale procede inebetita la lettura: uno su tutti, la terribile foto riemersa dal nulla di Agata, la mamma perduta, deportata, svanita nei fumi della follia della storia, un viso scuro che mi assomiglia troppo.
Potente.
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