Abbandonato!
Troppi Jack Daniel's per un lettore astemio come me!
A parte gli scherzi: un universo emotivo a me del tutto sconosciuto, un mondo di adulti maschi tra la caccia all’ultima segretaria carina, l’ultima festa di scapoli che finisce in orgia, l’ultima corsa in macchina, l’ultima violenza fisica a una donna indifesa e fiumi, fiumi, cateratte di alcol.
Il confine fra la sacrosanta esplorazione di una deriva emozionale e la compiaciuta condivisione di certe categorie mentali da stereotipo maschile è sottile. Così la lettura diventa fastidiosa, senza togliere nulla all’ottimo stile.
... questo libro è ancora più grande. E quando lo avrò finito ne comincerò un altro e quello sarà ancora più grande, e poi un altro ancora, e allora la mia casa si allargherà fino a diventare una magione, piena di stanze dove loro non potranno trovarmi... (Nick Hornby, How to be good)
lunedì 30 marzo 2009
venerdì 27 marzo 2009
il dipendente
Monologo fatto di frasi brevi, piccoli fatti, pensieri che mentono a se stessi.
Feroce resoconto di alcune giornate di un agente di commercio di una multinazionale fra una Audi e una stanza d’albergo.
Immerso nella spirale alienante (capo - aumento di stipendio – benefit – obiettivi da raggiungere – colleghi che ti fanno le scarpe – lucidi per la presentazione – tenore di vita per salvare le apparenze – orari di lavoro che si confondono con gli orari di vita) il protagonista perde progressivamente il controllo della sua catastrofica vita privata fino poi a smarrire la lucidità emotiva anche nei rapporti di lavoro, suo ultimo contatto con la realtà.
Insomma il racconto senza scampo su una povera persona sul bordo della follia, il paradosso della mia vita lavorativa, o forse la mia realtà qualche volta, in qualche momento.
Feroce resoconto di alcune giornate di un agente di commercio di una multinazionale fra una Audi e una stanza d’albergo.
Immerso nella spirale alienante (capo - aumento di stipendio – benefit – obiettivi da raggiungere – colleghi che ti fanno le scarpe – lucidi per la presentazione – tenore di vita per salvare le apparenze – orari di lavoro che si confondono con gli orari di vita) il protagonista perde progressivamente il controllo della sua catastrofica vita privata fino poi a smarrire la lucidità emotiva anche nei rapporti di lavoro, suo ultimo contatto con la realtà.
Insomma il racconto senza scampo su una povera persona sul bordo della follia, il paradosso della mia vita lavorativa, o forse la mia realtà qualche volta, in qualche momento.
lunedì 23 marzo 2009
Sotto gli occhi dell'Occidente
Come un Delitto e castigo minore, più a galla, più didascalico.
Alcune tesi precise nella mente di Conrad: l’anima del popolo russo e l’incapacità dell’occidente di coglierne appieno la tragica grandezza, ma soprattutto gli aspetti contraddittori di ogni movimento rivoluzionario.
Col senno di poi, di chi sa come poi nel corso del novecento sia andata a finire, questo romanzo e il suo carico di contenuti storici e sociali diventano una occasione interessantissima.
Se si prescinde dallo stile inevitabilmente datato, la vicenda è anche intrigante; incredibile vero? Mai avrei immaginato che un polveroso romanzo del 1911 mi avrebbe tenuta sulle spine a chiedermi che ne sarà del protagonista, il povero Razumov, uno di noi.
Alcune tesi precise nella mente di Conrad: l’anima del popolo russo e l’incapacità dell’occidente di coglierne appieno la tragica grandezza, ma soprattutto gli aspetti contraddittori di ogni movimento rivoluzionario.
Col senno di poi, di chi sa come poi nel corso del novecento sia andata a finire, questo romanzo e il suo carico di contenuti storici e sociali diventano una occasione interessantissima.
Se si prescinde dallo stile inevitabilmente datato, la vicenda è anche intrigante; incredibile vero? Mai avrei immaginato che un polveroso romanzo del 1911 mi avrebbe tenuta sulle spine a chiedermi che ne sarà del protagonista, il povero Razumov, uno di noi.
lunedì 9 marzo 2009
Le Correzioni di Jonathan Franzen
Un grande affresco contemporaneo, ottima lettura per i quarantenni alle prese con la contemplazione desolata e incredula del fallimento di quello che si voleva/poteva/doveva essere e che, nello stesso tempo, cominciano ad essere consapevoli di quanto poco manchi ormai a diventare Alfred e Enid, vecchi, testardi, incarogniti ed egoisti.
A 40 anni, infatti, si è proprio sul limite che ci consente di identificarci da un lato con i tre figli: i patetici giovanilismi di Chip, l’incapacità di Denise di tenere fede alle proprie brillanti premesse, i teatrini matrimoniali di Gary; e dall’altro con il malinconico procedere dei giorni dei loro genitori: Alfred che da padre tiranno si trasforma via via in un demente alle prese con allucinazioni coprofobiche e Enid con i suoi cliché benpensanti, ammuffiti ormai, insieme a tutte le vecchie cose accatastate in cantina.
Brillante stile ormai tipico dei migliori romanzi americani contemporanei: un po' Pastorale americana, un po' Wallace, un po' Altman, un po’ Falò delle vanità e un po’, perché no, Desperate Housewife.
Intelligente, psicologicamente tagliente, socialmente profondo.
Sbilanciato nelle parti narrative: il capitolo su Denise sembra a tratti scritto in preda a un momento di follia; l’avventura lituana di Chip è decontestualizzata e troppo bizzarra. Però la discesa di Alfred all’inferi della demenza senile è ritratta con grande sapienza.
A 40 anni, infatti, si è proprio sul limite che ci consente di identificarci da un lato con i tre figli: i patetici giovanilismi di Chip, l’incapacità di Denise di tenere fede alle proprie brillanti premesse, i teatrini matrimoniali di Gary; e dall’altro con il malinconico procedere dei giorni dei loro genitori: Alfred che da padre tiranno si trasforma via via in un demente alle prese con allucinazioni coprofobiche e Enid con i suoi cliché benpensanti, ammuffiti ormai, insieme a tutte le vecchie cose accatastate in cantina.
Brillante stile ormai tipico dei migliori romanzi americani contemporanei: un po' Pastorale americana, un po' Wallace, un po' Altman, un po’ Falò delle vanità e un po’, perché no, Desperate Housewife.
Intelligente, psicologicamente tagliente, socialmente profondo.
Sbilanciato nelle parti narrative: il capitolo su Denise sembra a tratti scritto in preda a un momento di follia; l’avventura lituana di Chip è decontestualizzata e troppo bizzarra. Però la discesa di Alfred all’inferi della demenza senile è ritratta con grande sapienza.
giovedì 5 marzo 2009
franzen 2
... quel senso di futilità sarebbe stato il chiodo fisso della sua vita. Un’attesa monotona e poi una promessa infranta, la sgomenta comprensione di quanto fosse ormai tardi.
Jonathan Franzen, Le correzioni
Jonathan Franzen, Le correzioni
mercoledì 4 marzo 2009
regina
Di solito si sta radunati vicino alla porta finestra. Il resto della casa è in penombra sin dalle prime ore del pomeriggio. Un paio di finestroni si aprono molto in alto, quasi sul soffitto, ma la nonna Regina vuole che siano ben serrati per la maggior parte del tempo, per paura che vi passino topi, lucertole e altre bestie che circolano sui terrazzini. Cecilia sul terrazzino della casa della nonna non è mai salita, nonostante siano state molte e lunghe le ore del sabato pomeriggio trascorse negli anni sotto l’altissimo soffitto ad arcate: erano le visite obbligate e nessuno dei bambini aveva niente da dire né alla zia ciarliera né tanto meno alla zia silenziosa, le due vestali del tempo immobile.
Vicino alla porta finestra Cecilia aspetta che tornino a prenderla e cerca di tenere caldi almeno i piedi, appoggiati alla pedana circolare di legno grezzo che sostiene e circonda il braciere.
La zia ciarliera ogni tanto le appoggia affettuosa una mano sulla coscia:
“Cecì, che mi dici? Qualche bella novità?”
Gli occhietti sepolti fra le pieghe delle guanciotte dardeggiano promesse di fidanzati facoltosi, richieste affamate di racconti di un qualche possibile particolare piccantello alle quali Cecilia non può rispondere perché non c’è niente da raccontare, né fidanzati, né pretendenti, nemmeno brutti, e questa sua incapacità di regalare qualche piccolo e non innocente brivido di pettegolezzo la fa quasi sentire in colpa.
Da incerto il tempo è diventato pioggia fine e insistente e Cecilia avrebbe avuto bisogno di questo pomeriggio per un ultimo giro sul lungomare, per un respiro di orizzonte prima di chiudere la valigia.
Invece il padre ha organizzato l’ennesimo rito di saluto ai parenti del paese.
Anche queste vacanze non hanno avuto nessuna novità: il treno puzzolente ha cullato sogni di ristoro emotivo all’andata, le tavole imbandite di minestroni e spezzatini si sono alternate a merende a base di focacce unte fatte in casa e, subito, gli ultimi due giorni, si fa la conta delle ore e si saluta tutti, un saluto sorridente e inutile e uno scambio di baci sulle guance, poi di nuovo la stazione e il finestrino lercio e il distacco dai genitori è uno strazio al quale il dondolio del treno cerca di dare un senso per le dodici, tredici ore a seguire.
Non è stata una idea buona restare a far compagnia alla nonna Regina e alle zie, mentre i suoi genitori comprano il vino nero alla cantina sociale. La nonna ci sente solo urlandole nell’orecchio, e poi, da qualche mese, non ci vede più: solo ombre, dice. Il dottore ha scosso la testa perché l’età non giustifica interventi e poi la paziente ha quasi novanta anni e vuole restare vicino al braciere per giornate e giornate, seduta ferma ferma, solo la testa si volta di qua e di là a cercare rumori, sottili movimenti di aria, verso i quali lanciare rimbrotti e ordini.
La zia silenziosa fa un cruciverba facilitato, sotto una luce fioca e quasi appoggia il libretto sul seno prosperosissimo: le braccia sembrano ancora più tozze, a volte le resta la punta della lingua fra le labbra sottili in cerca della parola giusta.
“Stai qua, stai, facci nu’ picca di compagnia. Non lo diciamo neanche alla nonna, ché tanto non ci vede e non ci sente” avevano detto “cussi non si preoccupa”.
Non bisogna preoccupare la nonna. Nella testa di Regina c’è una geometria difensiva che descrive il mondo in poche mosse e rigorosi equilibri; i bambini avevano negli anni imparato a stare seduti per ore sulle sedie impagliate e a trovare giusto che, al minimo cenno di vivacità, mamma e papà riportassero l’universo all’immobilità con un sospiro: “Fermo... per la nonna” e quel cenno del capo come dire che si dovevano a nonna Regina obbedienze assolute e silenziose, sacrifici di esistenze, assurdi riti quotidiani, paura coltivata al riparo di una porta finestra e resa categoria del vivere.
“Che dici Cecì?” la zia ciarliera cerca di animare la penombra che continua a ispessirsi e si diverte all’idea che nonna Regina non sappia che intorno al braciere sia rimasta anche una nipote, malsopportato cavallo di troia di un esercito di elettrodomestici e automobili e donne in pantaloni e televisori a colori che preme, sempre vigorosamente respinto, al di là di quella porta.
Nonna Regina ha le mani ben distese sui braccioli della poltroncina preferita: “E quedda tutte le vote...” nessuno può fermare nonna Regina che parla per sancire, per urticare, per umiliare, per ricondurre a un ricordo millenario e ricostruito a misura “...tutte le vote si vene a pigghia, prima cu parte, la decimila lire, tutte le vote” sbuffa.
“Cé sta dì? Cé sta dì? Cecilia sta qua, sta ‘spetta qua” tenta di rimediare la zia.
“Qua? Dove? Piccé nun me l’a dittu?”
Questo stupido rito dei saluti che non piace a nessuno, pensa Cecilia, ogni volta, ogni volta si sostanzia in questa diecimila lire spiegazzata, che passa da una mano rugosa alla sua con un mezzo sorriso dovuto.
Diecimila lire è il prezzo di mercato di un legame familiare che ogni momento si snoda per natura e si riannoda per convenzione.
“La nonna non ci sta con la capo, Cecì” dice la zia, pasticciando con le parole e i gesti e gli sguardi, immaginando che chiamare in causa la follia senile renda il disastro diplomatico più lieve.
La cattiveria si può coltivare negli anni, per starsene all’ombra, tranquille: “teniamo la mamma che è anziana” o “la mamma no’ vole” può far comodo contro la minaccia di una lusinga della vita; la vita, poi, spesso, ti ripaga per averle saputo resistere, concedendo un regalo finale, qualche mese durante il quale il tuo carnefice, la tua scusa esistenziale, si riduce progressivamente a un malato inascoltato di cui prendersi gioco. “Non lo diciamo alla mamma, cussì sta tranquilla”; gli occhi sono opachi e non vedono le zitelle bambine che si prendono piccole inutili libertà tardive.
Cecilia mette la mano in tasca e sente, liscio, il foglietto delle diecimila lire scivolato sul fondo.
“Stasera non riesco a capire neanche una parola di quello che dice la nonna, zia” e si chiede se risulta credibile la sua smorfietta da bambinona affettuosa.
Il sollievo si contrae in un “menumale” sussurrato che ristagna un momento sul braciere.
E’ arrivato papà. Baci affrettati.
“Piccé nun me l’a dittu ca stava quedda qua? Piccé nun me l’a dittu?” sente Cecilia dietro la porta finestra che si chiude alle sue spalle, intanto ripara i capelli dalla pioggia con le mani e corre verso la macchina.
Vicino alla porta finestra Cecilia aspetta che tornino a prenderla e cerca di tenere caldi almeno i piedi, appoggiati alla pedana circolare di legno grezzo che sostiene e circonda il braciere.
La zia ciarliera ogni tanto le appoggia affettuosa una mano sulla coscia:
“Cecì, che mi dici? Qualche bella novità?”
Gli occhietti sepolti fra le pieghe delle guanciotte dardeggiano promesse di fidanzati facoltosi, richieste affamate di racconti di un qualche possibile particolare piccantello alle quali Cecilia non può rispondere perché non c’è niente da raccontare, né fidanzati, né pretendenti, nemmeno brutti, e questa sua incapacità di regalare qualche piccolo e non innocente brivido di pettegolezzo la fa quasi sentire in colpa.
Da incerto il tempo è diventato pioggia fine e insistente e Cecilia avrebbe avuto bisogno di questo pomeriggio per un ultimo giro sul lungomare, per un respiro di orizzonte prima di chiudere la valigia.
Invece il padre ha organizzato l’ennesimo rito di saluto ai parenti del paese.
Anche queste vacanze non hanno avuto nessuna novità: il treno puzzolente ha cullato sogni di ristoro emotivo all’andata, le tavole imbandite di minestroni e spezzatini si sono alternate a merende a base di focacce unte fatte in casa e, subito, gli ultimi due giorni, si fa la conta delle ore e si saluta tutti, un saluto sorridente e inutile e uno scambio di baci sulle guance, poi di nuovo la stazione e il finestrino lercio e il distacco dai genitori è uno strazio al quale il dondolio del treno cerca di dare un senso per le dodici, tredici ore a seguire.
Non è stata una idea buona restare a far compagnia alla nonna Regina e alle zie, mentre i suoi genitori comprano il vino nero alla cantina sociale. La nonna ci sente solo urlandole nell’orecchio, e poi, da qualche mese, non ci vede più: solo ombre, dice. Il dottore ha scosso la testa perché l’età non giustifica interventi e poi la paziente ha quasi novanta anni e vuole restare vicino al braciere per giornate e giornate, seduta ferma ferma, solo la testa si volta di qua e di là a cercare rumori, sottili movimenti di aria, verso i quali lanciare rimbrotti e ordini.
La zia silenziosa fa un cruciverba facilitato, sotto una luce fioca e quasi appoggia il libretto sul seno prosperosissimo: le braccia sembrano ancora più tozze, a volte le resta la punta della lingua fra le labbra sottili in cerca della parola giusta.
“Stai qua, stai, facci nu’ picca di compagnia. Non lo diciamo neanche alla nonna, ché tanto non ci vede e non ci sente” avevano detto “cussi non si preoccupa”.
Non bisogna preoccupare la nonna. Nella testa di Regina c’è una geometria difensiva che descrive il mondo in poche mosse e rigorosi equilibri; i bambini avevano negli anni imparato a stare seduti per ore sulle sedie impagliate e a trovare giusto che, al minimo cenno di vivacità, mamma e papà riportassero l’universo all’immobilità con un sospiro: “Fermo... per la nonna” e quel cenno del capo come dire che si dovevano a nonna Regina obbedienze assolute e silenziose, sacrifici di esistenze, assurdi riti quotidiani, paura coltivata al riparo di una porta finestra e resa categoria del vivere.
“Che dici Cecì?” la zia ciarliera cerca di animare la penombra che continua a ispessirsi e si diverte all’idea che nonna Regina non sappia che intorno al braciere sia rimasta anche una nipote, malsopportato cavallo di troia di un esercito di elettrodomestici e automobili e donne in pantaloni e televisori a colori che preme, sempre vigorosamente respinto, al di là di quella porta.
Nonna Regina ha le mani ben distese sui braccioli della poltroncina preferita: “E quedda tutte le vote...” nessuno può fermare nonna Regina che parla per sancire, per urticare, per umiliare, per ricondurre a un ricordo millenario e ricostruito a misura “...tutte le vote si vene a pigghia, prima cu parte, la decimila lire, tutte le vote” sbuffa.
“Cé sta dì? Cé sta dì? Cecilia sta qua, sta ‘spetta qua” tenta di rimediare la zia.
“Qua? Dove? Piccé nun me l’a dittu?”
Questo stupido rito dei saluti che non piace a nessuno, pensa Cecilia, ogni volta, ogni volta si sostanzia in questa diecimila lire spiegazzata, che passa da una mano rugosa alla sua con un mezzo sorriso dovuto.
Diecimila lire è il prezzo di mercato di un legame familiare che ogni momento si snoda per natura e si riannoda per convenzione.
“La nonna non ci sta con la capo, Cecì” dice la zia, pasticciando con le parole e i gesti e gli sguardi, immaginando che chiamare in causa la follia senile renda il disastro diplomatico più lieve.
La cattiveria si può coltivare negli anni, per starsene all’ombra, tranquille: “teniamo la mamma che è anziana” o “la mamma no’ vole” può far comodo contro la minaccia di una lusinga della vita; la vita, poi, spesso, ti ripaga per averle saputo resistere, concedendo un regalo finale, qualche mese durante il quale il tuo carnefice, la tua scusa esistenziale, si riduce progressivamente a un malato inascoltato di cui prendersi gioco. “Non lo diciamo alla mamma, cussì sta tranquilla”; gli occhi sono opachi e non vedono le zitelle bambine che si prendono piccole inutili libertà tardive.
Cecilia mette la mano in tasca e sente, liscio, il foglietto delle diecimila lire scivolato sul fondo.
“Stasera non riesco a capire neanche una parola di quello che dice la nonna, zia” e si chiede se risulta credibile la sua smorfietta da bambinona affettuosa.
Il sollievo si contrae in un “menumale” sussurrato che ristagna un momento sul braciere.
E’ arrivato papà. Baci affrettati.
“Piccé nun me l’a dittu ca stava quedda qua? Piccé nun me l’a dittu?” sente Cecilia dietro la porta finestra che si chiude alle sue spalle, intanto ripara i capelli dalla pioggia con le mani e corre verso la macchina.
Biblioteca
A curiosare nella biblioteca vicina al nuovo ufficio Elisa è andata senza Michele.
Sarebbe stato scontato, solo poche settimane fa, che in un posto così, la prima volta, si andasse insieme.
Il numero civico coincide con quello del museo, cioè con l’ingresso maestoso e malridotto di un palazzo antico; lo sguardo un po’ incerto di Elisa si incrocia con quello di turisti convinti, alcuni dei quali addirittura si fanno fotografare sotto la statua, al centro del primo scarno cortiletto.
Però lo scalone solenne che, alla fine di un ampio corridoio in penombra, ornato di statue grosse e insensate, conduce alla biblioteca, le strappa un sorriso di soddisfazione: fa scena percorrerne i gradini che procedono verso il pianerottolo, dove si può decidere perfino se proseguire dalla rampa destra o dalla rampa sinistra, per farsi accogliere da porte massicce di legno antico e vetro, verso un mondo profumato di carta vecchia.
Elisa si è fatta questa stupida idea che chi varchi l’ingresso di una biblioteca ammuffita sia una specie di eroe; che gli impiegati sepolti sotto la volta di affreschi ingrigiti debbano solo sorriderle e premiarla, e riversarle libri e sapere e gentilezza.
La donna invece la redarguisce in malo modo: “Prego!” vocetta acuta “signora! Le borse vanno lasciate negli armadietti al piano ammezzato”.
Sì, Elisa ha visto il bugigattolo inquietante sul lato sinistro dello scalone, salendo.
“Per iscriversi al prestito, mi scusi?”
“Carta d’identità, foto tessera, codice fiscale”.
Ributtata sul pianerottolo, Elisa si rammenta di una fotina persa in qualche piega del portafoglio, da qualche anno.
Lotta con la serratura della cassetta: bisogna infilare una moneta da un euro per poter girare la chiavetta, lascia la borsa, trattiene il portafoglio, il foglietto dove ha segnato senza un vero criterio i titoli da cercare, le chiavi dell’armadietto le cadono, che ne faccio del cellulare, perderò qualcosa...
Di Michele in realtà non sa nulla. Eppure si erano ripetuti all’infinito i numeri dei giorni: qui cominciano le tue ferie, poi tu torni ma io sono già partita, però se tu sei in ufficio provo a richiamarti dal cellulare, se posso; poi parti anche tu, il “silenzio-radio” quanto dura? Poco, dai. Rientriamo lo stesso giorno.
Quali libri porti?
Tu che cosa leggi?
Funziona così da lunghi mesi, tu leggi e me lo passi; io scovo un titolo e lo leggo, te ne parlo, te lo porti a casa, me lo porto a casa. Ce lo raccontiamo.
Alcuni che mi proponi sono una pizza. Mi sforzo ad arrivare fino in fondo perché sennò come facciamo a parlarne?
Quanti che ti ho passato io in realtà hai trovati tremendi e non me l’hai detto per non rischiare neanche un po’ di contraddirmi?
La guardiana del paradiso dei libri questa volta è meno bellicosa; forse l’ostinatezza del ripresentarsi in capo a pochi minuti, munita di foto è un primo lasciapassare.
Ma non è lei a concedere il tesserino.
Qui, nel primo antro disordinato, si compila solo una “carta d’ingresso”: dati anagrafici e numero di documento e con questo foglietto anni settanta si può marciare trionfali oltre la seconda porta.
Quando erano nello stesso edificio Elisa e Michele non avevano bisogno di sentirsi per telefono. Qualunque gomito di corridoio poteva servire a scambiarsi libri e articoli.
Si stampavano l’uno con l’altro gli editoriali più interessanti, della stessa idea politica, manco a dirlo.
A casa avevano fatto l’abbonamento alle stesse riviste e se ne segnalavano i pezzi. Nei momenti di maggiore noia si erano anche divertiti a risolvere i quiz e li avevano spediti firmati da una sigla che comprendesse i nomi di entrambi, come i giochini dei bambini delle medie.
Lo stanzone verso il quale l’hanno sospinta per l’emissione dell’agognata tessera a Elisa pare immenso; le vengono in mente le splendide biblioteche delle ville dei ricchi in costumi ottocenteschi: scaffali scuri e un po’ sberciati, fino al soffitto, con una sottile balconata che corre tutto intorno.
Al centro le immancabili file ordinate di cassettini dell’archivio: ognuno di essi contiene un pacco di cartoncini forati e infilati nella sbarretta, così da poterli scorrere con un solo dito.
Lo stesso sistema visto in biblioteche ovunque; perfino la calligrafia che ha vergato i più vecchi sembra la stessa. Elisa si chiede se c’è all’origine una regola comune all’intera penisola per la tenuta degli schedari, per la dimensione delle schedine, per lo spessore dell’inchiostro di titoli e autori e argomenti e codici.
Dietro il grosso bancone delle consegne le facce degli impiegati però non sono molto diverse da quelle dei dipendenti comunali addetti alle dimesse consuete biblioteche rionali: lenti, sospesi in pensieri lontani, uomini sui cinquanta finto-alternativi con i capelli lunghi, donne grasse che bevono thè dai bicchieri di plastica pucciandoci dentro tre rigorosamente tre biscotti, sandaletti, una quarantenne abbronzata post ferie che passerebbe inosservata per strada e qui sembra Miss Muretto.
Con Michele la biblioteca rionale era un posto consueto: una piccola sala luminosa al piano terra, circondata da un accenno di giardino, con pochi, miseri libri disposti su scaffali colorati e accessibili a chiunque semplicemente allungando la mano. Serviva anche a passarci qualche intervallo pranzo invernale. A Elisa la situazione sembrava imbarazzante, aveva sempre paura che qualcuno si lamentasse delle chiacchiere che facevano leggendo a turno, provando a rivedere gli esercizi di matematica di uno dei figli di Michele, o commentando l’ultima lezione di storia di uno dei figli di Elisa. La verità è che Elisa non si preoccupava che qualcuno facesse loro un ssssshhh seccato: era ossessionata dall’idea che alzassero l’indice a domandare ragione di quel loro stare insieme così spesso e nessuno dei due avrebbe saputo come rispondere. Eppure, si diceva, se lei stessa fosse stata osservatrice esterna delle scenette quotidiane che li vedevano protagonisti fra un ascensore e un angolo macchinetta caffè, non avrebbe avuto dubbi.
Alla fine la tesserina di cartone, con quella sua vecchia foto pinzata in un angolo, le viene consegnata ed Elisa chiede le spiegazioni per il ritiro: tutto sembra così austero e inefficiente, ma qualche solerte innovatore ha voluto su un lato del salone una fila di personal computer, con i titoli dell’archivio in rete e un solo clic per inviare l’ordine all’addetto nascosto chissà dove.
Fatto.
Si tratta solo di attendere quei venti, trenta minuti che un bradipo umano porti i due romanzi sul bancone della consegna; il tempo per guardarsi intorno, passeggiare fra gli schedari, chiedersi che cosa possa mai esserci nei libri grossi grossi e ingrigiti che tappezzano le pareti, i cui titoli fanno riferimento a cose pompose come proposte di legge, richieste di brevetto depositate, testimonianze misteriose di una vita civile organizzata in un modo a lei ignoto.
Questa attesa sarebbe trascorsa con Michele, forse, se lo avesse trovato in ufficio al rientro dalle ferie.
Quando il trasferimento di Elisa era stato ufficializzato, avevano ripetuto come sciocchi all’infinito il ritornello:
che problema c’è
qualche fermata di metropolitana
tutti i giorni
continuare a sentirci
i nostri libri
la nostra matematica
ho scoperto che vicino c’è una biblioteca grande
ci andiamo...
Elisa alla sera si sentiva esausta i primi giorni; non riusciva ad allontanarsi dalla scrivania senza l’angoscia di perdersi un possibile trillo, teneva incessantemente sotto controllo la posta interna, si lamentava con tutti, trovava squallido l’ufficio open space, ostile e pretenzioso il quartiere e preferiva essere lei a raggiungere Michele all’ora di pranzo, studiando il percorso più veloce nei sotterranei della metropolitana, contando il numero di carrozza più vicino all’uscita, per non perdere tempo, per starci nell’ora.
Non avevano combinato più nulla: sulle panchine del parchetto era difficile persino tenere in mano carte e libro, mancava la voglia, mancava il senso. Avevano preso il panino o il gelato. Elisa parlava, parlava e si lamentava della nuova sistemazione, del fallito tentativo di opporsi al trasferimento, del capetto di turno che l’aveva dichiarata insostituibile, facendole un danno mentre ufficialmente la lodava.
Un paio di volte era squillato il cellulare e non c’era giustificazione per dire dove fosse a quell’ora e, alla presenza di Michele, la situazione le era apparsa difficile, ambigua: non c’erano parole precise per capire chi erano e che cosa stavano facendo in realtà.
Le ferie quasi un sollievo fisico.
Quelle di Elisa erano le solite.
Michele aveva detto che sarebbe andato a zonzo in moto, lui e sua moglie da soli, i figli ormai grandi. Una cosa romantica, aveva pensato Elisa. Come ai vecchi tempi, era sfuggito inopportunamente a Michele.
Eppure del giorno del rientro che le aveva detto, Elisa era certa.
Come era certo che era ormai trascorsa quasi una settimana e quindi il collega che aveva risposto, invece di Michele, la data del rientro l’aveva detta giusta.
L’abbronzatura di Elisa si lavava via un pezzo per volta e non era già più tanto lucida.
Chissà forse una decisione improvvisa, un problema... speriamo di no; oppure semplicemente delle ferie bellissime che valeva la pena prolungare, semplicemente.
Elisa solleva lo sguardo verso il bancone dove sono stati posati due libri; l’impiegato con la faccia rotonda li rigira fra le mani e recita ad alta voce il suo cognome; “Prendo nota che sono integri, senza segni; controlli anche lei, prego”.
Sono nuovissimi, deve constatare Elisa, nessuno li ha mai letti.
Le piace questa sensazione di carta fresca, questo pacchetto compatto di libro mai aperto. Come se essere la prima a sfogliare un libro che dovrebbe essere là per tutti, a disposizione di centinaia di mani affamate, fosse un privilegio raro, un regalo.
Questa biblioteca è bellissima,
comoda,
importante,
ci verrò spesso,
davvero spesso.
Ormai.
Sarebbe stato scontato, solo poche settimane fa, che in un posto così, la prima volta, si andasse insieme.
Il numero civico coincide con quello del museo, cioè con l’ingresso maestoso e malridotto di un palazzo antico; lo sguardo un po’ incerto di Elisa si incrocia con quello di turisti convinti, alcuni dei quali addirittura si fanno fotografare sotto la statua, al centro del primo scarno cortiletto.
Però lo scalone solenne che, alla fine di un ampio corridoio in penombra, ornato di statue grosse e insensate, conduce alla biblioteca, le strappa un sorriso di soddisfazione: fa scena percorrerne i gradini che procedono verso il pianerottolo, dove si può decidere perfino se proseguire dalla rampa destra o dalla rampa sinistra, per farsi accogliere da porte massicce di legno antico e vetro, verso un mondo profumato di carta vecchia.
Elisa si è fatta questa stupida idea che chi varchi l’ingresso di una biblioteca ammuffita sia una specie di eroe; che gli impiegati sepolti sotto la volta di affreschi ingrigiti debbano solo sorriderle e premiarla, e riversarle libri e sapere e gentilezza.
La donna invece la redarguisce in malo modo: “Prego!” vocetta acuta “signora! Le borse vanno lasciate negli armadietti al piano ammezzato”.
Sì, Elisa ha visto il bugigattolo inquietante sul lato sinistro dello scalone, salendo.
“Per iscriversi al prestito, mi scusi?”
“Carta d’identità, foto tessera, codice fiscale”.
Ributtata sul pianerottolo, Elisa si rammenta di una fotina persa in qualche piega del portafoglio, da qualche anno.
Lotta con la serratura della cassetta: bisogna infilare una moneta da un euro per poter girare la chiavetta, lascia la borsa, trattiene il portafoglio, il foglietto dove ha segnato senza un vero criterio i titoli da cercare, le chiavi dell’armadietto le cadono, che ne faccio del cellulare, perderò qualcosa...
Di Michele in realtà non sa nulla. Eppure si erano ripetuti all’infinito i numeri dei giorni: qui cominciano le tue ferie, poi tu torni ma io sono già partita, però se tu sei in ufficio provo a richiamarti dal cellulare, se posso; poi parti anche tu, il “silenzio-radio” quanto dura? Poco, dai. Rientriamo lo stesso giorno.
Quali libri porti?
Tu che cosa leggi?
Funziona così da lunghi mesi, tu leggi e me lo passi; io scovo un titolo e lo leggo, te ne parlo, te lo porti a casa, me lo porto a casa. Ce lo raccontiamo.
Alcuni che mi proponi sono una pizza. Mi sforzo ad arrivare fino in fondo perché sennò come facciamo a parlarne?
Quanti che ti ho passato io in realtà hai trovati tremendi e non me l’hai detto per non rischiare neanche un po’ di contraddirmi?
La guardiana del paradiso dei libri questa volta è meno bellicosa; forse l’ostinatezza del ripresentarsi in capo a pochi minuti, munita di foto è un primo lasciapassare.
Ma non è lei a concedere il tesserino.
Qui, nel primo antro disordinato, si compila solo una “carta d’ingresso”: dati anagrafici e numero di documento e con questo foglietto anni settanta si può marciare trionfali oltre la seconda porta.
Quando erano nello stesso edificio Elisa e Michele non avevano bisogno di sentirsi per telefono. Qualunque gomito di corridoio poteva servire a scambiarsi libri e articoli.
Si stampavano l’uno con l’altro gli editoriali più interessanti, della stessa idea politica, manco a dirlo.
A casa avevano fatto l’abbonamento alle stesse riviste e se ne segnalavano i pezzi. Nei momenti di maggiore noia si erano anche divertiti a risolvere i quiz e li avevano spediti firmati da una sigla che comprendesse i nomi di entrambi, come i giochini dei bambini delle medie.
Lo stanzone verso il quale l’hanno sospinta per l’emissione dell’agognata tessera a Elisa pare immenso; le vengono in mente le splendide biblioteche delle ville dei ricchi in costumi ottocenteschi: scaffali scuri e un po’ sberciati, fino al soffitto, con una sottile balconata che corre tutto intorno.
Al centro le immancabili file ordinate di cassettini dell’archivio: ognuno di essi contiene un pacco di cartoncini forati e infilati nella sbarretta, così da poterli scorrere con un solo dito.
Lo stesso sistema visto in biblioteche ovunque; perfino la calligrafia che ha vergato i più vecchi sembra la stessa. Elisa si chiede se c’è all’origine una regola comune all’intera penisola per la tenuta degli schedari, per la dimensione delle schedine, per lo spessore dell’inchiostro di titoli e autori e argomenti e codici.
Dietro il grosso bancone delle consegne le facce degli impiegati però non sono molto diverse da quelle dei dipendenti comunali addetti alle dimesse consuete biblioteche rionali: lenti, sospesi in pensieri lontani, uomini sui cinquanta finto-alternativi con i capelli lunghi, donne grasse che bevono thè dai bicchieri di plastica pucciandoci dentro tre rigorosamente tre biscotti, sandaletti, una quarantenne abbronzata post ferie che passerebbe inosservata per strada e qui sembra Miss Muretto.
Con Michele la biblioteca rionale era un posto consueto: una piccola sala luminosa al piano terra, circondata da un accenno di giardino, con pochi, miseri libri disposti su scaffali colorati e accessibili a chiunque semplicemente allungando la mano. Serviva anche a passarci qualche intervallo pranzo invernale. A Elisa la situazione sembrava imbarazzante, aveva sempre paura che qualcuno si lamentasse delle chiacchiere che facevano leggendo a turno, provando a rivedere gli esercizi di matematica di uno dei figli di Michele, o commentando l’ultima lezione di storia di uno dei figli di Elisa. La verità è che Elisa non si preoccupava che qualcuno facesse loro un ssssshhh seccato: era ossessionata dall’idea che alzassero l’indice a domandare ragione di quel loro stare insieme così spesso e nessuno dei due avrebbe saputo come rispondere. Eppure, si diceva, se lei stessa fosse stata osservatrice esterna delle scenette quotidiane che li vedevano protagonisti fra un ascensore e un angolo macchinetta caffè, non avrebbe avuto dubbi.
Alla fine la tesserina di cartone, con quella sua vecchia foto pinzata in un angolo, le viene consegnata ed Elisa chiede le spiegazioni per il ritiro: tutto sembra così austero e inefficiente, ma qualche solerte innovatore ha voluto su un lato del salone una fila di personal computer, con i titoli dell’archivio in rete e un solo clic per inviare l’ordine all’addetto nascosto chissà dove.
Fatto.
Si tratta solo di attendere quei venti, trenta minuti che un bradipo umano porti i due romanzi sul bancone della consegna; il tempo per guardarsi intorno, passeggiare fra gli schedari, chiedersi che cosa possa mai esserci nei libri grossi grossi e ingrigiti che tappezzano le pareti, i cui titoli fanno riferimento a cose pompose come proposte di legge, richieste di brevetto depositate, testimonianze misteriose di una vita civile organizzata in un modo a lei ignoto.
Questa attesa sarebbe trascorsa con Michele, forse, se lo avesse trovato in ufficio al rientro dalle ferie.
Quando il trasferimento di Elisa era stato ufficializzato, avevano ripetuto come sciocchi all’infinito il ritornello:
che problema c’è
qualche fermata di metropolitana
tutti i giorni
continuare a sentirci
i nostri libri
la nostra matematica
ho scoperto che vicino c’è una biblioteca grande
ci andiamo...
Elisa alla sera si sentiva esausta i primi giorni; non riusciva ad allontanarsi dalla scrivania senza l’angoscia di perdersi un possibile trillo, teneva incessantemente sotto controllo la posta interna, si lamentava con tutti, trovava squallido l’ufficio open space, ostile e pretenzioso il quartiere e preferiva essere lei a raggiungere Michele all’ora di pranzo, studiando il percorso più veloce nei sotterranei della metropolitana, contando il numero di carrozza più vicino all’uscita, per non perdere tempo, per starci nell’ora.
Non avevano combinato più nulla: sulle panchine del parchetto era difficile persino tenere in mano carte e libro, mancava la voglia, mancava il senso. Avevano preso il panino o il gelato. Elisa parlava, parlava e si lamentava della nuova sistemazione, del fallito tentativo di opporsi al trasferimento, del capetto di turno che l’aveva dichiarata insostituibile, facendole un danno mentre ufficialmente la lodava.
Un paio di volte era squillato il cellulare e non c’era giustificazione per dire dove fosse a quell’ora e, alla presenza di Michele, la situazione le era apparsa difficile, ambigua: non c’erano parole precise per capire chi erano e che cosa stavano facendo in realtà.
Le ferie quasi un sollievo fisico.
Quelle di Elisa erano le solite.
Michele aveva detto che sarebbe andato a zonzo in moto, lui e sua moglie da soli, i figli ormai grandi. Una cosa romantica, aveva pensato Elisa. Come ai vecchi tempi, era sfuggito inopportunamente a Michele.
Eppure del giorno del rientro che le aveva detto, Elisa era certa.
Come era certo che era ormai trascorsa quasi una settimana e quindi il collega che aveva risposto, invece di Michele, la data del rientro l’aveva detta giusta.
L’abbronzatura di Elisa si lavava via un pezzo per volta e non era già più tanto lucida.
Chissà forse una decisione improvvisa, un problema... speriamo di no; oppure semplicemente delle ferie bellissime che valeva la pena prolungare, semplicemente.
Elisa solleva lo sguardo verso il bancone dove sono stati posati due libri; l’impiegato con la faccia rotonda li rigira fra le mani e recita ad alta voce il suo cognome; “Prendo nota che sono integri, senza segni; controlli anche lei, prego”.
Sono nuovissimi, deve constatare Elisa, nessuno li ha mai letti.
Le piace questa sensazione di carta fresca, questo pacchetto compatto di libro mai aperto. Come se essere la prima a sfogliare un libro che dovrebbe essere là per tutti, a disposizione di centinaia di mani affamate, fosse un privilegio raro, un regalo.
Questa biblioteca è bellissima,
comoda,
importante,
ci verrò spesso,
davvero spesso.
Ormai.
Con grazia
Una volta Grazia ed io siamo addirittura andate al cinema insieme.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
Successe in un fine settimana, quando le stanze delle studentesse del nord, già disadorne, si svuotavano del tutto.
Restavano soprattutto pugliesi e siciliane nel collegio universitario, fra il sabato e la domenica, con i loro borsellini gonfi di gettoni intorno alle cabine dell’atrio.
Grazia era una calabrese di madre veneta, come amava ripetere. Mia madre ha sposato un calabrese, aveva testimoniato una volta con paradossale e affettuosa accettazione verso chi, prima di essere calabrese, era suo padre.
Erano tempi diversi, con orizzonti ancora ampi; funzionava allora che ritrovarci insieme da ogni dove d’Italia e cercare punti di contatto fosse banale buonsenso e non, come oggi, una bestemmia.
Aveva un profilo scultoreo Grazia, un incarnato soave, un girovita sottile.
Io era grassottella e confusa e contavo i gettoni del telefono: dieci per volta, due volte durante la settimana più la domenica. Fra la povertà ingenua delle mie poche cose e la tranquillità benestante della maggioranza delle collegiali c’era un abisso.
Grazia amava vestire da signora, aveva gonne di panno grigio su collant trasparentissimi che le evidenziavano le ossute e eleganti ginocchia e la caviglie sottili; i compìti twin set di cachemirino, azzurri, verde pallido, rosa antico, le disegnavano un seno giovane e preciso.
Non era la sua bellezza a risultare antipatica: era il lento procedere sui suoi tacchetti, il mento alto, i gesti misurati, il tono basso della voce. E poi si sussurrava che la sua provenienza familiare fosse di quelle che incutono rispetto: così le gregarie che facevano da corte alla direzione ossequiavano la bellezza di Grazia platealmente, per convincere il mondo, e prima di tutto se stesse, che non provavano invidia.
Mi fermò un sabato pomeriggio; io avevo quel cappottone beige, un po’ ruvido, spigato, che forse si usava un paio d’anni prima.
Era buio non per l’ora. Era buio perché Milano d’autunno è opaca.
Mi stupì il lampo di interesse che le passò nello sguardo, come se avermi incontrato avesse di colpo risolto un pensiero che la turbava: “Ciaaaao!”
Risposi ciao, raddrizzando istintivamente le spalle.
“Che malinconia questi sabato; tu che cosa fai domani?”
Potevo dire domani studio; potevo mentire e dire domani esco, scorrazzo per la città, non resto ad aspettare che le ore della domenica si allunghino in silenzio verso il pomeriggio inoltrato, quando risate, passi di corsa e porte sbattute annunciano il ritorno del resto delle studentesse, il ripopolarsi dei bagni e dei corridoi.
Dissi: niente.
La dea della bellezza aveva posato il suo sguardo sul mio accento cupo, sul mio maglione a collo alto, sulla mia pelle di saponetta palmolive, sugli scarponcini blu rasoterra.
“Allora vuoi venire al cinema con me?”
Pensai che ad accompagnarsi a ragazze del nord magre e spigliate, come faceva Grazia, si finisce la domenica a morire di malinconia e ad aver bisogno di paesanotte esteticamente modeste.
Pensai che non avevo i vestiti adatti a far bella figura accanto a Grazia.
Pensai che Grazia mi stava scegliendo.
Era innegabile che Grazia mi stava eleggendo a compagnia domenicale.
Era innegabile che non avrei avuto più bisogno dei caffé da comari chiuse nelle stanze, che avrei solcato gli stanzoni della mensa protetta da una comitiva mista e ridanciana, avrei conosciuto ragazzi, con Grazia i ragazzi sbavavano.
Poi, poi, si cominciava a raccontare, si cominciava a sapere che avevo preso un paio di trenta nei primi esami scritti...
A che ora?
Dissi così, dissi: a che ora.
Io e quel ragazzo ci stringemmo la mano sconcertati entrambi.
Proprio non riesco a ricordare come si chiamasse. Mi ricordo solo che apparteneva alla schiera dei pedanti, di quelli che sgobbano tantissimo per arrivare al sei più e poi nella vita si sistemano bene.
Aveva avuto coraggio a invitare al cinema proprio Grazia, proprio la più bella, e per questo coraggio di bruttino presuntuoso provavo una sorta di tenerezza, lontana come ero dal cinismo che poi gli anni mi avrebbero regalato.
Lui però fu ostile, non nascose il disappunto di trovare anche me nell’atrio del collegio e non mi rivolse più la parola. Grazia era leggera e soddisfatta e, dopo le presentazioni, si dimenticò della mia presenza fisica che cercava di appiattirsi dietro i loro passi sul marciapiede, fino al cinema di via Torino.
Era un cinema d’essai e quindi non costoso, però erano comunque soldi sottratti alle mie telefonate.
Lui dovette pensare che l’occasione andava sfruttata in ogni caso e le fece una dichiarazione classica e sciocca sulle poltroncine, a pochi centimetri dalla mia ingombrante aria fintointeressata a quel film che non ricordo.
Lei lo respinse con grazia e fermezza, lo sapeva fare proprio bene.
lunedì 2 marzo 2009
Non vi lascerò orfani
Perché non leggere Non vi lascerò orfani? Mi sembra di aver capito che in esso una donna più o meno della mia età, cresciuta nella mia stessa epoca, racconta se stessa in rapporto ai propri genitori e racconta il lutto della perdita della propria madre. Non dovrebbe essere una lettura attraente, dato che l’autrice è una donna intelligente le cui creature televisive di solito seguo con una certa attrazione e dato che ho conosciuto l’andarsene da casa, il contatto telefonico quotidiano, l’ambiguità di un mondo e di una autorità parentale lasciata senza rimpianti e rimpianta per tutta la vita nello stesso momento? Ci sono tutte le premesse perché questo libro MI interessi.
Invece è scattato il rifiuto.
Credo di aver bisogno dello schermo della finzione romanzesca. So che l’autore sta facendo inevitabilmente dell’autobiografia anche nel romanzo più fantascientifico, ma preferisco il tacito accordo reciproco per cui tu mi inganni raccontando il tuo vissuto come se fosse una storia inventata e io leggendoti posso immedesimarmi nella storia di un personaggio che mi modello anche un po’ a modo mio; insomma non mi va che l’immagine della star televisiva si sovrapponga fastidiosamente, come se stessi leggendo una rivista di gossip, con tutto il bagaglio altalenante di curiosità idiota e presa di distanza orgogliosa che ne consegue.
Invece è scattato il rifiuto.
Credo di aver bisogno dello schermo della finzione romanzesca. So che l’autore sta facendo inevitabilmente dell’autobiografia anche nel romanzo più fantascientifico, ma preferisco il tacito accordo reciproco per cui tu mi inganni raccontando il tuo vissuto come se fosse una storia inventata e io leggendoti posso immedesimarmi nella storia di un personaggio che mi modello anche un po’ a modo mio; insomma non mi va che l’immagine della star televisiva si sovrapponga fastidiosamente, come se stessi leggendo una rivista di gossip, con tutto il bagaglio altalenante di curiosità idiota e presa di distanza orgogliosa che ne consegue.
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