Le attenuanti ci sono: era il famigerato giorno di Natale, ero ospite forzato, non avevo di meglio da fare, ho saltato un po’.
Risultato: pippone (condivisibile totalmente nella sostanza) contro i ricchi e i vip affidato a una struttura di romanzo similgiallo, senza catarsi finale, con divagazioni su costume e società, pillole spiritualistiche e curiosità giornalistiche sul mondo della moda e del cinema; deboluccio, davvero deboluccio dal punto di vista letterario. Peccato, perché lo sguardo sulla “Superclasse” è senza pietà e forse sarebbe il caso di farci qualche riflessione. Se ci fossero delle aree di sovrapposizione fra i lettori delle riviste di gossip e i lettori di Coelho, magari questo libro potrebbe fare un ottimo servizio all’umanità.
... questo libro è ancora più grande. E quando lo avrò finito ne comincerò un altro e quello sarà ancora più grande, e poi un altro ancora, e allora la mia casa si allargherà fino a diventare una magione, piena di stanze dove loro non potranno trovarmi... (Nick Hornby, How to be good)
martedì 29 dicembre 2009
mercoledì 23 dicembre 2009
correre a natale
quattro chilometri e cento
trenta minuti
guance arrossatissime
ritrovate ciabatte perdute
... ma vieni!
trenta minuti
guance arrossatissime
ritrovate ciabatte perdute
... ma vieni!
natale 2009
Infastidente aria di straordinarietà ingiustificata,
perché non lavoriamo a rendere il più bello possibile il quotidiano
invece di caricare di significati mitici singoli eventi che eventi non sono?
Non voglio la responsabilità di rendere immemorabili i pasti e i pacchetti al solo scopo di fornire ai miei figli qualcosa da deridere.
I pandori sono velenosi e mi procurano acidità di stomaco dopo un solo pezzettino.
Puntualmente qualcuno pubblica un album con i canti di natale; puntualmente qualcuno lo compra commosso.
Noi che abbiamo deciso di vivere altrove paghiamo piccoli tranci di sensi di colpa per non essere a quella tavola dove ci aspetta invano una madre.
Ci siederemo a tavole straniere, ci ingozzeremo, progettando cambi radicali da domani.
perché non lavoriamo a rendere il più bello possibile il quotidiano
invece di caricare di significati mitici singoli eventi che eventi non sono?
Non voglio la responsabilità di rendere immemorabili i pasti e i pacchetti al solo scopo di fornire ai miei figli qualcosa da deridere.
I pandori sono velenosi e mi procurano acidità di stomaco dopo un solo pezzettino.
Puntualmente qualcuno pubblica un album con i canti di natale; puntualmente qualcuno lo compra commosso.
Noi che abbiamo deciso di vivere altrove paghiamo piccoli tranci di sensi di colpa per non essere a quella tavola dove ci aspetta invano una madre.
Ci siederemo a tavole straniere, ci ingozzeremo, progettando cambi radicali da domani.
martedì 22 dicembre 2009
l'amore e gli stracci del tempo
so che è politically correct apprezzare un racconto di guerra e dolore, una storia di amore interrotto, di morte, di divisioni forzate eccetera; se poi la guerra non è in un libro di storia, ma è di pochi anni fa, dietro una curva di autostrada, ancora maggiore è il rispetto
però... un po' confuso il racconto, piani sparpagliati dove perdevo nomi e posti, altalena fra lirismo spinto e cronaca piccola... con un po' di fatica arrivata a metà, poi mollato
però... un po' confuso il racconto, piani sparpagliati dove perdevo nomi e posti, altalena fra lirismo spinto e cronaca piccola... con un po' di fatica arrivata a metà, poi mollato
lunedì 21 dicembre 2009
l'uomo del treno di Leconte
Idea accattivante (professore pantofolaio e delinquente senza pace che si incontrano e si scambiano pezzi di vita per caso); resa della sceneggiatura troppo prevedibile; simbolismi faciloni e finale eccessivo.
Però una così bella aria da film francese che detta in questo modo non si spiega, è quasi una idiozia e allora adesso mi metto alla ricerca delle parole giuste per capire che cosa sia: una specie di aderenza alla realtà (né macchietta né colossal insomma) e una forma di rispetto per i paesaggi e gli ambienti e le quotidianità che fa sì che, anche nel film più drammatico, ci sia un certo gustarsi le cose più belle della vita. Sarà questo?
Però una così bella aria da film francese che detta in questo modo non si spiega, è quasi una idiozia e allora adesso mi metto alla ricerca delle parole giuste per capire che cosa sia: una specie di aderenza alla realtà (né macchietta né colossal insomma) e una forma di rispetto per i paesaggi e gli ambienti e le quotidianità che fa sì che, anche nel film più drammatico, ci sia un certo gustarsi le cose più belle della vita. Sarà questo?
giovedì 17 dicembre 2009
matematici nel sole di stelzer
Un romanzo che parla di amore coniugale.
E’ strano, perché l’amore nei romanzi deve contenere la difficoltà del tradimento, dell’impossibilità o del nascere incerto. I romanzi finiscono dove incomincia il matrimonio: la vita di tutti i giorni in due, la costruzione faticosa di una motivazione al giorno è noiosa, malinconica, comunque tanto poco affascinante quanto troppo vera.
Così si apprezza questo diario minimo, questo lento procedere di piccole tenerezze e bizzarre complicità in vista di un evento tragico preannunciato che illumina la quotidianità, dandole valore di evento raro in quanto già morente.
Chi non lo vorrebbe un matrimonio così? Chi non invidia la magia che pervade le lentissime giornate dei due protagonisti? E’ tutto così dolce e triste. Forse però un po’ troppo irreale per lasciare il segno.
Molto belle le poesie sparse qua e là.
E’ strano, perché l’amore nei romanzi deve contenere la difficoltà del tradimento, dell’impossibilità o del nascere incerto. I romanzi finiscono dove incomincia il matrimonio: la vita di tutti i giorni in due, la costruzione faticosa di una motivazione al giorno è noiosa, malinconica, comunque tanto poco affascinante quanto troppo vera.
Così si apprezza questo diario minimo, questo lento procedere di piccole tenerezze e bizzarre complicità in vista di un evento tragico preannunciato che illumina la quotidianità, dandole valore di evento raro in quanto già morente.
Chi non lo vorrebbe un matrimonio così? Chi non invidia la magia che pervade le lentissime giornate dei due protagonisti? E’ tutto così dolce e triste. Forse però un po’ troppo irreale per lasciare il segno.
Molto belle le poesie sparse qua e là.
mercoledì 9 dicembre 2009
Il tempo materiale di Giorgio Vasta
Quanta sofferenza e vergogna possono avere prodotto questa perla di libro?
Quanti lo hanno letto, quanti ancora lo leggeranno? Quanto è inutile una letteratura così alta?
Non riesco a pensare al dolore e alla fatica che si sono concentrati in pagine di meraviglia per essere poi letti da pochi addetti ai lavori. Che spreco di umanità!
Prendi la terminologia tipica del fenomeno del terrorismo rosso anni settanta e mettilo in bocca a dei ragazzini di scuola media: l’effetto straniante è forte, fortissimo.
Il surreale che ne deriva produce vergogna, perché condannare a posteriori è facile, riconoscere l’immedesimazione colpevole nelle parole che erano alla sorgente, che divennero linguaggio comune è di pochissimi.
Le parole diventano la realtà terribile e la salvezza una bambina muta.
Se poi l’impianto di stile che regge tutto questo dolore è di rara maestria, se la sinestesia dilania, se la simbologia sembra appartenerti... la lettura può diventare insostenibile.
Quanti lo hanno letto, quanti ancora lo leggeranno? Quanto è inutile una letteratura così alta?
Non riesco a pensare al dolore e alla fatica che si sono concentrati in pagine di meraviglia per essere poi letti da pochi addetti ai lavori. Che spreco di umanità!
Prendi la terminologia tipica del fenomeno del terrorismo rosso anni settanta e mettilo in bocca a dei ragazzini di scuola media: l’effetto straniante è forte, fortissimo.
Il surreale che ne deriva produce vergogna, perché condannare a posteriori è facile, riconoscere l’immedesimazione colpevole nelle parole che erano alla sorgente, che divennero linguaggio comune è di pochissimi.
Le parole diventano la realtà terribile e la salvezza una bambina muta.
Se poi l’impianto di stile che regge tutto questo dolore è di rara maestria, se la sinestesia dilania, se la simbologia sembra appartenerti... la lettura può diventare insostenibile.
giovedì 3 dicembre 2009
foto di classe di mario desiati
La sorpresa con Foto di Classe è che mi aspettavo una lettura di autoconferma, assoluzione e consolazione, a causa della conterraneità e della medesima vicenda di cambio di città dopo i diciotto anni.
Invece ho fatto fatica a riconoscermi nella tristezza che pervade il libro. A parte alcune dolorosissime descrizioni di paesaggio postindustriale tarantino.
Ho provato a cercare di capire perché e ho contato la differenza di età fra me e Desiati.
In quella manciata di anni un cambio di generazione così significativo?
Ecco per esempio io, Desiati, non pensavo di essere una emigrata, né tanto meno una fuorisede.
Io semplicemente pensavo che vivere a Taranto o a Milano fosse una cosa molto contingente, un particolare irrilevante; io vivevo dove era il mio lavoro in quel momento e tutto mi sembrava reversibile, possibile e legittimo. Era più aperta la nostra società sul finire degli anni ottanta? Era meno spiccata la differenza fra nord e sud? Era più semplice trovare lavoro? Io mi sentivo sulla scia di un’onda lunga progressista che non poteva mutare direzione, mi sentivo cittadina europea, non mi sembrava che la mia dolorosa città fosse un cosmo ripiegato sui propri problemi, ma semplicemente e solo un quartiere come tanti di tutto un mondo e il mondo era a disposizione pronto a farsi abitare da me, e bastava girare l’angolo e potersi sedere di pieno diritto in qualunque posto.
Tu invece Desiati sembri ritagliare un contorno preciso al quale appartenere senza scampo, qui c’è Martina/Taranto: o resti o fuggi, e se fuggi risolverai parzialmente un problema di sopravvivenza ma resterai sospeso, monco, con un buco nel cuore.
Come è successo che la terra sotto i nostri piedi si è ridivisa in tanti pezzi slegati, che il dialetto e le abitudini di un piccolo posto sono ridiventate legaccio, identità imprescindibile?
Di sicuro le condizioni dell’occupazione si sono deteriorate e semplicemente hanno tolto opportunità alle persone. E questo mi sono sembrati i protagonisti di questa storia: persone senza opportunità, che raccolgono quello che trovano e se lo fanno bastare. Quindi persone alle quali è stato chiuso l’orizzonte, è stata tolta l’idea del divenire e della speranza: un’idea sciocca forse, della quale io ho fatto ancora in tempo a nutrirmi, per mere questioni di anno di nascita.
Desiati descrive persone tristi, scollegate, né di qua né di là.
Tranne una: l’autore, che non riesce a nascondere fra le righe la sottile soddisfazione di lavorare per la Mondadori e di fare lo scrittore, invece delle vitacce dei suoi ex compagni di scuola.
Perché questo a dire il vero ho pensato con fastidio alla fine del libro: se saltasse fuori un mio ex compagno di liceo e si mettesse in testa di farmi l’intervista per sbattermi in faccia con finta compassione una appartenenza che invece lui è ben contento di aver risolto, beh, io lo manderei fortemente a farsi friggere.
Invece ho fatto fatica a riconoscermi nella tristezza che pervade il libro. A parte alcune dolorosissime descrizioni di paesaggio postindustriale tarantino.
Ho provato a cercare di capire perché e ho contato la differenza di età fra me e Desiati.
In quella manciata di anni un cambio di generazione così significativo?
Ecco per esempio io, Desiati, non pensavo di essere una emigrata, né tanto meno una fuorisede.
Io semplicemente pensavo che vivere a Taranto o a Milano fosse una cosa molto contingente, un particolare irrilevante; io vivevo dove era il mio lavoro in quel momento e tutto mi sembrava reversibile, possibile e legittimo. Era più aperta la nostra società sul finire degli anni ottanta? Era meno spiccata la differenza fra nord e sud? Era più semplice trovare lavoro? Io mi sentivo sulla scia di un’onda lunga progressista che non poteva mutare direzione, mi sentivo cittadina europea, non mi sembrava che la mia dolorosa città fosse un cosmo ripiegato sui propri problemi, ma semplicemente e solo un quartiere come tanti di tutto un mondo e il mondo era a disposizione pronto a farsi abitare da me, e bastava girare l’angolo e potersi sedere di pieno diritto in qualunque posto.
Tu invece Desiati sembri ritagliare un contorno preciso al quale appartenere senza scampo, qui c’è Martina/Taranto: o resti o fuggi, e se fuggi risolverai parzialmente un problema di sopravvivenza ma resterai sospeso, monco, con un buco nel cuore.
Come è successo che la terra sotto i nostri piedi si è ridivisa in tanti pezzi slegati, che il dialetto e le abitudini di un piccolo posto sono ridiventate legaccio, identità imprescindibile?
Di sicuro le condizioni dell’occupazione si sono deteriorate e semplicemente hanno tolto opportunità alle persone. E questo mi sono sembrati i protagonisti di questa storia: persone senza opportunità, che raccolgono quello che trovano e se lo fanno bastare. Quindi persone alle quali è stato chiuso l’orizzonte, è stata tolta l’idea del divenire e della speranza: un’idea sciocca forse, della quale io ho fatto ancora in tempo a nutrirmi, per mere questioni di anno di nascita.
Desiati descrive persone tristi, scollegate, né di qua né di là.
Tranne una: l’autore, che non riesce a nascondere fra le righe la sottile soddisfazione di lavorare per la Mondadori e di fare lo scrittore, invece delle vitacce dei suoi ex compagni di scuola.
Perché questo a dire il vero ho pensato con fastidio alla fine del libro: se saltasse fuori un mio ex compagno di liceo e si mettesse in testa di farmi l’intervista per sbattermi in faccia con finta compassione una appartenenza che invece lui è ben contento di aver risolto, beh, io lo manderei fortemente a farsi friggere.
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